Le opere di Pier Paolo Pasolini (dalla poesia alla narrativa, dal teatro al cinema, dal giornalismo alla critica letteraria) vanno lette come un tutt’uno, in cui le diverse fasi di un lavoro artistico articolato si intersecano continuamente in un discorso creativo in costante evoluzione. Roberto Carnero indaga questa “opera totale” senza scinderne i vari generi, ma riportando le molteplici esperienze alla coerenza di un percorso artistico unitario. In particolare vengono scanditi in modo lineare i grandi temi pasoliniani: la giovinezza in Friuli, la vocazione poetica e la scoperta dell’omosessualità; il contrastato rapporto con la religione e con la politica; la scoperta del sottoproletariato romano negli anni cinquanta; la nostalgia del passato e la fuga verso un impossibile altrove spazio-temporale; la fase apocalittica degli ultimi anni, prima di una morte tragica ancora avvolta nel mistero.
L’Autore–Roberto Carnero insegna Letteratura italiana all’Università di Bologna, presso il Dipartimento di Interpretazione e Traduzione (Campus di Forlì). Critico letterario ed editorialista per varie testate, tra cui “Avvenire”, “Il Piccolo” e “Famiglia Cristiana”, per Bompiani è autore dei saggi Pasolini. Morire per le idee, Il bel viaggio. Insegnare letteratura alla Generazione Z e Lo scrittore giovane. Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana. Presso Giunti TVP – Treccani ha pubblicato con Giuseppe Iannaccone una fortunata storia e antologia della letteratura italiana per le scuole superiori, la cui nuova editio maior si intitola Il magnifico viaggio.
Cinema -L’Attore Adolfo Celi nasceva a Messina il 27 luglio 1922-
Il 27 luglio 1922 nasceva a Messina Adolfo Celi, ottimo attore di cinema e televisione ma anche discreto regista cinematografico.
Con il suo fisico imponente, gli occhi azzurri taglienti e il naso decisamente aquilino, Celi fu per molti anni uno dei pochi attori internazionali del cinema italiano: non un mattatore protagonista, come i divi della commedia all’italiana, ma un ‘cattivo’ perfetto, ruolo sostenuto sempre con grande sicurezza e naturale eleganza. La sua figura di gangster, eccentrico e spietato, fu resa celebre dal personaggio antagonista di Jean-Paul Belmondo in L’homme de Rio (1964; L’uomo di Rio) di Philippe de Broca; subito dopo diventò famoso in tutto il mondo come il crudele Emilio Largo, rivale di James Bond in Thunderball (1965; Agente 007, Thunderball ‒ Operazione tuono) di Terence Young. Ma lasciò un segno anche in parti brillanti, in particolare nel ruolo del dottor Sassaroli, primario cinico e burlone, in Amici miei (1975) di Mario Monicelli e nei suoi due sequels.
Diplomatosi in regia nel 1945 all’Accademia d’arte drammatica di Roma, lavorò come regista e attore in diversi spettacoli teatrali, prima di arrivare al cinema grazie al produttore Carlo Ponti, che lo volle per Un americano in vacanza (1946) di Luigi Zampa. Nel 1948 si recò in Argentina per il film di Aldo Fabrizi Emigrantes (1949) e, finite le riprese, si trasferì in Brasile dove rimase per oltre quindici anni, dirigendo il Teatro Brasileiro da Comoedia di San Paolo e il Teatro dell’Opera di Rio de Janeiro; in quello stesso periodo, inoltre, diresse e produsse anche alcuni film (Caiçara, 1950 e Tico-Tico no Fubà, 1952). Tornò quindi in Europa agli inizi degli anni Sessanta, dopo che il regista francese de Broca lo aveva voluto per L’homme de Rio, e quindi si impose nel grandissimo successo internazionale Thunderball. Degli oltre novanta film in cui comparve, la maggior parte (più di ottanta) la interpretò dal 1963 agli inizi degli anni Ottanta, nel corso di una carriera curiosamente tardiva e prolifica. Tra quelli da ricordare, oltre a L’alibi (1969), da C. anche codiretto assieme a Vittorio Gassman e Luciano Lucignani, si segnalano E venne un uomo (1965) di Ermanno Olmi, Diabolik (1968) di Mario Bava, La villeggiatura (1973) di Marco Leto, Le fantôme de la liberté (1974; Il fantasma della libertà) di Luis Buñuel e, soprattutto, Amici miei di Monicelli con il ruolo che C. avrebbe interpretato anche nei successivi Amici miei, atto II (1982) sempre di Monicelli, e Amici miei, atto III (1985) di Nanni Loy, ultimo film prima della prematura scomparsa, sopravvenuta al momento di andare in scena, mentre recitava in teatro un testo di F.M. Dostoevskij.Grande popolarità aveva ottenuto anche con il personaggio di James Brooke, ennesimo cattivo, nel televisivo Sandokan (1976) di Sergio Sollima.
Celi muore il 19 febbraio 1986
(FONTE ENCICLOPEDIA TRECCANI.IT)
Cinema. Adolfo Celi, 100 anni fa nasceva l’altro eroe dei due mondi
ARTICOLO di Massimiliano Castellani sabato 23 luglio 2022 –Fonte giornale Avvenire
Ci sono uomini di cinema che hanno vissuto esistenze che da sole offrono spunti e materiale per decine di film. Uno di questi, è sicuramente Adolfo Celi, di cui il 27 luglio ricorre il centenario della nascita (Messina 1922) e la cui vita purtroppo si è interrotta prima della fine del secondo tempo: a 63 anni, un colpo al suo gran cuore tenero e generoso lo ha fatto uscire di scena. Accadde a Siena, il 19 febbraio 1986, mentre era in tourné teatrale con I misteri di Pietroburgo. «Quella sera lo sostituì il suo amico fraterno Vittorio Gassman con il quale avevano ideato quello che doveva essere il primo di tanti spettacoli da allestire insieme su commissione del Teatro della Toscana», raccontano Alexandra e Leonardo, i due figli che Adolfo Celi ha avuto dalla quarta moglie, l’attrice romena Veronica Lazar a cui Alexandra ha dedicato il documentario Era la più bella di tutti noi. «Il titolo me l’ha ispirato l’ultimo saluto che fece Bernardo Bertolucci (aveva diretto la Lazar da L’ultimo tango a Parigi del 1972, fino all’ultimo Io e te del 2012), quando mamma morì nel 2014 Bernardo disse alla stampa: «Veronica era la più bella di tutti noi».
E solamente l’incontro fra Adolfo e Veronica è un lungometraggio da “giorno della memoria”: storia della giovane profuga appartenente a una famiglia ebrea di Bucarest, «salvata dalla deportazione nazifascista dopo un sogno premonitore» e arrivata per la prima volta a Roma da dove avrebbe dovuto raggiungere Israele. Ma l’incontro con l’affascinante e nobile Celi (figlio del Prefetto di Messina e discendente del Celi Principe di Vadalà) stregarono l’attrice balcanica che rimase per sempre a Roma, e con lui mise su famiglia. Ma non fu l’ultima donna dell’Incontentabile(come il suo personaggio nello spot di Carosello) Adolfo o meglio ancora del Professor Alfeo Sassaroli l’esilarante primario del monicelliano Amici miei. «In quel personaggio del Sassaroli c’è tanto di papà, animo divertente ma inquieto, sempre alla ricerca del grande amore e quindi della “zingarata”.
L’ultima compagna di vita è stata Flaminia Rocchi, ma quando è morto era “single”. Anche se ad assisterlo all’ospedale di Siena nostra madre c’era, lei l’ha amato fino all’ultimo», ricorda Leonardo. E come non amare questo avventuriero che sembra uscito da un racconto di Emilio Salgari. Nel 1948 si imbarca con Aldo Fabrizi per girare un film che già dal titolo si rivelò profetico, Emigrantes. Girato in parte su una nave, Celi fu l’unico del cast che a film finito una volta sbarcato in Argentina rimase a vivere Buenos Aires. «Aveva trovato lavoro in un teatro e da lì poi si spostò nella terra che ha adorato, il Brasile». Quel Paese che trovava «spirituale e selvaggio» gli entrò nel sangue, e il Brasile vedendo sul palco quell’uomo dal fisico imponente, la voce attoriale importante e il carisma autorevole e autoritario lo incoronò nuovo eroe dei due mondi. Adolfo Celi, un uomo per due culture si intitola il documentario realizzato da Leonardo Celi in cui si racconta la straordinaria esperienza brasiliana di suo padre che da Rio de Janeiro viaggiò «in macchina attraversando le spiagge, allora era così», fino a San Paolo dove fondò il TBC, il Teatro Brasileiro de Comèdia. «Era così preso dalla bellezza dei luoghi, dalla potenza della natura che per due anni non diede notizie alla sorella, a Messina, la quale credendolo morto lo fece cercare dall’ambasciatore italiano in Brasile… Quando venne convocato in ambasciata papà credeva che gli conferissero un premio per i successi ottenuti con il TBC: aveva dato lavoro a tanti attori e maestranze locali ma soprattutto aveva fatto conoscere al pubblico brasiliano la bellezza dei testi, fino ad allora a loro ignoti, di Pirandello e Goldoni. Invece l’ambasciatore lo accolse con un serafico: “Ma signor Celi, la vuole fare una telefonata alla sua famiglia che è in pensiero per lei?”», racconta divertita Alexandra. Un’altra scena da commedia all’italiana, ma quella sarebbe venuta dopo le prove brasiliane di Caiçara( 1950) e Tico- Tico no Fubá, film diretti e interpretati dallo stesso Celi che con queste pellicole consolidò la sua fama di «divo italiano in Sudamerica».
Ma per farsi riconoscere nel Vecchio Continente dovrà attendere il 1964 con L’uomo di Rio di Philippe de Broca. Un film che segna anche l’addio al Brasile dove sente di aver chiuso un ciclo e lo scrive in una lettera accorata e sincera all’amico Gassman: «Qui le cose sono cambiate. Mi sento vuoto… Vedo i vostri film e mi sembra straordinaria la vostra vitalità, la vostra franchezza. Il vostro coraggio. Vi vedo coerenti. Voglio tornare ad essere come voi». È la nostalgia dell’ex allievo dell’Accademia d’arte drammatica dove si era diplomato assieme ai ragazzi della classe di ferro del ’22: Luigi Squarzina, Luciano Lucignani e Vittorio Gassman. E con loro due, di ritorno da San Paolo con il film L’alibi( 1969) aveva firmato la sua unica regia italiana. Nel Belpaese ritrova l’amore e gli amici di sempre, come l’altro coscritto Luciano Salce con cui vola in Inghilterra per far nascere i rispettivi figli a riparo dalla legge italiana del tempo. «Io e Emanuele Salce – vincitore dell’ultimo “Premio Adolfo Celi” per il suo splendido lavoro teatrale Diario di un inadeguato ovvero Mumble Mumble Atto II – siamo nati nello stesso ospedale a Londra, dove a me che dovevo essere Alessandra per errore hanno aggiunto la “x” togliendo le due “s”. Se fossimo nati in Italia non avremmo avuto il cognome dei nostri padri che poi rimasero amici per la pelle».
Ma il “grande fratello” di Adolfo Celi è stato il “Mattatore”, Vittorio Gassman. «Tra loro c’era complicità, sano spirito di competizione e stima reciproca. Papà diceva che Vittorio era il “migliore di tutti in tutto ciò che faceva”. Un’intelligenza superiore, traduceva dal latino al greco e la cosa stupiva i miei genitori che comunque parlavano 5 lingue a testa. Vittorio poi, la sera che papà si sentì male, andò a Siena a sostituirlo in teatro, e quello rimane un gesto che fanno solo i fratelli d’arte». Fratelli anche sul set di Mario Monicelli in- Brancaleone alle crociate. In quel decennio che va dal ’65 al ’75 con James Bond Agente 007 – Thunderball (Operazione tuono), Il fantasma della libertà di Luis Buñuel e soprattutto con il film-tv Sandokan, in cui interpreta l’indimenticabile Lord James Brooke, Adolfo Celi assume la caratura, rara per il nostro cinema, di attore internazionale. «Veniva scelto per il suo volto e le sue capacità recitative certo, ma anche per quella predisposizione al viaggio e all’avventura che trasmetteva anche a noi figli, portandoci in Malesia sul set di Sandokan dove aveva tranquillamente vissuto per nove mesi lontano dalla famiglia. “007”, Sean Connery, venne ospite a casa nostra, una villa in affitto sull’Appia antica come si usava fare allora, alla grandeur, e con papà si misero a giocare a golf». Un giocoliere nato, capace di cambiare continuamente ruolo e registro, ma mantenendo sempre quella cifra austera, dal papale Rodrigo Borgia (Alessandro VI nella miniserie della Bbc I Borgia) al giudice di Febbre da cavallo al fianco dell’altro amico fraterno, Gigi Proietti. «Papà incuteva timore, ma in realtà era un uomo dolce, scanzonato, un fatalista. A noi figli ci ripeteva: “Vivete tutto con leggerezza, senza fare drammi, mi raccomando”. E quella leggerezza si respirava d’estate al mare, a Ponza, con Gigi Proietti e i suoi figli che assieme a noi e quelli di Paola Gassman e Ugo Pagliai formavamo una piccola colonia dello spettacolo».
La vita che si mescola sempre alla scena, come quando Celi dopo anni torna in Brasile con tutta la famiglia. «Un viaggio incredibile, ad accoglierci c’era Tonia Carrero, la sua seconda moglie che nel frattempo era diventata una diva delle telenovelas. Ci ospitava nel suo attico di Rio, a Copa Cabana, e tutte le sere organizzava un ricevimento per il ritorno del “grande Adolfo Celi”…». Il ritorno del divo, dell’amico ritrovato, il primo degli Amici miei ad andarsene, così come Gastone Moschin è stato l’ultimo (2017). «Il Melandri, l’architetto – sorride Alexandra – io lo chiamerò sempre così. Grande attore internazionale anche lui. Gastone era un uomo adorabile e quando Leonardo girò il documentario su papà andammo a trovarlo in Umbria. Quando ci ha visti si è commosso. Non aveva tanta voglia di parlare del cinema e del passato, ma disse: “Per Adolfo lo faccio volentieri”. È la stessa sensazione che io e mio fratello proviamo tutti i giorni: parlare di papà lo facciamo volentieri, perché ci aiuta a riempire quel vuoto che ha lasciato e a sentirlo ancora qui, tra noi, così regale, con le spalle dritte e il suo sguardo fiero».
Fonte delle Poesie riprodotte- Avamposto-Rivista di Poesia
Testi selezionati da Il barbagianni. L’ignorante (trad. di F. Pusterla, Einaudi, 1992)
Portovenere
Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.
Interno
Cerco da tempo di vivere qui,
in questa stanza che fingo d’amare,
tavolo, oggetti quieti, la finestra
che in fondo ad ogni notte apre altri verdi,
e il cuore del merlo che batte nell’edera scura,
punti di luce sulle macchie d’ombra.
Anch’io cerco di dirmi: «L’aria è dolce,
sono a casa, la giornata sarà buona».
C’è solo, in fondo al letto, questo ragno
(si sa, è il giardino), che non ho abbastanza
ucciso, sembra stia tessendo ancora
la trappola al mio fragile fantasma…
***
Di notte, nella città dove vivo in immagine,
la nebbia trasforma le strade in passaggi e voragini,
in cui vanno i fantasmi, come portando altrove
quel lieve vapore che sale dal fondo del cuore.
Eppure insisto, per quanto sia incapace il solitario,
e osservo le figure della luce. E se poi fosse
appunto per la pietra che vacilla, o perché il vento
di fronte ai bar impazza come un cane, o perché squassa
foglie, finestre malchiuse, che finalmente
stavo per incrociarvi, distrutta la forza,
estrema fragilità sempre sfuggente: e se poi avessi
acciuffato il vostro mantello di cuoio… Ora sapendo
che i muri più alti non sono che leghe di polvere,
che chiasso e arditi specchi dei caffè improvvisamente
s’incrinano ai primi suoni del mattino, e che salendo
ai belvedere di periferia la città appare
povero mucchio di braci fumanti,
più non accoglierò queste figure terrificanti,
e ancora camminerò, benché sia inverno, e gli ultimi
ricordi di ieri il fiume abbia travolto…
Vivrò meno tremante in queste fortezze di sabbia,
poiché desidero solo una cosa che sfugge, vaga,
questa parola detta in un soffio alla bocca in attesa,
sull’astro degli occhi brucianti questo passaggio di nebbia.
L’ignorante
Più invecchio e più io cresco in ignoranza,
meno possiedo e regno più ho vissuto.
Quello che ho è uno spazio volta a volta
innevato o lucente, mai abitato. E il donatore
dov’è, la guida od il guardiano? Io rimango
nella mia stanza, e taccio (entra il silenzio
come un servo che venga a riordinare),
e attendo che a una a una le menzogne
scompaiano: cosa resta? cosa rimane a questo moribondo
che gli impedisce ancora di morire? Quale forza
lo fa ancora parlare tra i suoi muri?
Potrei saperlo, io, l’ignaro e l’inquieto? Ma la sento
parlare veramente, e ciò che dice
penetra con il giorno, anche se è vago:
«Come il fuoco, l’amore splende solo
sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere…»
Il lavoro del poeta
Compito dello sguardo che s’offusca
non è sognare o piangere, è vegliare
come un pastore il gregge, e richiamare
ciò che rischia di perdersi nel sonno.
*
Così, sul muro acceso dall’estate
(ma non sarà piuttosto dal ricordo)
vi guardo dentro la pace del giorno,
voi che andate lontano, che fuggite,
vi chiamo, luminosi dentro l’erba
più scura, come un tempo nel giardino, voci o luci
(chi sa) che legano i defunti con l’infanzia…
(È morta, la signora sotto il bosso,
spento il suo lume, al vento il suo corredo?
O un giorno tornerà da sotto terra
e potrò dirle, io, andandole incontro: «Che ne è stato
di tutto questo tempo, in cui tacevano
il riso e i vostri passi per la via? E non si poteva
che andarsene così, senza avvisare?
O signora! tornate ora fra noi…»)
Nell’ombra ed ora d’oggi sta in silenzio,
nascosta, l’ombra di ieri. E questo è il mondo.
Non lo vediamo a lungo, quel che basta
a trattenerne quello che scintilla, e a poco a poco
si spegne, a chiamare ancora e poi ancora, e a tremare
di non vedere più. Così si sforza
il misero, come chi, inginocchiato, contro vento,
tenta di radunare un magro fuoco…
***
Adesso so che non possiedo nulla,
neppure l’oro delle foglie fradicie,
né questi giorni che a gran colpi d’ala
vanno da ieri a domani, rimpatriano.
Lei fu con loro, pallida emigrante,
tenue beltà coi suoi segreti vani,
brumosa. E ora condotta certamente
via, tra i boschi piovosi. Come prima
eccomi in faccia a un irreale inverno,
ricanta il ciuffolotto, unica voce
che insiste, come l’edera. Ma il senso
chi lo può dire? E la salute scema,
simile oltre la nebbia al fuoco breve
che un vento glaciale smorza… Ed è già tardi.
Il barbagianni
La notte è una grande città addormentata
battuta dal vento… È venuto fin qui da lontano,
all’asilo del letto. È mezzanotte di giugno.
Tu dormi, mi hanno portato a questi bordi infiniti,
freme al vento il nocciolo. Ecco il richiamo
che viene e si ritrae, sembra davvero
una luce in fuga nei boschi, o quel che dicono
il vorticare d’ombre giù negli inferi.
(Questa voce nella notte estiva, quante cose
potrei dirne, e dei tuoi occhi…) Ma è soltanto
il grido del barbagianni che ci invita
nel folto di questi boschi suburbani.
E subito il nostro odore
è quello del marciume al far dell’alba,
subito sbuca l’osso
sotto la nostra pelle così calda,
e intanto le stelle svaniscono in fondo alle strade.
Breve biografia di Philippe Jaccottet è nato nel 1925 a Moudon, nella Svizzera francese, ed è morto a Grignan nel 2021.Dal 1953 ha vissuto in Francia. Ha tradotto Hölderlin, Musil, Rilke (cui ha dedicato una monografia critica) e poeti italiani, tra cui Ungaretti, Montale, Bertolucci, Sereni. Nel 1953 ha pubblicato Il barbagianni e altre poesie, cui sono seguite Poesie (1971), con prefazione di J. Starobinski, Alla luce d’inverno (1994), E tuttavia (2001). La sua attività di prosatore e saggista trova l’espressione più alta nei taccuini di Appunti per una semina (1984), seguiti da La seconda semina (1996) e dal saggio La parola Russia (2002).
-Avvenire- Giornale della CEI-
Addio a Philippe Jaccottet, poeta in ascolto della presenza e della natura
Articolo di Alberto Fraccacreta -giovedì 25 febbraio 2021
Aveva 95 anni, è tra i massimi poeti in lingua francese. Nato in Svizzera, viveva da tempo nell’Alta Provenza, “ambiente” delle sue poesie, in cui si sposano leggerezza e profondità.
Ho telefonato a casa di Philippe Jaccottet qualche tempo fa. «Jaccottet… Oui?», la subitanea risposta. Ho cominciato a biascicare qualche parola in un francese da arresto. Desideravo chiedere al poeta, scomparso ieri a 95 anni, la sua disponibilità per un’intervista. L’energica seppur pacata voce che era all’altro capo del telefono, sembrava sorridere alla richiesta e adduceva alcune ragioni per un diniego che in verità non ho compreso del tutto. Certo è che, alla fine, in perfetto italiano Jaccottet ha chiosato: «Sono vecchissimo… ormai…». La mia attenzione, una volta chiuso l’ancora tremolante telefono, s’indirizzò più all’“ormai” che al “vecchissimo”. “Ormai” significava l’essere entrato in una dimensione che osservava l’esteriorità del mondo con uno sguardo indulgente ma distaccato.
Il Philippe che aveva ribattuto così cortesemente era lo stesso io lirico di E, tuttavia (traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 2006): un io povero, capiente. Più sganciato dalle cose. Attento alla loro lucentezza. Già Starobinski lo aveva sottolineato nel memorabile saggio Parlare con la voce della luce, presente in forma di postfazione in Il Barbagianni. L’ignorante (a cura di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992): «È forse questo l’aspetto più ammirevole dell’opera di Philippe Jaccottet: […] il soggetto cui essa rinvia è il più discreto che esista, desideroso unicamente di alleggerire la propria presenza, di renderla quasi invisibile». Insomma, la poesia di Jaccottet è umile, discreta, come ha evidenziato lo stesso Pusterla, uno dei massimi esperti mondiali del poeta svizzero, autore della prefazione delle Œuvres nella prestigiosa edizione Gallimard (“Bibliothèque de la Pléiade”, 2014).
Avevo inviato persino una lettera, alcuni mesi prima, alla quale rispose declinando sempre la sospirata intervista ma esultando del «beau souvenir» che arrivava da Urbino: qual era il souvenir? La lettera stessa, scritta anche in quell’occasione in un francese spericolato. La lettera era Urbino. Questa, in fondo, è la poesia: il mezzo è la traccia inderogabile del messaggio. E Urbino era Raffaello, Piero della Francesca, la Madonna di Senigallia (di cui Jaccottet parlò raffrontandola curiosamente ai quadri di Morandi in La ciotola del pellegrino (traduzione di Fabio Pusterla, Casagrande, 2007).
Nato a Moudon nel 1925, dopo gli studi a Losanna, Jaccottet andò a vivere a Parigi. Il frenetico ambiente letterario della capitale non gli era familiare, al punto che decise di trasferirsi nell’ottobre del ’53 con la moglie e pittrice Anne-Marie Haesler a Grignan, paese medievale in Alta Provenza non lontano dal Rodano. Nella solitudine essenziale del suo studiolo intraprende la strada della traduzione, lavorando a Omero, ai classici tedeschi e alla poesia italiana (Ungaretti su tutti, ma anche Montale, Bigongiari e molti altri). In un’intervista televisiva (reperibile su Vimeo) Jaccottet ha confessato che la sua vita cambiò quando, durante una passeggiata dal sapore esiodeo, vide «un albero di mele cotogne sul ciglio della strada»: «Un albero abbastanza raro che io non avevo mai visto in fiore. Allora è successo qualcosa che mi ha a dir poco influenzato».
Lì nella Drôme provenzale costruisce la mitologia delle sue ambientazioni poetiche: il nido dell’anemone, le carote selvatiche come «piccole galassie in sospensione», il pettirosso «porta-lanterna», i colori diafani del tramonto simili a «lame vetrificate», l’usignolo in un «ruscello nascosto nella notte». Questi soggetti – a prima vista “insignificanti” – sono latori di uno spazio intermedio (entre-deux) che non si oppone né alla terra né al cielo, ma tenta di cogliere “rasoterra” una trascendenza dentro il reale, uno scorcio di ulteriorità nell’atto della presenza. Il punto di vista dello scrittore è quello di un ignorant («Più invecchio e più io cresco in ignoranza,/ meno possiedo e regno più ho vissuto»), capace di annotare la limpidezza sorgiva di una immacolata percezione.
La poesia di Jaccottet nasce sotto gli auspici di questa levità e di un classicismo disarmante. Pian piano, però, sin dagli anni Settanta e Ottanta con Alla luce d’inverno e Pensieri sotto le nuvole (poi tradotte ancora da Pusterla per Marcos y Marcos, 1997) si sviluppa la predilezione per una lirica larvale che slaccia la cerniera del verso e apre la scrittura a un grembo di osservazioni, bozzetti, sequenze estremamente moderne. Una scrittura legata in maniera indissolubile all’occhio purificato («Che cos’è lo sguardo?/ Una freccia più aguzza della lingua/ la corsa da un estremo all’altro/ dal più profondo al più lontano/ dal più scuro al più chiaro// un rapace», da Arie, traduzione di Albino Crovetto, Marcos y Marcos, 2001), con uno stile paesaggistico e impressionistico che coinvolge l’amato Cézanne e Morandi nel contemplare l’«immemoriale respiro divino», come accade in Paesaggi con figure assenti (a cura di Fabio Pusterla, Armando Dadò, 2009).
Dagli inizi degli anni Novanta a oggi – lasso di tempo in cui fioccano premi importanti, tra cui il Goncourt per la poesia (2005) e il Premio Mondiale Cino-del-Duca (2018), oltre alla sempiterna candidatura al Nobel – la svolta del poème en prose cambia definitivamente i connotati all’opera jaccottetiana: saggi, riflessioni, pezzi narrativi confluiscono nell’unico genere lirico che acquista la forza di un’epica slabbrata, di una totalizzante ossessione elegiaca. Assieme al diario di viaggio (in Russia, Austria, Libano, Siria e Israele) e agli immarcescibili carnets, viene fuori un’idea di silloge destinata a mutare per sempre la percezione fisionomica della poesia: versi e non versi nel medesimo calderone, lirismo e saggismo coagulati, appunti e riquadri romanzeschi (non dimentichiamo la pubblicazione di Appunti per una semina, a cura di Antonella Anedda, Fondazione Piazzolla, 1994; e il romanzo L’oscurità, a cura di Gianluca Manzi, Fazi, 1998), fino alle prose di Passeggiata sotto gli alberi (prefazione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos), in uscita il 17 marzo prossimo: tutto, davvero tutto è poesia.
Sulla scorta di tale slargo espressivo nasce il capolavoro assoluto di Jaccottet, il già citato E, tuttavia con le paroles à la limite de l’ouïe, «parole al limite dell’udito, a nessuno attribuibili, raccolte nella conca dell’orecchio proprio come la rugiada da una foglia». Il gesuita Hopkins, Juan de la Cruz, Claudel e persino Gesù si affacciano al testo nelle vesti sfolgoranti dell’intuizione poetica effigiata dall’azzurro e dall’arancio del martin pescatore, passando sotto lo schiocco di viole che sgombrano la vista, convolvoli rosa che richiamano il poeta a «una sorta d’origine». Qui, nell’infimo e nel consueto, s’infrange ogni resistenza, ogni inchiodatura di scetticismo – pure segnalato dall’esperienza del dolore e della morte nelle coeve Note dal botro – per dar luogo a una forma di immacolatezza, di mariologia della letteratura che offre speranza e consolazione: «Ripenso al verso di Nerval che accosta la santa e la fata: potrei assistere qui, nel mio giardino, alla trasfigurazione della fata ancora rosa, ancora incarnata, nella sua propria anima purissima e priva di peso? Sarebbe troppo bello, troppo conforme ai miei sogni. Credo ci sia piuttosto in questa scena qualcosa come un’acqua molto pura».
La recente monografia di Maurizio Nascimbene, Philippe Jaccottet, un poeta “qui creuse dans la brume” (Nulla Die, 2020) registra come tale «valore attribuito all’innocenza» appaia strettamente connesso a un’«attività poetica volta a indagare il Tutto». E proprio in questi giorni Crocetti ha tradotto un libro che prosegue e celebra il senso di ospitalità lirica, Quegli ultimi rumori… (a cura di Ida Merello e Albino Crovetto).
Con vera commozione rivolgiamo oggi il nostro pensiero alla scomparsa di un autore che ha associato, se non sovrapposto del tutto, la sua esperienza di poeta alla sua esperienza di uomo. Un uomo e un poeta la cui opera, lungi dal digradare a evento moralizzatore, ha in sé una radice di ethos insradicabile, una passione originale per la verità e la bellezza, una volontà di bene come raramente si è potuto osservare a queste altezze, con questo vigore e impeccabilità stilistica, nella storia della letteratura occidentale. Se è possibile utilizzare un’espressione di Amelia Rosselli, “tutto il mondo è vedovo” se Philippe Jaccottet non cammina ancora per le strade di Grignan.
Fonte delle Poesie riprodotte- Avamposto-Rivista di Poesia
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Avamposto-Rivista di Poesia
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
25 Aprile 1945-“ALDO DICE 26X1” – L’ITALIA VENNE LIBERATA IN 24 ORE
L’insurrezione finale dei partigiani che portò alla Liberazione delle principali città d’Italia ebbe inizio il 24 e il 25 aprile nelle grandi città del Nord, dopo la diffusione del messaggio in codice comunicato dai vari comandi regionali del CLN: «Aldo dice 26×1»
Pochi sanno che fu principalmente il Partito comunista che riuscì ad imporre la vittoriosa insurrezione popolare dell’aprile 1945. Così Togliatti scriveva a Longo nei giorni precedenti: «E’ nostro interesse vitale che l’armata nazionale e il popolo si sollevino in un’unica lotta per la distruzione dei nazifascisti prima della venuta degli alleati. Questo è indispensabile specialmente nelle grandi città come Milano, Torino, Genova, ecc. che noi dobbiamo fare il possibile per liberare con le nostre forze ed epurare integralmente dai fascisti». Per dirigere l’insurrezione di Milano venne insediato un Comitato insurrezionale composto da Luigi Longo per i comunisti, Sandro Pertini per i socialisti e Leo Valiani per gli azionisti. Gli Alleati anglo-americani, il Vaticano e le forze conservatrici della Resistenza erano contrari all’insurrezione e tentarono con tutti i mezzi di sabotarla e di farla fallire a Milano come a Torino e a Genova. Senza la risoluta iniziativa del Partito comunista, del Partito d’Azione e delle altre forze di sinistra, l’insurrezione del Nord non ci sarebbe stata, come non ci fu a Roma, dove le forze conservatrici vi si opposero ed ebbero il sopravvento.
Questa contrarietà delle forze della Reazione si spiega in primo luogo con le ambiguità degli alleati ango-americani, che nutrivano una costante preoccupazione per la forza militare e organizzativa dei comunisti, che infatti non ricevettero quasi mai aiuti militari dagli anglo-americani (che preferivano supportare le brigate autonome o quelle legate a forze più conservatrici, in primo luogo quelle cattoliche, badogliane, monarchiche, ecc.). Diversi storici a tal riguardo hanno collegato questa tendenza con lo stesso “proclama di Alexander” fatto 13 novembre 1944, con cui il comandante in capo delle truppe alleate nel Mediterraneo feldmaresciallo inglese Harold Alexander invitava via radio i partigiani ad abbandonare la lotta armata e tornare a casa. In quel durissimo inverno il movimento partigiano si era pressoché dimezzato, mantenendosi operativi in particolar modo le brigate Garibaldi guidate dai comunisti, che con i loro 50 mila effettivi costituirono più dell’80% delle forze partigiane rimaste combattenti anche nel momento più difficile della Resistenza Partigiana.
Gli anglo-americani volevano un’Italia sottomessa e umiliata, in cui ci fosse una sostanziale continuità dell’ordine sociale, con la mera differenza di voler instaurare un governo loro sottomesso in un’ottica antisovietica. Per tale motivo accarezzarono anche l’idea di “salvare” Mussolini per poterlo eventualmente utilizzare politicamente in chiave anticomunista nel dopoguerra. Ma tutto questo fu impedito dalla forza vigorosa dei comunisti, dei socialisti e degli azionisti, che liberando le città del Nord Italia e sconfiggendo autonomamente numerose divisioni tedesche seppero riscattare l’orgoglio del Paese, mostrandone la forza di un popolo rinnovato dalla lotta condotta contro i nazifascisti. Se l’Italia dopo divenne una semi-colonia degli USA e della NATO ciò è dovuto in primo luogo alla scelta di campo realizzata dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi e alle elezioni truccate manovrate dalla CIA nel 1948. La storia più gloriosa d’Italia è figlia delle azioni del movimento operaio e della sua avanguardia comunista. Tutto il resto è spregevole servilismo verso il padronato e i suoi alleati stranieri.
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