Laura Frausin Guarino (Traduttore), Teresa Lussone (Traduttore)
Tempesta in giugno romanzo di Irène Némirovsky
Editore Adelphi
Descrizione-
«Irène Némirovsky» ha scritto Pietro Citati «possedeva i doni del grande romanziere, come se Tolstoj, Dostoevskij, Balzac, Flaubert, Turgenev le fossero accanto e le guidassero la mano». Per tutti coloro che dal 2005 (anno della pubblicazione di “Suite francese” in Italia) hanno scoperto, e amato, le sue opere, questo libro sarà una sorpresa e un dono: perché potranno finalmente leggere la «seconda versione» – dattiloscritta dal marito, corretta a mano da lei e contenente quattro capitoli nuovi e molti altri profondamente rimaneggiati – del primo dei cinque movimenti di quella grande sinfonia, rimasta incompiuta, a cui stava lavorando nel luglio del 1942, quando fu arrestata, per poi essere deportata ad Auschwitz. Una versione inedita, e differente da quella, manoscritta, che le due figlie bambine si trascinarono dietro nella loro fuga attraverso la Francia occupata, e che molti anni dopo una delle due, Denise, avrebbe devotamente decifrato. Qui, nel narrare l’esodo caotico del giugno 1940, e le vicende dei tanti personaggi di cui traccia il destino nel suo ambizioso affresco – piccoli e grandi borghesi, cortigiane di alto bordo, madri egoiste o eroiche, intellettuali vanesi, uomini politici, contadini, soldati –, Némirovsky elimina tutte le fioriture, asciuga e compatta; non solo: ricorrendo alla tecnica del montaggio cinematografico, limitandosi a «dipingere, descrivere», sopprimendo ogni riflessione e ogni giudizio, conferisce a questo allegro con brio un ritmo più sostenuto – e riesce a trattare la «lava incandescente» che ne costituisce la materia con una pungente, amara comicità.
Lo straniero (L’Étranger, Paris 1942)è un romanzo dello scrittore francese Albert Camus (1913-1960)caratterizzato dalle tematiche esistenzialiste: la storia di un delitto assurdo, l’assurdità del vivere e l’indifferenza del mondo. È considerato dal giornale francese Le Monde il miglior libro del XX secolo. La prima edizione italiana con la traduzione di Alberto Zevi. Cfr. Iccu.
Premio Nobel per la Letteratura nel 1957, scrittore difficilmente annoverabile ad una specifica corrente letteraria, Albert Camus nasce il 7 novembre 1913 in Algeria a Mondovi, oggi Dréan. Il padre, fornitore di uva per vinai locali, muore molto giovane durante la Prima guerra mondiale, nella battaglia della Marna, servendo “un paese che non era suo“, come Camus annoterà nel suo ultimo lavoro “Le premier homme”, incompiuto a causa della prematura scomparsa dell’autore. Il giovane Camus rimane con la madre e la nonna; la severità di quest’ultima rivestirà un ruolo molto importante nell’educazione di Albert. Camus spicca negli studi; il professore Jean Grenier, con il quale instaura un’importante amicizia, lo spinge verso l’ottenimento di una borsa di studio per la prestigiosa università di Algeri. La tubercolosi colpisce Albert Camus giovanissimo: la malattia purtroppo gli impedisce di frequentare i corsi e di continuare a giocare a calcio come portiere, attività sportiva nella quale eccelleva. Finirà gli studi da privatista laureandosi in Filosofia nel 1936.
Nel 1934 aderisce al movimento comunista: la sua è più una presa di posizione in risposta alla guerra civile spagnola (1936-1939, che termierà con la dittatura di Francisco Franco) piuttosto che un reale interesse alle teorie marxiste; questo atteggiamento favorevole ma distaccato nei confronti delle ideologie comuniste, porterà Camus sovente al centro di discussioni con i colleghi; spesso oggetto di critiche, prenderà le distanze dalle azioni del partito, per lui poco utili al raggiungimento dell’obiettivo dell’unità degli uomini e dei popoli. Sposa Simone Hie nel 1934 ma il matrimonio finisce presto a causa della dipendenza della donna dagli psicofarmaci. Sei anni più tardi la vita sentimentale di Camus riprende con Francine Fauré. L’attività professionale lo vede spesso impegnato all’interno di redazioni di giornale: uno dei primi impieghi è per un quotidiano locale algerino tuttavia finisce presto a causa di un suo articolo contro il governo, che cercherà poi in tutti i modi di evitare una nuova occupazione di giornalista per Camus in Algeria.
Camus si vede costretto a emigrare in Francia dove collabora per “Paris-Soir” insieme al collega Pascal Pia: questi sono gli anni dell’occupazione nazista e Camus, dapprima come osservatore, poi come attivista, cerca di contrastare la presenza tedesca che ritiene atroce. Negli anni della resistenza si avvicina alla cellula partigiana “Combat” per il cui omonimo giornale curerà diversi articoli. Terminato il conflitto, il suo impegno civile rimane costante: Camus non si piega di fronte a nessuna ideologia, criticando tutto ciò che sembra allontanare l’uomo dalla sua dignità. Lascia il posto all’UNESCO a causa dell’entrata nell’ONU della Spagna franchista. Sarà inoltre tra i pochi a criticare apertamente i metodi brutali del Soviet in occasione della repressione di uno sciopero nella città di Berlino est. Dopo “Il mito di Sisifo” (1942), che costituisce una forte presa di coscienza sull’analisi delle assurdità umane, pubblica nel 1952 il saggio “L’uomo in rivolta”, che lo porterà in polemica con la rivista “Les temps modernes” e alla rottura dei rapporti con Jean-Paul Sartre, con il quale aveva intrapreso numerose collaborazioni, sin dal secondo dopoguerra.
Esce idealmente dalla categoria degli “esistenzialisti”, a cui molti critici lo avevano relegato ma alla quale Camus si era sempre sentito estraneo. Camus nei suoi lavori ha sempre ricercato in modo profondo il legame tra gli esseri umani, cercando di comunicare quell’assurdo insito nelle manifestazioni umane come la guerra o, in generale, le divisioni di pensiero, che Camus indica come azioni inconsapevoli volte a recidere il legame stesso tra gli individui.
Muore il 4 gennaio 1960 a causa di un incidente automobilistico, avvenuto nella cittadina di Villeblevin (vicino Sens). Camus aveva in passato avuto modo di esprimere più volte che un incidente d’auto sarebbe stato il modo più assurdo di morire. In tasca aveva un biglietto ferroviario non utilizzato: si crede avesse pensato di compiere quel viaggio in treno, cambiando idea solo all’ultimo momento.
Opere di Albert Camus-
Romanzi
Lo straniero (L’Étranger, 1942)
La peste (La Peste, 1947)
La caduta (La Chute, 1956)
La morte felice (La Mort heureuse, 1971, postumo)
La ghigliottina (La guillotine, 1958)
Il primo uomo (Le Premier Homme, 1959, ma 1994, postumo e incompiuto)
Saggi
Metafisica cristiana e neoplatonismo (1935), Diabasis 2004.
Il rovescio e il diritto (L’envers et l’endroit, 1937)
Nozze (Noces, 1938)
Il mito di Sisifo (Le Mythe de Sisyphe, 1942)
L’uomo in rivolta (L’Homme révolté, 1951)
L’estate (L’Été, 1954)
Riflessioni sulla pena di morte (Réflexions sur la peine capitale, 1957)
Taccuini 1935-1959, Bompiani 1963
La rivolta libertaria, Elèuthera 1998. (Albert Camus et les libertaires, raccolta del 2008)
Mi rivolto dunque siamo, scritti politici, Elèuthera 2008
Opere teatrali
Caligola (Caligula, 1944)
Il malinteso (Le Malentendu, 1944).
Lo stato d’assedio (L’État de siège, 1948)
I giusti (Les Justes, 1950).
I demoni (Les Possédés, 1959), adattamento teatrale dell’omonimo romanzo di Dostoevskij.
La devozione alla croce, adattamento teatrale della pièce di Pedro Calderón de la Barca. Pubblicato in Francia da Gallimard, in Italia da Diabasis nel 2005.
Vladimir Majakovskij: “non avevo mai udito niente di simile”
Da La nuvola in calzoni
Prologo
Il vostro pensiero, sognante sul cervello rammollito, come un lacché rimpinguato su un unto sofà stuzzicherò contro l’insanguinato brandello del cuore: mordace e impudente, schernirò a sazietà.
Non c’è nel mio animo un solo capello canuto, e nemmeno senile tenerezza! Intronando l’universo con la possanza della mia voce, cammino – bello, ventiduenne.
Teneri! Voi coricate l’amore sui violini. Il rozzo sui timballi corica l’amore. Ma come me non potete slogarvi, per essere labbra soltanto da capo a piedi!
Venite a istruirvi dal salotto, vestita di batista, decente funzionaria dell’angelica lega, voi che sfogliate le labbra tranquillamente come una cuoca le pagine del libro di cucina.
Se volete, sarò rabbioso a furia di carne, e, come il cielo mutando i toni, se volete, sarò tenero in modo inappuntabile, non uomo, ma nuvola in calzoni!
Non credo che esista una Nizza floreale! Da me di nuovo sono esaltati uomini che a lungo hanno poltrito come un ospedale e donne logore come un proverbio.
Vladimir Majakovskij
Vladimir Majakovskij, nato in Georgia nel 1893, figlio di un ispettore forestale, a Mosca dal 1906 e tra le fila bolsceviche dal 1908– fu arrestato tre volte – si uccise il 14 aprile del 1930, sparandosi al cuore. “Secondo la mia impressione, Majakovskij si è sparato per orgoglio, per aver condannato qualcosa in sé o attorno a sé, qualcosa con cui non poteva conciliarsi il suo amor proprio”, scrive Pasternak nella sua ultima riflessione autobiografica, Uomini e posizioni. Pasternak, che baloccava con i cubofuturisti, fu il primo ad accorgersi di Majakovskij, nel 1913. Majakovskij era in scena con la tragedia Vladimir Majakovskij. “Ascoltai, completamente assorto, col cuore in gola, trattenendo il fiato. Non avevo mai udito niente di simile”. Nel 1956, immerso nel gorgo della memoria, Pasternak pensa con malinconia a quel poeta dalla “zazzera scomposta”, “bello e arguto e dotato”, che pareva un “giovane cospiratore terrorista, uno dei personaggi minori, provinciali di Dostoevskij”.
Il genio de La nuvola in calzoni (1915) e del Flauto di vertebre (1916) pare inaridirsi quando il poeta diventa il megafono della Rivoluzione, il guru della Lef, scrittore di “migliaia di versi che oggi possono interessare solo lo storico della cultura” (Michele Colucci). Nonostante la propaganda, i rapporti tra Majakovskij e la Rivoluzione sono difficili, fin da subito. “Il nuovo potere considerava i futuristi con molta diffidenza” (Woroszylski), tanto che nel gennaio del 1919 viene impedito al Collettivo comunista-futurista (Komfut) di organizzarsi in partito politico. Nel Soviet soltanto Anatolij Lunacarskij ‘proteggeva’ Majakovskij, inviso da Lenin, il quale, dopo la pubblicazione del poema 150.000.000 (1921) bacchettò in questo modo la Gosizdat, la casa editrice di Stato – l’organo, di fatto, che decideva cosa pubblicare e cosa no nella Russia rivoluzionaria – “Bisogna troncare tutto questo! Mettiamoci d’accordo perché questi futuristi non possano pubblicare più di due volte l’anno e in non più di 1500 copie”. Majakovskij aveva bisogno di pubblico, di applausi, di prestigio, di riconoscimento. “Solo a lui la novità del tempo scorreva climaticamente nel sangue”, scrive Pasternak, chiudendo Il salvacondotto. Nel poema incompiuto del 1930, A piena voce, il poeta magnifica la propria inquietudine e si redige l’epitaffio: “Spettabili/ compagni discendenti!/ Frugando/ nell’odierna/ merda impietrita,/ studiando le tenebre dei nostri giorni,/ voi,/ forse,/ chiederete anche di me”, il “pulitore di fogne/ dalla Rivoluzione/ mobilitato e chiamato”. Il poeta Majakovskij visse, sempre, nel futuro.
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