Risvolto del libro di Vladimir Nabokov-Lezioni di letteratura russa-Due volte esule, dalla Russia comunista e dall’Europa nazista, negli Stati Uniti Nabokov insegnò per quasi vent’anni letteratura russa al Wellesley College e in seguito alla Cornell University. Erano lezioni memorabili in cui, con paziente tenacia, richiamava l’attenzione su oggetti o particolari che sembrano non avere alcuna rilevanza artistica: la borsa rossa di Anna Karenina; la fetta di cocomero che Gurov mangia rumorosamente in una stanza d’albergo nella Signora col cagnolino o il vestito «serpentino» di Aksin’ja in un altro racconto di Čechov, «artista perfetto»; la ruota del tondeggiante calesse sul quale, in Anime morte di Gogol’, il tondo Čičikov, ipostasi dell’enfia volgarità universale, arriva nella città di NN. Maestro atipico, spericolato, Nabokov avrebbe voluto trasformare gli allievi in «buoni lettori», quelli che non leggono un libro per identificarsi con i personaggi, e tantomeno per imparare a vivere, giacché la vera letteratura – gioco sacro, superiore forma di felicità – non insegna nulla che possa essere applicato ai problemi della vita. Metteva in guardia contro il veleno ideologico del «messaggio» e contro ogni tentativo di cercare la famigerata «anima russa» nell’opera di giganti come Tolstoj, Čechov, Gogol’ e il pur disamato Dostoevskij. Il professor Nabokov non ha alcun metodo, alcun approccio critico: con gli unici strumenti della passione e di una precisione infinita, si limita a scoprire la magia delle parole nelle loro più segrete combinazioni. E noi, come i suoi studenti, lo ascoltiamo incantati mentre va dritto al cuore di questo o quel capolavoro.
In copertina
Konstantin Andreevič Somov, Giovane donna sullo sfondo di un giardino (1913). Collezione privata. heritage image partnership ltd / alamy stock photo
Angelo Maria RIPELLINO-“Lo splendido violino verde”
a cura di Umberto Brunetti-Editore Artemide
DESCRIZIONE-“Lo splendido violino verde” è la raccolta della piena maturità di Ripellino, pubblicata con Einaudi nel 1976, due anni prima della morte prematura. Concepito sotto forma di un diario in cui «si riflette, associandosi ai crucci privati, il malessere, l’inclemenza dell’epoca», il libro orchestra i principali Leitmotive dello scrittore siciliano: la teatralità dell’esistenza, la poesia come talismano per ‘tenere a bada’ la morte, la «buffoneria del dolore». Il commento che accompagna i testi, grazie anche alla consultazione delle agende manoscritte di Ripellino, tenta di districare il fitto tessuto di rimandi e citazioni, che sconfinano nelle arti più disparate, dalla pittura di Chagall all’opera lirica di Donizetti, dal teatro di Čechov e Brecht, filtrato attraverso le regie strehleriane, fino al cinema di Keaton, Chaplin e Fassbinder. Alternando slanci di gioia a note di profondo dolore e giocando sul labile confine tra arte e vita, Ripellino intesse una poesia capace di trasformarsi essa stessa in spettacolo e di rifrangere, come un prisma, i raggi del suo sconfinato orizzonte culturale in un «ribaldo trappolío di colori». Con due scritti di Corrado Bologna e Alessandro Fo.
ENCICLOPEDIA TRECCANI-LODOVICI, Cesare Vico. – Nacque a Carrara, il 18 dic. 1885, da Egisto, industriale del marmo, e da Clementina Baldacci. Completò gli studi giuridici a Roma e negli anni immediatamente successivi alla laurea iniziò la pratica da avvocato. Nel 1911 lasciò la capitale trasferendosi a Lugano dove collaborò alla rivista Coenobium, nella quale, tra i primi, presentò al pubblico italiano l’opera di P. Claudel (Il teatro di Paul Claudel, 1914). Negli anni successivi visse a Milano, dove prese parte ai movimenti d’avanguardia che animavano la vita culturale della città. Il debutto del L. come autore teatrale avvenne a Pavia, nel 1912, con l’atto unico L’eroica.
È la vicenda di una famiglia borghese che, in una villa “isolata e solitaria fra l’alpe Apuana e il mare”, attende la nascita di un bambino fra interessi egoistici e morbose aspettative di guadagno.
Nel 1912, un’altra pièce, intitolata significativamente La patria, andò in scena al teatro Diana di Milano (29 maggio), con mediocre successo; stessa sorte toccò al lavoro successivo, L’idiota (ibid., 17 sett. 1915), rappresentato dalla compagnia Talli-Melato.
Allo scoppio della prima guerra mondiale il L. si arruolò volontario e, dal 1915 al 1917, combatté al fronte, dove fu ferito e due volte decorato. Nel 1917 fu fatto prigioniero dagli Austriaci e trasferito nei campi di prigionia di Mauthausen e poi di Theresienstadt; qui il L. fu animatore del “teatrino dei prigionieri” (nel 1917 vi venne rappresentato un suo atto unico: Per scherzo) e portò a termine la prima stesura de La donna di nessuno, completata subito dopo il suo rientro dalla prigionia e destinata a rivelarlo all’attenzione della critica come una fra le voci più innovative del teatro italiano contemporaneo. Fu un successo non immediato, destinato inizialmente più agli addetti ai lavori che al grande pubblico, se è vero che la commedia, rappresentata per la prima volta al teatro dei Filodrammatici di Milano il 22 dic. 1919 (compagnia Borelli-Bertramo), rimase in cartellone non più di tre serate; le repliche non furono numerose neppure due anni più tardi, quando fu ripresa dalla compagnia di Emma Gramatica che ne fu protagonista. Eppure i tre atti scritti dal L. non passarono inosservati. Anzi, furono immediatamente accolti anche all’estero: tradotta in inglese da P. Sombart e pubblicata nell’autunno del 1922 nella rivista Poet Lore di Boston, La donna di nessuno giunse nei primi anni Venti anche in Francia, soprattutto grazie al significativo interessamento di J.-J. Bernard – a sua volta autore di un “teatro del silenzio” o “dell’inespresso” – e di sua moglie Georgette.
Protagonista de La donna di nessuno è la giovane pittrice Anna, circondata da quattro uomini: il fratello Dino, il pignolo e ombroso Cusano, Giampietro, “non intelligente ma abile”, e Giovannino, “bello come un raggio di sole”. L’amore di Anna è diviso fra Cusano e Giampietro, che finisce per sposare. Come ne L’eroica, è l’imminente nascita di un bambino a far precipitare il dramma. Anna, lacerata da passioni contrastanti, medita un aborto, poi ci ripensa, rinunciando anche all’amore per Cusano. Il L. riesce a costringere la torbida materia sentimentale negli equilibri di uno stile misuratissimo, che suggerisce piuttosto che declamare, cercando di sfuggire al contempo sia alla prosaicità del dialogo naturalista sia a una intonazione dannunziana.
In quegli stessi anni Venti il L. entrò in rapporto con E. Montale, R. Bazlen, G. Debenedetti e altri protagonisti della scena letteraria italiana, e strinse amicizia con scrittori di teatro quali L. Pirandello, P.M. Rosso di San Secondo, U. Betti, e M. Bontempelli. Proprio Pirandello, nel 1929, volle dirigere a Firenze, con Marta Abba nel ruolo della protagonista, Il grillo del focolare, una commedia che il L. aveva scritto in collaborazione con S. Strenkowsky, ispirandosi a un racconto di Ch. Dickens.
Nel 1926, il L., insieme con E. Somaré, fondò Il Quindicinale, fra le prime riviste a segnalare la recentissima pubblicazione degli Ossi di seppia di Montale (Torino 1925) e a ospitare i saggi dedicati dallo stesso Montale alla riscoperta dell’opera di I. Svevo (tra questi una celebre lettura di Senilità). Contemporaneamente, proseguiva un’intensa attività teatrale.
Il L. tentò di andare oltre l’intimismo un po’ asfittico delle prime commedie, intessendo rapporti con l’opera di maestri come A. Čechov, M. Maeterlinck, Bernard, D’Annunzio: gli esiti appaiono incerti, ed è probabilmente proprio l’assorbimento poco convinto e convincente di stilemi dannunziani a rendere disarmonico e provvisorio lo stile dei testi composti dal L. in questo periodo.
Scarso successo ottenne anche la commedia forse più nota di questa fase, La buona novella (Roma, teatro Quirino, ottobre 1923, compagnia Alda Borelli), storia di tre sorelle in un grigio interno di provincia esplicitamente ispirata alle Tre sorelle cecoviane.
Gli esperimenti degli anni Venti fecero, tuttavia, da prologo a futuri successi: Ruota, pièce in cui la sperimentazione di nuove (anche se non più nuovissime) forme sceniche si salda a una cifra stilistica pienamente matura, venne rappresentata a Roma il 23 genn. 1933 (teatro Valle, compagnia di Marta Abba) e si segnalò subito all’attenzione della critica.
“È stata la più bella vittoria riportata, fino ad oggi da Lodovici a teatro” – scrisse S. D’Amico, all’indomani della prima – “Riconosciamo assai lietamente che nel prologo la tecnica cecoviana prediletta dal Lodovici ha dato i risultati migliori: dai piccoli suggerimenti, dalle stucchevoli cadenze, dalle cose grigie e dai suoni indistinti, qui si è creato un clima, espressa una desolazione”. Protagonista della vicenda è Maria, donna ancor giovane e sposata da dieci anni a un marito rozzo e dispotico. Sulla scena l’autore rappresenta la sua reclusione domestica (primo atto) e la sua evasione nel sogno (il secondo, che oggettiva per scene giustapposte le sue fantasie oniriche), fino al drammatico epilogo del terzo atto. Maria, trascinata dalle sue allucinazioni, si getta con trasporto fra le braccia del marito, ma quando torna a rendersi conto della realtà, si suicida gettandosi sotto la macina del mulino.
Nel 1937, al successo di Ruota fece seguito quello de L’incrinatura, subito ribattezzata Isa dove vai? (Genova, teatro Margherita, 19 genn. 1937).
La trama di questa commedia in tre atti appare una sorta di sintesi delle precedenti: al centro dell’attenzione, ancora una volta, un rapporto amoroso ma a tre, quello composto da Isa, suo marito Marco e Luca, un amico di infanzia. L’amichevole intimità fra Isa e Luca, che dura da anni, a un tratto inizia a destare sospetti nel marito, che manifesta alla moglie la sua gelosia; Isa, pur non avendo colpe e pur provando rancore nei confronti di Marco, gli obbedisce, rinunciando per sempre a Luca.
Nel 1935 il L. si trasferì a Roma, dove assunse l’incarico di consulente artistico presso l’Ispettorato del teatro, che mantenne fino al 1953. Dopo il successo di Isa dove vai?, sintesi ed epilogo di un itinerario teatrale, tentò la strada, a lui meno congeniale, del dramma storico. La rappresentazione del Vespro siciliano (Roma, teatro Argentina, luglio 1940) fu accolta tiepidamente sia dal pubblico sia dalla critica; il L. tornò sulle scene solo dieci anni dopo, con un’opera d’occasione, la Caterina da Siena rappresentata da E. Zareschi nel giugno 1950 sul sagrato del duomo della città toscana.
A partire dagli anni Trenta il L., sfruttando la duttilità del suo linguaggio teatrale e la sensibilità stilistica acquisita, aveva intensificato il lavoro di traduzione cui si era dedicato sin dagli anni giovanili.
La vastissima attività in questo campo va dal teatro antico (Aristofane, Plauto) a quello spagnolo (P. Calderón de la Barca, Tirso de Molina, M. de Cervantes), a quello francese (da Molière ad A. Gide) a quello inglese contemporaneo (nel 1940 tradusse Assassinio nella cattedrale di T.S. Eliot); il nome del L. resta comunque legato soprattutto alla traduzione, completata in un ampio arco di anni, di tutto il Teatro di W. Shakespeare (pubblicata integralmente da Einaudi nel 1964).
Significativa è anche l’attività del L. in campo musicale; scrisse infatti libretti per diverse opere, tra cui La scuola delle mogli, da Molière, musicata da V. Mortari (1930; rappr., dopo una revisione: Milano, Piccola Scala, 17 marzo 1959) e La donna serpente, dalla favola di C. Gozzi, musicata da A. Casella (Roma, teatro dell’Opera, 17 marzo 1932).
Nel 1937 il L. aveva debuttato nel cinema scrivendo il soggetto di La fossa degli angeli, regia di C.L. Bragaglia, dramma ambientato nelle cave di marmo di Carrara. Successivamente diede il suo contributo a diversi soggetti e sceneggiature tra cui Ettore Fieramosca di A. Blasetti (1938, collaborando alla sceneggiatura); Tutta la vita in una notte di C. D’Errico (1938, soggetto) trasposizione della sua commedia Ruota; I trecento della Settima di M. Baffico (1942 soggetto).
Nel 1941 venne pubblicata a Roma l’unica raccolta del Teatro del L. (comprendente Ruota, L’incrinatura e La donna di nessuno). Nel secondo dopoguerra il L. assunse l’incarico di critico teatrale per il quotidiano La Giustizia, organo ufficiale del Partito socialista democratico italiano (PSDI). Fino agli ultimi giorni proseguì l’intensa attività di traduttore per Einaudi.
Il L. morì a Roma, il 24 marzo 1968.
Fin dalle opere giovanili appaiono alcune costanti della scrittura teatrale del L.: l’approfondimento dei rapporti fra i personaggi, l’inchiesta sentimentale, la predilezione per le protagoniste femminili, uniche a staccarsi dal coro degli altri personaggi; tutte le sue commedie più importanti si basano su un intrigo sentimentale e sull’analisi psicologica della protagonista. L’intenso rapporto con le avanguardie e i movimenti culturali del primo Novecento non si riflette immediatamente nella sua scrittura teatrale; il primo modello delle sue appassionate indagini di drammi domestici e intrecci amorosi sono autori della fine dell’Ottocento: H. Ibsen e i russi, in particolare Čechov e F. Dostoevskij. L’attenzione per le nuove forme drammatiche si rivela, piuttosto, nella proposta, mai plateale, di innovazioni strutturali e sceniche, nella costante ricerca di un linguaggio vibrante e musicale, in un percorso non scontato, che dalla vicinanza con il caos futurista conduce all’invenzione del “teatro del silenzio”. “Considero l’autore di teatro, se fa sul serio, un umile artigiano, votato a un duro destino” – scrisse il L. (v. Il Messaggero, 4 ag. 1940) in una lettera polemica indirizzata a E. Contini dopo la sua recensione di Vespro siciliano – “C’è bisogno di un coraggio da disperati per non perdersi d’animo giorno per giorno. Altro che rifare Shakespeare!”. Nella stessa lettera il L. indica “una via di salvezza dal teatro egocentrico” – quello delle sue prime opere – “in un ritorno a modelli universali e, specialmente per noi, a quelli del teatro che ha dato il Seicento europeo”.
Fonti e Bibl.: F.M. Martini, Cronache teatrali, Firenze 1924, pp. 247-252; S. D’Amico, Il teatro italiano, Milano 1932, pp. 265-268; R. Simoni, Isa dove vai?, in Corriere della sera, 3 febbr. 1937; D. Fabbri, Vespro siciliano, in Controcorrente, 1940, n. 11; C.V. Lodovici, Una lettera, in Il Messaggero, 4 ag. 1940; D. Fabbri, Il teatro di C.V. L., in Riv. italiana del dramma, V (1941), 3; A. Fiocco, C.V.L., uno e due, in Il Dramma, XVII (1941), 360, p. 48; B. Curato, Sessant’anni di teatro in Italia, Milano 1947, pp. 230-235; I. Sanesi, La commedia, Milano 1954, II, pp. 520 s.; R. Rebora, Il teatro di L., in Sipario, XIII (1955), 111; S. D’Amico, Cronache del teatro, II, Bari 1964, pp. 228-232; R. Radice, Un maestro del silenzio, in Corriere della sera, 26 marzo 1968; D. Fabbri, Il teatro di L., in Persona, settembre-ottobre 1968; Enc. dello spettacolo, VI, coll. 1587-1589.
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