La Chiesetta è stata edifica dal Sig. Enrico SCORSOLINI a perenne memoria di ALBERTO FALCIANI. La chiesetta fu inaugurata da S.E. Monsignor Tito Mancini Vescovo ausiliare di Porto e Santa Rufina , Segretario particolare di S.E. Cardinale EUGENIO TISSERANT. L’inaugurazione avvenne il 16 maggio 1965.La bella chiesetta di campagna fa parte della Parrocchia di Sant’Isidoro di Tragliata, vi si celebra la Messa domenicale e tutti i pomeriggi alle ore 16:00 si recita il Santo Rosario .
S.E. Monsignor Tito Mancini, Vescovo Ausiliare per la Diocesi di Porto e Santa Rufina.
Biografia-S.E. Monsignor Tito Mancini-Il Vescovo Pietro Mancini nacque a Bologna il 24 novembre 1901. Trasferitosi a Firenze entrò giovanissimo nel Convitto della Calza da dove , ordinato sacerdote insieme a Mons. Bagnoli il 25 luglio 1925, uscì per dedicarsi al ministero.
Il quel 25 luglio 1925 furono ordinati preti anche Don Antonio Pettini, Don Romano Rastrelli, Don Serafino Ceri.
A Don Mancini si deve la costruzione della nuova Chiesa parrocchiale di Santa Maria a Coverciano .
Dopo aver svolto il ministero a Coverciano per un certo periodo , cioè sino al mese di agosto del 1933, Don Tito Mancini passo alla Marina Militare con il grado di Capitano dedicandosi all’assistenza religiosa dei marinai; ma i parrocchiani di Coverciano non lo dimenticarono e quando arricchirono di un nuovo concerto di campane il loro campanile vollero che una campana fosse dedicata a San Tito al ricordo proprio di Don Tito Mancini.
Ben presto Don Tito Mancini dovette lasciare il ministero a favore dei marinai perché chiamato a Roma al seguito del Cardinale francese Eugenio Tisserant il quale ripose ogni fiducia nel sacerdote calzista. Ben presto, il 29 gennaio 1947, Don Mancini divenne Vicario Generale della Diocesi di Ostia Porto e Santa Rufina delle quali era titolare il Cardinale Tisserant, e poi lo stesso Cardinale ottenne , nel 1960, dalla Santa Sede che Monsignor Mancini gli fosse assegnato come Vescovo Ausiliare e fu lo stesso Cardinale Tisserant a consacrare.
Si legge nel settimanale “Vita” nell’edizione del 4 aprile 1962 , in un lungo articolo dal titolo TISSERANT a pag. 43 :” il 29 gennaio 1961 il Cardinale Tisserant, versò non poche lacrime di commozione mentre consacra Vescovo Mon. Tito Mancini, assegnatogli come Ausiliare.
Prosegue il cronista:” sembra che consagri Vescovo un figlio.” Era questo il commento dei presenti. Dopo la cerimonia di investitura gli invitati fecero al Cardinale le congratulazioni per aver ottenuto un Vescovo Ausiliare per la Diocesi, il Cardinale rispose così:”Non dovete rallegrarmi con me perché ho avuto il Vescovo Ausiliare, ma perché ho avuto Questo Ausiliare, Mons. Tito Mancini .” Appena aver pronunciato queste parole il Cardinale fece un gesto che commosse profondamente i presenti e il Vescovo Mancini: si sfilò dal dito l’anello episcopale che egli aveva ricevuto 24 anni prima nel giorno della sua propria consacrazione e lo donò al sua neo Ausiliare….”.
Il 28 febbraio 1967 Mons. Tito Mancini passò a reggere le Diocesi di Nepi e Sutri nella Tuscia laziale.
L’attività pastorale di Monsignor Tito Mancini ,molto intensa , diede ottimi frutti. A questo proposito giova ricordare ciò che il parroco Don Alberto Benedetti attestò di lui ancora vivente:” dalla mente e dal cuore…Mancini trae motivo per portare la fiaccola della Fede e l’ardore della Carità in ogni angolo della Diocesi, con semplice umiltà aiuta i parroci , sostituisce quelli improvvisamente impediti per malattia o impegni , nella celebrazione della Santa Messa…” Monsignor Tito Mancini morì a Sutri, rimpianto del clero e dal popolo, dal 4 marzo 1969 è sepolto all’interno della Cattedrale della Diocesi di Porto e Santa Rufina a La Storta vicino al Cardinale Eugenio Tisserant , Monsignor Luigi Martinelli,Monsignor Pietro Villa e Vescovo Andrea Pangrazio, come si legge nell’epigrafe .
Ricerche bibliografiche, foto d’archivio e foto originali sono di Franco Leggeri-
Castel di Guido – 2 maggio 2018-Fotografare i particolari è come inserire gli incisi in un racconto. I particolari sono come sottolineature di appunti, i punti e virgola, ma anche un “nodo al fazzoletto” per ricordarsi di un fatto specifico. Ho fotografato molti particolari ,quelli che ho scoperto, di Castel di Guido. Particolari che , come in un mosaico, si vanno ad incastonare nelle storie che disegno sulla pagina di storia che sto scrivendo. Faccio alcuni esempi, ho fotografato i Punti trigonometrici dell’IGM ora non più utilizzati, vecchie epigrafi testimoni silenziose di storie antiche e ancora particolari come le antenne ripetitrici, la campana e gli stemmi SPQR . Di questi qui di seguito, galleria fotografica, ne propongo alcuni dei “particolari” che ho fotografato.
Mons. Andrea Pangrazio nacque a Táhtászada in Ungheria il 1° settembre 1909, da Anna Rosele e Domenico Pangrazio, originari di Camporovere (altopiano di Asiago). Quinto di sette fratelli, rientrò in Italia con la famiglia poco prima dell’inizio del primo conflitto mon- diale. Frequentò la scuola elementare a Chiampo (VI) e successiva- mente entrò nel seminario minore di Padova, dove compì gli studi gin- nasiali, liceali e teologici.
Il 3 luglio 1932 ricevette l’ordinazione sacerdotale a Padova e fu scelto dal Vescovo Mons. Carlo Agostini come segretario particolare.
Negli anni seguenti il suo ministero si svolse particolarmente a ser- vizio delle aggregazioni cattoliche: Assistente regionale dell’Azione Cattolica Italiana delle Tre Venezie, Vice Assistente nazionale dei laureati cattolici, Delegato vescovile dell’Azione Cattolica a Padova, Assistente provinciale delle ACLI.
In occasione dell’Anno Santo del 1950 organizzò l’Ufficio pellegri- naggi diocesano e si distinse nell’opera di coordinamento delle attività assistenziali a seguito dell’alluvione del Polesine.
Nominato Vescovo da Papa Pio XII il 26 agosto 1953, fu ordinato nella cattedrale di Padova il 4 ottobre seguente con l’ufficio di coadiu- tore del Vescovo di Verona.
Il 19 maggio 1955 fu nominato Vescovo coadiutore di Livorno e il 10 febbraio 1959 assunse il governo pastorale di quella diocesi, in se- guito alla morte di Mons. Giovanni Piccioni. Il suo ministero episcopa- le fu caratterizzato da speciale attenzione al mondo del lavoro, dalla riorganizzazione territoriale delle parrocchie, dalla costruzione di nuo- ve chiese, dalla solidarietà verso i bisognosi. Si dedicò alla formazione del clero e dei laici.
Il 4 aprile 1962 fu promosso Arcivescovo Metropolita di Gorizia – Gradisca, dove iniziò il suo ministero episcopale il 27 maggio successi- vo. Questi anni furono contrassegnati dalla intensa partecipazione ai lavori del Concilio Vaticano II, sui quali riferiva costantemente per iscritto ai sacerdoti e ai fedeli della diocesi. Da ricordare in particolare, durante la discussione dello schema sull’ecumenismo, un suo intervento sul concetto di “gerarchia delle verità”, che confluirà nel decreto Unitatis redintegratio. La riflessione conciliare sulla Chiesa popolo di Dio consentì all’Arcivescovo Pangrazio di seguire con attenzione ancora maggiore la vita e l’esperienza ecclesiale dei fedeli laici.
L’8 agosto 1966 fu nominato Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana, dopo la pubblicazione del nuovo statuto della CEI (16 dicembre 1965), che aveva configurato la Conferenza quasi come una «nuova Conferenza Episcopale Italiana», che mostrava i caratteri di «una sola, omogenea e concorde espressione ecclesiastica» (PAOLO VI, Allocuzione all’Assemblea Generale dei Vescovi italiani, 23 giugno 1966).
Il 2 febbraio 1967 Mons. Pangrazio fu trasferito alla Chiesa subur- bicaria di Porto e Santa Rufina per poter meglio svolgere il suo ufficio di Segretario Generale della CEI; ufficio nel quale fu confermato l’11 luglio 1969.
In questi anni l’attività della Conferenza assunse modalità e perio- dicità assai vicini a quelli attuali e fu avviata l’organizzazione della Segreteria Generale in uffici, in particolare con la costituzione dell’Ufficio Catechistico Nazionale. Da ricordare specialmente la pubblicazione del documento Il rinnovamento della catechesi (1970), l’approvazione della traduzione italiana della Bibbia per l’uso liturgico (1971), l’avvio della traduzione definitiva dei libri liturgici (1969), nonché l’approvazione del documento che ripristinava in Italia il diaconato permanente (1970).
Il 6 settembre 1972 Mons. Pangrazio fu nominato Visitatore Apostolico dei seminari italiani.
Con il compimento del 75° anno, in conformità alle norme canoni- che, presentò la rinuncia al governo pastorale della Diocesi di Porto e Santa Rufina.
Gli ultimi venti anni della sua esistenza li ha vissuti nella Chiesa dove, da ultimo, ha esercitato il suo ministero episcopale e da dove il Buon Pastore lo ha chiamato nel suo regno di luce e di pace il 2 giugno 2005.
La messa esequiale è stata celebrata il 4 giugno 2005 nella cattedrale dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria a La Storta, dove la salma è sta- ta successivamente tumulata. Con il Vescovo di Porto Santa Rufina Mons. Gino Reali hanno concelebrato S.E. Mons. Giuseppe Betori, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana, e altri cinque vescovi.
Castel di Guido- 8 febbraio 2017-“Scoprire Castel di Guido e la CAMPAGNA ROMANA” è il titolo provvisorio di un volume che sta nascendo a seguito delle mie ricerche storiche. L’obiettivo del mio lavoro è “costruire”-“confezionare” un nuovo e agile strumento per conoscere meglio la nostra Campagna Romana .Le ricerche mi hanno portato in varie biblioteche, pubbliche e private, sia di Roma che in altre parti d’Italia. Questa breve nota per comunicare che, durante una ricerca, ho trovato una foto del Cardinal Eugenio TISSERANT con la dedica alla nostra parrocchia. La foto del Cardinal Eugenio TISSERANT, restaurata, ingrandita è ora visibile nella sacrestia della parrocchia dello Spirito Santo.
La foto è stata dedica e autografata da Sua Eminenza Rev.ma Cardinale EUGENIO TISSERANT esattamente il 18 febbraio 1966, quindi, 51anni or sono.
Il Cardinale Eugenio Tisserant è stato il “Rifondatore” della nostra Diocesi e fu anche uno dei promotori dell’Ente Maremma.
Brucia. Brucia il peccato. Brucia il lusso. Brucia il vizio. Brucia il demonio. Brucia la depravazione. Brucia la perdizione.
Brucia la febbre di conquista, nel volto di Girolamo Savonarola (1452-1498): il rivoluzionario, il moralizzatore, il profeta dei Piagnoni.
Le fiamme illuminano i suoi occhi spiritati, quasi in estasi di fronte a quello spettacolo di purificazione.
È il 7 febbraio 1497 e nel grande falò al centro di Piazza della Signoria bruciano migliaia di oggetti: specchi, cosmetici, vestiti di lusso, arpe, bombarde, cetre, chitarre, liuti, ciaramelle, cornamuse, flauti, ghironde, vielle, e ancora dadi, profumi, livree, parrucche, carte da gioco, libri immorali, manoscritti con canzoni profane, dipinti.
Sandro Botticelli ammira i suoi capolavori ardere: errori di gioventù finalmente riparati, opere infamanti che non infangheranno più il suo buon nome.
Dipinti pagani, che ritraggono figure mitologiche e che parlano di sensualità e di passione: Venere, Marte ed Ercole bruciano nel rogo. Brucia il mostruoso Centauro, bruciano i satiri giocherelloni.
Brucia il suo passato di peccato alla corte dei Medici, brucia la vergogna di artista cortigiano foraggiato dalla borghesia fiorentina; brucia per sempre l’epoca in cui dipingeva cicli ispirati al Decameron di Boccaccio e opere piene di allegorie pagane, brucia l’esaltazione del trionfo della vita.
Girolamo Savonarola (Fra Bartolomeo, 1498, olio su tavola, Museo nazionale di San Marco, Firenze)
Per anni Sandro aveva prestato la sua arte per celebrare matrimoni e allietare banchetti di vino ed orge.
Poi era arrivato Savonarola ed era morto Lorenzo il Magnifico, e tutto era cambiato. Tutte le vecchie sicurezze si erano infrante, il trionfo della vita aveva lasciato il passo all’annuncio della morte e del giudizio finale e Sandro si era sentito profondamente colpevole per aver dato volto a quel magistero artistico tanto aspramente condannato dal “santo frate”.
Così, in questo martedì grasso che non era mai stato così magro, e terrificante ed esaltante, lo stesso pittore è corso alla sua bottega per fare razzìa delle sue opere e gettarle nel rogo.
Si guarda intorno e percepisce un’eccitazione generale.
È un’antica usanza, a Firenze, quella di accendere il grande falò per l’ultimo giorno di carnevale: tutto il popolo si adopera per portare in piazza legna, frasche e paglia, e poi lasciarsi andare a danze orgiastiche per tutta la notte.
Savonarola ha deciso di rispettare l’usanza anche quest’anno, ma con una piccola differenza: perché oggi saranno proprio le orge a bruciare sul falò: orge di ogni genere. Ogni forma di lascivia e impudicizia è destinata a finire nel grande rogo: che siano statue di uomini e di donne nudi o quadri dei grandi maestri del tempo, o strumenti musicali, o libri, o canzonieri. Ognuno porta ciò che vuole, e gli artisti stessi fanno a gara per purificare le proprie opere.
Baccio della Porta ha portato tutti i suoi disegni di studi sul corpo umano.
Ha 24 anni e in città è molto amato “per la virtù sua – scrive Vasari – assiduo al lavoro, quieto e buono di natura et assai timorato di Dio”. A Bartolomeo piace la vita quieta e fugge le pratiche viziose e molto gli dilettano le predicazioni, e cerca sempre “le pratiche delle persone dotte e posate”. Naturale, quindi che si sia letteralmente invaghito di Savonarola, tanto da essere spesso ospite nel convento dei frati domenicani, con cui ha stretto amicizia al punto che dopo la morte di Girolamo arriverà a farsi egli stesso frate domenicano. Sta anche preparando un ritratto del grande predicatore e ora ammira soddisfatto trasformarsi in cenere i suoi disegni in cui compaiono le figure nude di uomini e donne.
Al suo fianco, Lorenzo Di Credi osserva le fiamme con il sorriso tra le labbra. Allievo di Verrocchio e amico del Perugino e di Leonardo da Vinci, si è fatto conoscere con opere di arte sacra come la Madonna di piazza e L’Annunciazione, ma non aveva disdegnato di accettare committenze profane come il Ritratto di Caterina Sforza e la Venere. Ma il passato è alle fiamme, ormai. E nel suo futuro c’è solo il fervore religioso.
Un altro falò delle vanità (San Domenico e gli Albigensi) è ricordato nel dipinto del pittore spagnolo Pedro Berruguete
È un orgia casta, quella che si consuma attorno al fuoco, un delirio mistico e violento. Non ha convinto tutti, il frate riformatore: i suoi nemici si sono barricati in casa, altri sono venuti in piazza solo per guardare. Altri ancora sono confusi.
Come Cosimo, che osserva Savonarola, ascolta i suoi anatemi parola per parola. Ammira nei suoi occhi quella luce interiore che hanno gli uomini di fede, ammira la forza, ammira il rigore. Ma quando torna a casa e passa per via Tornabuoni, osserva compiaciuto le botteghe degli artisti, i bordelli, i mercati, e deve ammettere di sentirsi a suo agio tra i condannati.
Chi invece non ha alcun dubbio è lui: il nuovo “re di Firenze”, che si è guadagnato il favore del popolo riformando le tasse e abolendo l’usura e dopo aver rovesciato il regime dei Medici ha sfidato nientemeno che il Papa. Al suo fianco ci sono i fedelissimi Domenico da Pescia e Silvestro da Firenze.
Sono passati tredici anni da quando Girolamo ha messo per la prima volta piede in Firenze. Nella capitale del Rinascimento il frate ferrarese aveva trovato una città ricca, vivace, aperta al riso e al gioco; insomma il trionfo dell’immoralità e dell’indecenza. Più che la culla di una nuova civiltà il feretro di una nuova Sodoma.
Girolamo aveva iniziato subito a lanciare i suoi strali: il castigo divino – aveva annunciato – si sarebbe abbattuto sulla città per la corruzione del clero e dei costumi, per la lussuria, l’idolatria, le credenze astrologiche, la sodomia, il lassismo, la simonia. E aveva conquistato subito il cuore del popolo e dei poveri, che vedevano in lui il riscatto promesso dal Vangelo.
Si era scagliato con sempre più ferocia contro i capi della città che sono “superbi e corrotti, sfruttano i poveri, impongono tasse onerose, falsificano la moneta”.
Si era guadagnato così anche il sostegno dei nemici dei Medici. Lorenzo il Magnifico aveva cercato in ogni modo di fermarlo: con le buone e con le cattive. Lo aveva minacciato di confino e Girolamo aveva risposto che non se ne curava e anzi aveva predetto la prossima morte del principe. “Io sono forestiero e lui cittadino e il primo della città; io ho a stare e lui se n’ha a andare: io a stare e non lui”.
Poi Lorenzo gli aveva contrapposto un frate agostiniano, Mariano della Barba, che non era riuscito a reggere minimamente il confronto con il profeta della Rivoluzione.
Quando poi era diventato priore del convento domenicano, Girolamo si era rifiutato di rendere omaggio al principe come il suo nuovo ruolo avrebbe richiesto e come avevano fatto i suoi predecessori, né si era fatto ammansire dai doni e delle elemosine. E la sua cerchia dei fedeli era aumentata a dismisura.
Con la morte di Lorenzo de’ Medici, nell’aprile del 1492, quella Sodoma sembrava giunta finalmente sull’orlo del tracollo e il “Predicatore dei disperati” si era assunto il compito di salvarla dalla dannazione.
Monumento al frate domenicano in Piazza Savonarola a Firenze
Sinistri presagi avevano accompagnato la morte del Magnifico: durante una terribile tempesta un fulmine aveva colpito la cupola di Santa Maria del Fiore, lo stemma dei Medici era finito in mille pezzi e il medico di Lorenzo era stato trovato morto in fondo a un pozzo.
Tutti segnali, aveva spiegato il domenicano giunto da Ferrara, che l’Apocalisse era imminente. Dal pulpito del Duomo aveva lanciato i suoi strali contro l’immoralità dei fiorentini, l’arte rinascimentale, ma anche la ricchezza e il lusso della stessa Chiesa in mano al famigerato Alessandro VI Borgia.
Due anni dopo a suggellare la fine di un’epoca era arrivata l’invasione dell’esercito francese.
Carlo VIII era infatti determinato a prendersi anche la corona del Regno di Napoli che gli spettava – sosteneva – per supposti diritti ereditari.
Messosi in marcia sull’Italia con 30mila soldati di cui 8mila mercenari svizzeri, il 17 novembre 1494 era entrato a Firenze. Girolamo aveva enfatizzato il pericolo di saccheggi e violenze puntando il dito contro l’incapace Piero dei Medici, che prima si era schierato dalla parte degli aragonesi attirandosi l’ostilità del Re di Francia, poi si era arreso clamorosamente asservendosi del tutto al francese. Il popolo si era quindi indignato e ribellato e lo aveva cacciato dalla città proclamando la Repubblica.
Passato Carlo VIII, il potere è passato al governo democratico della Repubblica, ma in realtà è il predicatore domenicano ad aver assunto il pieno controllo della città e a dettare le regole a cui tutti, volenti o nolenti, devono adeguarsi.
Il supplizio di Savonarola – (Francesco di Lorenzo Rosselli, 1498 – Museo di S. Marco, Firenze)
Ora a Firenze non si gioca più in pubblico, le taverne sono serrate e le donne sono state costrette a rinunciare ad abiti troppo scollati e lascivi. La nuova Sodoma è diventata una nuova Gerusalemme, una terra santa dove si sperimenta una nuova forma di democrazia. Morale e popolare. Dove non sono più le regole del tiranno a dettare legge, ma quelle di Dio. O per meglio dire, del suo portavoce in tonaca bianca e mantella nera.
Una nuova democrazia, libera della corruzione dei potenti, ma assoggettata a un padre padrone che non insegue i propri interessi personali, ma decide per il bene della comunità e opera secondo giustizia. Il problema è che è lui il solo a decidere cosa è bene e cosa è giusto.
I gruppi politici si sono divisi in molte fazioni: i Bianchi (repubblicani) i Bigi (favorevoli ai Medici), i Frateschi o Piagnoni (sostenitori di Savonarola) e Arrabbiati o Palleschi (nemici giurati del frate). I Bianchi cercano di farsi valere sui Piagnoni e iniziano le prime frizioni: le proposte di legge di Girolamo per proibire le vesti scollate e le acconciature troppo elaborate vengono bocciate dal governo della città.
Intanto papa Borgia cerca in tutti i modi di liberarsi dell’ingombrante e ribelle frate: ha provato a spedirlo a predicare a Lucca, ma ha dovuto rinunciare per le proteste del popolo fiorentino. Poi lo ha convocato a Roma per interrogarlo, ma Girolamo ha rifiutato adducendo motivi di salute, e ha inviato una memoria scritta.
Lapide in piazza della Signoria a Firenze che ricorda il rogo di Savonarola
In seguito sono arrivate le sospensioni dagli incarichi, divieti di predicare e altri provvedimenti disciplinari, che Borgia ha dovuto puntualmente revocare a causa delle pressioni ricevute dai fiorentini. In compenso il frate non manca di attaccare il papa pubblicamente: “Noi non diciamo se non cose vere, ma sono li vostri peccati che profetano contra di voi, noi conduciamo li uomini alla simplicità e le donne ad onesto vivere, voi li conducete a lussuria e a pompa e a superbia, ché avete guasto il mondo e avete corrotto li uomini nella libidine, le donne alla disonestà, li fanciulli avete condotto alle soddomie e alle spurcizie e fattoli diventare come meretrici”.
L’ultimo tentativo per rabbonirlo è la nomina a cardinale, che Savonarola rifiuta sprezzante: “Io non voglio cappelli, né mitre né grandi né piccole; non voglio se non quello dato ai santi: un cappello rosso, un cappello di sangue, questo desidero”. E sarà accontentato, prima di quanto egli stesso non immagini.
Il falò in piazza della Signoria è l’ultimo grande atto della rivoluzione di Savonarola: dalle infiammate prediche è arrivato finalmente al rogo delle vanità; ma non lo sa, il nuovo padrone di Firenze, che la prossima a bruciare sul rogo – appena quindici mesi dopo, in quella stessa piazza – sarà la sua carne.
Ladispoli- 2 febbraio 2017-La prossima settimana inizierà una seconda fase del restauro e del recupero della fontana del Capitello Piacentini.
Sarà installato l’impianto di depurazione e clorazione che consentirà di avere l’acqua sempre limpida e il capitello esente dalla ricrescita delle alghe. Sarà inoltre rifatta tutta l’impermeabilizzazione della vasca.
I lavori saranno effettuati a cura di sponsor e dureranno circa un mese: la fontana sarà di nuovo aperta prima della Sagra del Carciofo.
Fontane identiche a quelle di Ladispoli sita in piazza della Vittoria esistono in altre 4 città del Lazio: Civitavecchia, Sora, Pontecorvo e Cassino.
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