che racconta la fredda stagione, composta nel 1932, il cui titolo originale era “Tramonto”.
“Inverno”
Fili neri di pioppi –
fili neri di nubi
sul cielo rosso –
e questa prima erba
libera dalla neve
chiara
che fa pensare alla primavera
e guardare
se ad una svolta
nascono le primule –
Ma il ghiaccio inazzurra i sentieri –
la nebbia addormenta i fossati –
un lento pallore devasta
i colori del cielo – Scende la notte –
nessun fiore è nato –
è inverno – anima –
è inverno.
Antonia Pozzi nasce a Milano il 13 febbraio del 1912. Scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel Regio Liceo – Ginnasio Alessandro Manzoni di Milano, dove intreccia con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che verrà interrotta nel 1933 a causa delle forti ingerenze da parte dei suoi genitori. Nel 1930 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, precisamente al corso di laurea in Filologia moderna, frequentando coetanei quali Vittorio Sereni, suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi e Remo Cantoni. A soli ventisei anni si tolse la vita mediante ingestione di barbiturici in una sera nevosa di dicembre del 1938.
Titos Patrikios-Le parole nude-Antologia con testo greco a fronte-
Editore Interlinea-Novara
Testi di Giovanni Conte-Traduttore Katerina Papatheu
DESCRIZIONE –
Titos Patrikios, uno dei maggiori poeti europei attuali, nato ad Atene nel 1928, ha partecipato alla resistenza, durante l’occupazione nazifascista, rischiando l’esecuzione, e alla guerra civile. Mandato al confino durante i regimi di destra che si sono avvicendati fino al 1974, è sopravvissuto alla brutalità delle due guerre e della polizia e alle torture, grazie a una scrittura assidua, febbrile, incessante. È un poeta che s’interroga, e il suo verso è un sentiero ritmico che protrae quasi all’infinito il suo sentire, è un percorso della memoria che può riempire i vuoti della vita. “Nessun verso oggi può rovesciare i regimi /[…]/ se non per sollevare un angolo di verità”. A questo servono appunto i poeti, perché “a un certo momento scelgono, denunciano, sperano, / chiedono /[…]/ passando in rassegna le cose già accadute / la poesia cerca risposte / a domande non ancora fatte”. Edizione, con inediti, a cura di Katerina Papatheu, con una nota di Giuseppe Conte.
Titos Patrikios
Biografia di Titos Patrikios
Titos Patrikios, figlio di due noti attori del teatro greco, è nato ad Atene nel 1928. Durante l’occupazione nazifascista ha partecipato alla Resistenza e nel 1944 ha rischiato l’esecuzione. Dal 1951 al 1954 è stato confinato nelle isole di Makrònissos e di àghiostratis, e dal 1954 al 1959 ha vissuto ad Atene come «confinato in congedo». Laureato in Giurisprudenza all’Università di Atene, è diventato avvocato, lavorando anche come giornalista. Molto attivo nel campo culturale, è stato, nel 1954, fra i fondatori dell’importante rivista letteraria “Epitheòrisi Technis”. Dal 1959 al 1964 è stato a Parigi dove ha studiato Sociologia e Filosofia a l’école des Hautes études e ha lavorato come ricercatore al Centre National de la Recherche Scientifique. Nel 1967, all’avvento della dittatura dei colonnelli, sfuggendo all’arresto, lascia la Grecia e vive a Parigi, dove lavora come consulente all’Unesco, e a Roma, dove lavora alla FAO. Dal 1976 vive ad Atene.
Dopo l’esordio come poeta nel 1943 sulla rivista studentesca “Xekìnima tis Niòtis”, la sua prima raccolta di versi, Strada sterrata, risale al 1954. Seguirono le raccolte Apprendistato (1963), Fermata a richiesta (1975), Poesie, I (1976), Mare promesso (1977), Controversie (1981), Specchi a fronte (1988), Deformazioni (1989), Apprendistato, ancora (1991), Il piacere delle dilazioni (1992), Poesie I, II, III (1988), La resistenza dei fatti (2000), La Porta dei Leoni (2002), Il nuovo tracciato (2007), Poesie, IV (2007), Brama d’amore che scioglie le membra (2008), La casa (2009), Convivenza col presente (2011), La poesia ti trova (2012). Ha pubblicato anche quattro volumi di racconti e numerosi saggi letterari, sociologici e giuridici. Due suoi libri di sociologia, scritti in francese e tradotti in inglese, spagnolo e russo, sono pubblicati dall’Unesco (1972, 1976) e due altri scritti in inglese e francese sono pubblicati dalla FAO (1970, 1974). Ha tradotto in greco, tra gli altri, testi di Spinoza, Lukàcs, Hannah Arendt, Walt Whitman, Majakowskij, Neruda, Saint-John Perse, éluard, Aragon, Brecht, Balzac, Stendhal, Valéry. Sue poesie sono state pubblicate in tutti i paesi europei e in Messico, Cile, Brasile, Egitto, Marocco, Cina. Due sue raccolte sono state tradotte in Francia (Altérations, Parigi 1991; Apprentissage, Parigi 1996); due in Germania (Spiegelbilder, Colonia 1993; Das Hans, Berlino 2010). Un’antologia di suoi versi è pubblicata negli Stati Uniti (The Lions’ Gate, 2006). Un’ampia antologia delle sue poesie tradotte in italiano da Nicola Crocetti, La resistenza dei fatti, è uscita nel 2007 in Italia da Crocetti Editore. Interlinea ha pubblicato le due antologie con testo greco a fronte La casa e altre poesie (tradotto dallo stesso Crocetti, nel 2009) e Le parole nude nel 2013.
Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti da Patrikios in Italia si ricorda il Premio Brancati, Zafferana Etnea 2007, Premio Letterario Internazionale l’Aquila-Carispac 2009, Premio internazionale di Poesia Civile di Vercelli 2009, Premio Feronia Città di Fiano 2011. Nel 2004 il presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica per il suo contributo allo sviluppo dei rapporti culturali tra l’Italia e la Grecia.
chi aveva tradito.
Le ombre degli ulivi raccolti
si strinsero in un tenero abbraccio.
Le madri raccoglievano i figli
cantavano ancora le nenie,
melodie sepolte nella casa di pietra
che lo vide fanciullo.
“Non lo abbiamo visto passare”
Risposero in coro.
I sassi arroventati
sopportavano i gemiti.
Pronta la madre raccoglieva
le lacrime ed il sangue.
Fu un lungo patire
quando il tempio squarciato
gridava vendetta.
È lontano il tempo
che, tu, madre,
salisti il Calvario:
la strada è un lungo lamento,
c’è chi inciampa per l’ultima volta,
chi cerca orizzonti troppo lontani,
chi s’abbandona agli angoli, stanco.
Ma vedremo qualcuno seguirci per via?
Tenendoci per mano
vinceremo il furore
e ti faremo ghirlande
con i fiori sparsi
sul nostro cammino.
Canterò per te
Canterò, canterò per te
mio piccolo sole
tutta l’allegria del bosco
e i viaggi di bianchi aironi.
Ti farò la giostra
e ti condurrò
su cavalli alati.
Volerò, volerò per te
sui colli che non
hanno sera,
ti porterò canzoni
sulle ali del vento.
Ti darò la mia fantasia
e lunghe vette di luce
e la storia dei secoli
e la mia vita d’eterno.
“Amicizia”
Dimmele le tue paure,
posso prenderti per mano
e condurti dove le nebbie
non s‟alzano nemmeno
e su noi gli alberi
non hanno che cime;
ti conduco dove il passo mio
si fa più vicino al tuo;
non sentiamo altro
che questo nostro andare
senza orizzonti.
D’Estate
La notte è chiara
le nebbie che ci coprivano
il giorno appaiono disperse,
il cielo si svela
senza stanchezza,
l’uccello notturno
non sa più cantare.
“Non vorremmo”
Noi resteremo qui
ad ingaggiare primavere
piene di vento.
Non vorremmo altro spazio
che il nostro,
non vorremmo altro tempo
che quello per resistere
agli orrori.
“Come un’alba novella”
Se un fiore muore
non pensare alla vita
che si è spenta
ma a quella
che vive
nel bocciolo
del suo stelo.
Se una stella di notte
cade nel buio
non pensare alla luce
che si è spenta
ma a quella che brilla
di molte
fiammelle.
Se guardi un tramonto
non pensare ad un giorno
passato
ma a quello che sorgerà
domani
come un’alba novella.
Agata Cesario
Fonte- L’altroquotidiano.it
Dall’antico dolore all’estremo spiraglio
A cura di Francesco Sisinni
Ricordo di Agata Cesario, che dedicò alcune sue poesie alla Madonna.Nelle sue rime parlò spesso di fede e di speranza, nonostante le sofferenze di un brutto male,che ne causò la morte il 16 maggio 1989
Agata Cesario resta nel cuore e nella memoria di molti, ricordata ogni anno a Cellara (Cosenza) paese dov’è nata e dove una piazza è intitolata al suo nome: “insigne poetessa cellarese” recita la dedica scolpita nel marmo.
Su iniziativa del Sindaco, la piazza è stata inaugurata l’anno scorso quando ci fu una grande festa in onore di Agata, quella che Pino Nano, in un lungo messaggio inviato, ha definito “la festa di A-gata e della sua famiglia”. Una cerimonia intima, scandita dai ricordi personali e dalle testimo-nianze di chi ha frequentato Agata, non solo insegnante, vista anche come “animatrice” della comunità con la quale amava confrontarsi e che la chiamava per iniziative in campo religioso come in campo sociale. Potremmo forse sintetizzare così il senso del suo percorso, racconta il fratello Giacomo, giornalista, presente alla messa in ricordo officiata a Roma dal cardinale Raffaele Fari-na, e che ora affida la recensione della nuova edizione del libretto di poesie “Spazi infiori-ti” (1981) al prof. Francesco Sisinni, una delle figure di spicco della cultura italiana, docente alla Lumsa e già direttore generale per i beni librari al ministero dei Beni culturali. Fu nominato da Giovanni Paolo II membro della pontificia Commissione per i beni culturali ecclesiastici.
Il testo, che qui di seguito si riporta, penetra fin nel fondo dell’anima di una poetessa che, confessa Sisinni, mi è familiare e che avevo quasi perduto di vista. Poesie datate 1981, ma in realtà senza tempo, che hanno sempre qualcosa da dire, “da leggere”.
Comprendere un’opera d’arte, ovvero, saperla leggere ed interpretare è certamente un fatto di cultura, connesso com’è alla disponibilità di un’accorta, quanto avanzata metodologia ermeneutica. E, tuttavia, intelligerla, ovvero indagarla ontologicamente, oltre e più che semanticamente, è soprattutto un fatto di empatia, che misteriosamente consente l’immedesimazione del Lettore nell’Autore, proprio nel momento creativo dell’opera stessa: Poiesis.
L’ovvietà di siffatta riflessione, che, come noto, rinvia alla vasta produ-zione estetica e linguistica, da Baumgarten a Croce, da Panofsky ad Heidegger, non delegittima, comunque, assumerla come premessa essenziale, là ove, come qui, rileva il debito di lettura alla capaci-tà empatica, appunto.
Dunque, un’esperienza di vita breve, ma intensa – quella di Agata Cesario – che distillata in grumi di poesia, è stata appena sospinta dal timido soffio dell’affetto fraterno tra le mie carte e miei libri ed ora è qui perché anch’io, più che la conosca, l’ascolti, anzi la senta, tra gli echi ineludibili di una terra a-vara e bella, cui han prestato voce innumeri scrittori e poeti anche del nostro tempo, dal calabrese Corrado Alvaro a Giuseppe Berto, che calabro non era.
E così ho letto e riletto questa silloge “spazi infioriti” , che si accredita, anzitutto, con la semplicità accattivante di una edizione essenziale, ove le liriche, 35 (se si esclude quella fuori testo: “Come un’alba novella”), si presentano a mo’ di palinsesto, che ti invita ad attraversarlo, scandagliandovi non evi, ma eventi, anzi stati d’animo che, coinvolgendo, trascinano fino all’ultimo fondale di quel mare profondo, che è l’anima, là ove nascono le memorie, senza tempo!
“Senza tempo”, come recita l’incipit della raccolta e proprio come insegna Agostino nelle sue Confessioni, giacché il tempo, come realtà, non è e se ne parliamo e lo misuriamo è solo per-ché esso appartiene all’anima, ove il passato è memoria, il futuro è attesa e il presente è attenzione.
Or è che da questo fondale senza tempo, solo poche sillabe si fanno paro-la e solo alcune parole, emergendo in superficie, tra macchie ed abrasioni, rivendicano senso: Nebbia; Paesaggio intimo ed esterno (la madre, il padre, il paese); Dolore; Nostalgia; Fede.
La nebbia, che ricorre ripetuta-mente nei versi della Cesario, non è un ingrediente di pittura surrealista, ma è piuttosto una presenza che ingombra l’assenza: divora, copre, vagheggia, eppure vela e rivela.
E là ove appena si dissolve, ecco apparire quel nostro piccolo mondo antico, la cui storia, uguale per tutti, diversa per ciascuno, pensavi di aver consegnato per sempre a quel lontano commiato sofferto e che, invece, ti porti dentro, ineludibilmente ovunque, sempre!
Ed ecco le note di nenia struggente, che ridisegnano su orizzonti improbabili gli occhi ostinatamente comprensivi della madre, mentre girandole e fiammelle, inventate per un giorno di festa dal padre, inutilmente si rincorrono nel caleidoscopio delle immagini cangianti, ove tutto fugge … e ritorna: le case di pietra, il dedalo dei vicoli, i vecchi balocchi, riproposti, sublimati, dalla pungente nostalgia.
La nostalgia! Certo la Cesario ha pensato a Plotino, giacché conosce bene questo sentir sottile e inquietante, che i moderni chiamano malinconia. Ma la sua poesia non è epica e perciò non ha bisogno né del mito di Ulisse, né del profeta dell’eterno ritorno. La sua è il rimpianto di un Eden perduto, fatto di piccole cose, ma, anche di “grandezze non comprese”.
Di qui “l’antico dolore”. E già, perché questo libretto è umido di lacrime non piante. È un dolore che non grida, ma singulta quello che è “stanco di passare sulla consueta strada”. Non infinito, come nello Schopenhauer, né cosmico, come nel Leopardi ma, semplice-mente esistenziale, connesso alla problematicità della storia, contro cui s’erge la sfida, né può spegnersi “l’ansia di rag-giungere l’estremo spiraglio”.
Ed ecco, perciò, finalmente la Fe-de: la fede, unica alternativa, come avverte Kierkegaard, alla disperazione. E perciò, dalla strada insanguinata del Calvario, giunge alto il suo grido: “Non abbandonarmi Signore” giacché tu sai “la paura dei miei giorni”; “Donami pace e consolazione”, perché tu sai che “sono priva di tutto”.
Solo la fede, infatti, può far spera-re in un domani “Come un’alba novella”: poesia, fuori testo, questa, che si può leggere come “postscriptum” della presente silloge, ma anche e meglio, come introduzione di quella, qua e là annunciata, ma che Agata non ha avuto il tempo di lasciarci.
Usignolo, piccolo poeta,
forse senza accorgermene, ho imparato da te
questi lunghi silenzi
mentre il sole della vita batte così pienamente.
Forse, senza rendermene conto, l’ho imparato
dalla tua pazienza appostata
tra le fronde:
l’attesa di una fragile quiete
in cui le parole trovano il loro filo d’argento,
il fratello oscuro del tuo canto splendente.
(da ‘Arietta‘, 1996)
Maria Àngels Anglada
Biografia di Maria Àngels Anglada (Vic, 9 marzo 1930 – Figueras, 23 aprile 1999).Laureata in lettere classiche all’Università di Barcellona e grande conoscitrice del mondo classico, ha tradotto testi dal latino e dal greco in catalano. Si è dedicata a vari generi: poesia, narrativa, critica letteraria e saggio. Ha collaborato a diversi periodici. Tra le sue opere, tutte scritte in catalano, si distinguono: “Les closes”, romanzo vincitore del premio Josep Pla 1978; “Sandàlies d’escuma”, vincitore del premio Lletra d’Or 1985; “Columnes d’hores”, che raccoglie tutte le sue poesie fino al 1990; e specialmente “El violí d’Auschwitz” (già uscito in Italia con il titolo “Il violino di Auschwitz”, Editori Riuniti) e il nostro “Il quaderno di Aram” (titolo originale “Quadern d’Aram”).
Non basta andare a capo a questo verso:
giù deve sprofondare, a capofitto
gettarsi dove risiede il tuo palpito
segreto, quello che pensiamo perso.
*
Anno scorso, dicono, una donna
si è spacciata per me. Mi somigliava
parecchio: aveva quel modo vagante
tutto mio di deludere, rideva
tremenda ai vetri come faccio anch’io
talvolta con la mia povera voce.
Quest’ingannatrice voglio trovarla
e baciarla sulla bocca: quanto amore
mi ha risparmiato, quanto male.
*
A lungo abbiamo discorso del dopo.
Tu non chiedevi, dandomi le spalle
forti mi interrogavi come un oracolo.
Non esiste miracolo, dicevo, solo
per noi la giustizia dell’incontro.
E così esiste, pensavo, il congedo
dei congedi. Esiste la mano che porta
lontano il suono amato del tuo volto.
*
Dammi la sconsiderata fiducia
di mio padre nel futuro, del futuro
dammi il sacro terrore di mia madre.
Stringimi forte a non finire
più schiacciata dal passo del tempo —
appuntami al petto la lettera scarlatta
dei sopravvissuti. Scatta, dissolvimi
col cuore nel bicchiere dei minuti.
*
Questo amo di te: il tuo vuoto
di parole, il lapsus che ti racconta
da un romanzo, la carezza invisibile
a occhio nudo, la nuda mezza mela
rimasta sul letto per errore.
Nota biografica di Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Poetarum Silva, Larosainpiu e Limina Mundi.
Rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore generale e responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online
Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Giovanna Rosadini, Paola Mancinelli, Antonio Fiori, Gisella Blanco, Lucrezia Lombardo, Sarah Talita Silvestri, Massimo D’Arcangelo, Valentina Furlotti, Nicola Barbato, Mario Famularo, Piero Toto. Collaboratori: Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Matteo Pupillo, Giulio Maffii, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo
Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani
Nacque a Bologna nel 1900 e a soli 12 anni, nel 1912, esordì con la sua prima raccolta di poesie dal titolo Ginestra in fiore, seguita, dopo tre anni, da Piccola Fiamma.
Ma oltre alla poesia, la Viganò si dedicò anche alla prosa e raggiunse l’apice del suo successo con L’Agnese va a morire, pubblicato da Einaudi nel 1949, un romanzo neorealistico ispirato alla Resistenza che ottenne il Premio Viareggio. La scrittrice partecipò, infatti, alla lotta partigiana collaborando come infermiera e scrivendo per la stampa clandestina.
Vogliamo ricordarla con voi pubblicando alcune sue poesie:
Cantata di una giovane mondina-
Mondine, mondine,
cuore della risaia.
Mio caro padre, mia cara madre,
io sono quaggiù per trenta giorni.
Appena arrivata mi sento già stanca;
chi sa come sarò al ritorno.
Si mangia poco, si beve a stento,
l’acqua fresca la troviamo di rado.
Eppure, mamma, son tanto contenta
d’esser venuta per questa strada.
Mondine, mondine,
amore della risaia.
Con le gambe sempre nell’acqua,
non so perché, vien sete in bocca.
Sono, al tramonto, una bestia stracca,
che si butta dove te tocca.
Paglia nuda e fitti respiri
nel camerone con tante zanzare.
Se per stanchezza non possiamo dormire,
qualche volta ci mettiamo a cantare.
Mondine, mondine,
fiore della risaia.
È bello, mamma, mondare il riso,
chè il riso è bianco e i padroni son neri.
Essi hanno in terra il paradiso,
noi camminiamo per bruschi sentieri.
Ma i nostri sentieri ci portano avanti,
e andiamo incontro a più dolce stagione.
Essi son pochi e noi siamo tanti,
e poco giova sentirsi padroni.
Mondine, mondine,
dolore della risaia.
Di sera guardo sulla pianura
quando si aprono in alto le stelle.
Non è il lavoro che fa paura,
chè, di questo, son figlia e sorella.
Mio caro padre, mia cara madre,
io vi ringrazio di essere forte.
Andiamo insieme su un’unica strada,
e la bandiera la portano i morti.
Mondine, mondine,
onore della risaia.
L’usignolo-
L’usignolo solo
canta triste fra i rami,
e pare che richiami
un sogno già svanito
un sogno già sfiorito.
Canta pian l’usignolo.
La ginestra-
Nasce sul brullo monte,
fra i roveti ed i sassi,
fragile come un bimbo
che muove i primi passi.
La sua fragil corolla
rallegra il senteruolo,
rallegra il pastorello
colle caprette, solo.
Oh! Ginestra ignorata
è breve la sua vita,
ella nasce in estate,
d’autunno è già sfiorita.
E uno strano contrasto
lo stelo col fior fa;
quello forte, robusto,
questo fragilità.
Renata Viganò si appassionò fin da piccola alla letteratura e coltivava un sogno: fare da grande il medico. Tuttavia le difficoltà economiche subentrate in famiglia la indussero ad interrompere il liceo e, con senso del sacrificio e una maturazione affrettata e non voluta, ad entrare nel mondo del lavoro come inserviente e poi infermiera negli ospedali bolognesi.
Questo suo impegno al servizio dei bisognosi non le impedì di scrivere per quotidianie periodici, elzeviri, poesie, racconti sino all’8 settembre 1943.
Con la firma dell’armistizio la sua vita ebbe una svolta esistenziale: assieme al marito Antonio Meluschi e il figlio, l’infermiera-scrittrice partecipò alla lotta partigianacome staffetta, infermiera e collaborando alla stampa clandestina.
Di questo periodo disagiato ma intriso di sano idealismo esistenziale fu pervasa la susseguente produzione letteraria. L’Agnese va a morire (1949), romanzo tradotto in quattordici lingue, rappresentò il punto più alto; vinse il secondo premio al Viareggio[2]e costituì il soggetto per il film omonimo diretto da Giuliano Montaldo.
Il romanzo racconta vicende partigiane con onesta semplicità da cronista e spirito di sincera adesione agli eventi, e fu considerato negli anni del dopoguerra un esempio, una testimonianza della narrativaneorealista.
Vale la pena di ricordare, tra le opere della Viganò, almeno altri due libri sul tema della Guerra di liberazione: Donne della Resistenza (1955), ventotto affettuosi ritratti di antifasciste bolognesi cadute, e Matrimonio in brigata (1976), una raccolta di efficaci racconti partigiani, uscito proprio l’anno in cui la scrittrice è scomparsa.
Due mesi prima della morte, a Renata Viganò fu assegnato il premio giornalistico Bolognese del mese, per il suo stretto rapporto con la realtà popolare della città.
Renata Viganò
Opere
Ginestra in fiore. Liriche, Bologna, Beltrami, 1913.
Piccola fiamma. Liriche (1913-1915), Milano, Alfieri & Lacroix, 1916.
Il lume spento, Milano, Quaderni di poesia, 1933.
L’Agnese va a morire, Torino, Einaudi, 1949.
Mondine, Modena, Tip. Modenesi, 1952.
Arriva la cicogna, Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1954.
Donne della Resistenza, Bologna, STEB, 1955. [Ritratti di donne partigiane pubblicato in occasione della Festa dell’Unità di Bologna 1955]
Ho conosciuto Ciro, Bologna, Tecnografica emiliana, 1959.
Una storia di ragazze, Milano, Del Duca, 1962.
Matrimonio in brigata, Milano, Vangelista, 1976.
Rosario. Libera interpretazione dei quindici misteri del rosario scritta da me, non credente, per puro amore di leggenda e poesia, Bologna, A.N.P.I., 1984. [poesie pubblicate dall’ANPI Bologna in 100 copie, con incisioni di Guttuso, Covili].
Sonetti inediti, Bologna, A.N.P.I., 1984.
La bambola brutta. Storia di Eloisa partigiana, illustrazioni Viola Niccolai, a cura di “Brigata Viganò”: Dafne Carletti, Sofia Fiore, Margherita Occhilupo, Marta Selleri, Elena Sofia Tarozzi e Tiziana Roversi, Bologna, Tipografia Negri, 2017. [Nuova edizione del racconto pubblicato la prima volta in “Pioniere”, 1960]
Alessandra Granito-Eugen Drewermann interprete di Kierkegaard
Le quattro forme kierkegaardiane della disperazione rilette alla luce della psicoanalisi
Orthotes Editrice, Napoli-Salerno
DESCRIZIONE-
Sulle macerie della destituzione del moderno disimpegno metafisico-sostanzialistico, la cultura contemporanea post-moderna ha costruito insidiose derive della soggettività, ne ha profilato il rovesciamento al di fuori di se stessa e ha plasmato un sé non più monolitico e ipertrofico, ma borderline, vulnerabile ed eccentrico, scisso in quello scarto tragico tra fattualità e pretesa che ne “La malattia per la morte” Søren Kierkegaard con acribia psicologica e sensibilità anacronistica definisce “disperazione”, intesa come epifenomeno di un’esistenza segnata dalla contestazione pessimistico-scettica del sé che de facto si è. Il presente lavoro inquadra e attualizza tale riflessione nella cornice ermeneutico-psicoanalitica di Eugen Drewermann, il quale presenta la fenomenologia kierkegaardiana del sé disperato come una fenomenologia del profondo, e la “disperazione” come la conseguenza dell’elaborazione distorta dell’angoscia esistenziale e di un rapporto sbagliato con se stessi che sfocia nel rifiuto di sé, nella stagnazione spirituale, in stati di disagio e di squilibrio psico-esistenziali (nevrosi).
-Autrice-
Alessandra Granito
Alessandra Granito, è dottore di ricerca in Filosofia presso l‘Università «G. d’Annunzio» di Chieti-Pescara. Borsista D.A.A.D., ha svolto attività di ricerca presso la «Eberhard Karls Universität» di Tübingen (Germania) ed è attualmente è impegnata come Research Fellow presso il Søren Kierkegaard Forskingscenter di Copenaghen. Gli interessi di ricerca sono principalmente la tematica esistenziale (la Existenzphilosophie tedesca), la meontologia, i rapporti tra filosofia, letteratura e critica della modernità. Oltre che contributi in tedesco e in inglese apparsi in volumi collettanei italiani e stranieri, è stata relatrice a convegni nazionali e internazionali
La Cina rossa. Storia del Partito comunista cinese
di Guido Samarani e di Sofia Graziani
Editori Laterza-Bari
Descrizione
Se vogliamo comprendere la Cina contemporanea non possiamo prescindere dalla storia del Partito comunista cinese. Ne ha determinato le sorti e i profondi cambiamenti, trasformando in cento anni un paese rurale nella seconda potenza economica mondiale. Nel luglio del 1921, quando nacque, il Pcc aveva solo una cinquantina di membri ed era un soggetto politico marginale. Oggi conta oltre novanta milioni di iscritti e, dal 1949, è alla guida di un paese immenso e molto complesso. Con questa ambiziosa opera, che si avvale delle fonti più aggiornate, Guido Samarani e Sofia Graziani intrecciano la storia del Pcc alla storia della Repubblica popolare cinese, delineandone l’organizzazione, l’ideologia, la strategia interna e internazionale, i momenti gloriosi quanto gli eventi drammatici. Un’opera unica in Italia.
sincroni avanzano
come nel dipinto
di un Quarto Stato.
Così nella costante è
la luce
il significante.
Marisa Carelli è nata ad Acquaviva delle Fonti nel 1981. Laureata in Filosofia all’Università di Bari, dal 2009 insegna Filosofia e Storia nei licei. Gli inediti qui presentati fanno parte della raccolta Il curriculum dell’introspettivo, in fase di pubblicazione.
Caschetto nero, naso appuntito, morbide spalle, fianchi che sa come agitare per meglio incantare il suo pubblico: tutto questo è Kiki, cantante, ballerina, modella; Kiki dall’eleganza ferina di un cervo; Kiki trasportata dalla gioia. Kiki, stella delle notti di Montparnasse, sulla Rive Gauche della Parigi degli anni Venti, una città la cui luce, negli anni fra le due guerre, brilla tanto da accecare. Ma Kiki, nata Alice Ernestine Prin, figlia illegittima dalle origini povere e oscure, è anche qualcos’altro per la platea bohémienne che assiste a quegli spettacoli: la compagna e musa di uno dei piú dirompenti artisti dell’epoca, Man Ray. S’incontrano in un caffè, nel 1921. Kiki è esuberante e provocatoria, a quel tempo la preferita da pittori come Calder e Modigliani; Man Ray è guardingo, taciturno, capace di pronunciare in francese solo poche frasi. Ma tanto basta a far scoppiare la passione: è l’inizio di una relazione romantica e artistica che non ha pari fra i contemporanei. Kiki è al suo fianco durante tante avventure creative che costruiranno la fama di Man Ray per la posterità, dal Violon d’Ingres a Noire et blanche, e questo è tutto ciò che il mondo ricorda di lei. Ma la verità, dispiegata per noi in queste pagine da Mark Braude, è che Kiki fu molto di piú. Non soltanto musa, modella e cantante, capace con la sua voce di consolare gli afflitti ubriachi nelle notti vellutate di Parigi, ma anche artista magnetica e irresistibile, pittrice dalla creatività esplosiva, che attirava le folle durante le proprie esposizioni, attrice nei primi film surrealisti, il cui memoir, corredato da un’introduzione di Ernest Hemingway, finí sulle prime pagine di tutti i quotidiani francesi. Una figura imprendibile, con cui la storia è stata ingenerosa. Con questa biografia, che è stata definita «un gioiello anni Venti» (Air Mail), «tanto irresistibile quanto dovuta» (Chicago Review of Books) e «di grande spessore storico» (National Book Review), Braude mescola ricerca accurata a una prosa brillante e poetica, dispiegando il racconto di una vita eccezionale che sfida tutti i nostri preconcetti sugli artisti e le loro muse e mettendo in discussione il confine, spesso poroso, fra i due.
Beat Edizioni-info@beatedizioni.it
RECENSIONI
«L’esuberante biografia di Braude ribilancia i pesi nella storia della Rive Gauche parigina, storia nella quale Kiki – modella e musa – viene considerata troppe volte soltanto un personaggio secondario». The New York Times
«Con una prosa vibrante, ammaliante quanto la sua stessa protagonista, questa avvincente biografia restituisce a Kiki il suo posto legittimo: quello di fulcro, di stella irradiante di Montparnasse». Toronto Star
«Un’inebriante scorribanda fra le gallerie e i nightclub della Francia fra le due guerre». Vogue
«Un libro irresistibile, come irresistibile fu Kiki». Jim Jarmusch
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