Testi selezionati da Tutte le poesie –Editore Mondadori-
Fare e disfare
La foglia tornava all’albero e la nuvola al ramo.
Il ricordo coronava le vecchie case.
Il sangue abbandonato faceva piangere.
Si muravano nuove case, altre opere.
Leggi dolorose guidavano la città.
Nel museo brilla la fiala delle tombe e la cenere
che il vento agita agli acrotèri
è delle guerre spente ma è già seme.
Si mutano invisibili i pensieri,
storia e speranza insieme è quanto fu attimo e pianto,
dall’incertezza nasce la determinazione,
ma dalla volontà buona la voglia di non essere
e dal piacere di morte la tenera foglia.
Tutto sopporta tutto.
E si vorrebbe
cedere, uscire, non essere più.
Ma ancora dieci passi prima della scarpata
prima del piombo in cuore
ancora dieci attimi prima della corsa ultima
nella luce del fosforo
ancora dieci anni per chiedere la pietà.
Ma anche per rivivere e lavorare
e disperare per rivivere
morire per lavorare
disperare per morire
lavorare per rivivere.
Traducendo Brecht
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
I destini generali
È vero che sono stanco:
questo scendere scale e salire
deride, finché uccide, gli stanchi.
Avere negli occhi pomeriggi interi
soli agri, irrazionali realtà!
Se nemmeno l’augurio mi dà gioia
allora sparire diviene necessario.
Se la gioia non mi vince
rovinando sulle querce
lavando le scogliere
invadendo la fronte
il rancore dell’inganno
e danno e pianto divorato e spento
anche distrutte queste labbra
e sciolti in creta gli occhi tanto ansiosi
veleno saranno e vergogna
nelle vene degli altri
e mai lasceranno le menti!
Secolo di calce e fluoro, bava
di aniline e corpi come lava
di visceri: ecco i cordiali aperitivi
con gli assassini e la valutazione
obiettiva del niente… Se non trionfo
dureranno eterni,
saranno in uno che è me stesso, me
sempre sopravvissuto.
Immortale io nei destini generali
che gli interessi infiniti misurano
del passato e dell’avvenire, io pretendo
che il registro non si chiuda
che si cerchi ragione, che si vinca
anche per me che ora voce mozza vo,
che volo via confuso
in un polverio già sparito
di guerre sovrapposte, di giornali,
baci, ira, strida…
Franco Fortini
Ragione degli anni
Si può ancora disperdersi, schiarite
dei mesi incerti, soli obliqui.
Si può ancora volare per la vostra
polvere tenera, schiarite.
Di rado il profondo su querce e vasche d’iride
Eliso azzurro meditando posa
e un chiù persuade il viale roseo
che l’affanno può sparire.
Ma gioventù ci aspetta in una sera
di calme stille dai rami e di passi
incerti. Una leggera chiara sera
avremo ragione degli anni.
La partenza
Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire,
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.
Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.
Il presente
Guardo le acque e le canne
di un braccio di fiume e il sole
dentro l’acqua.
Guardavo, ero ma sono.
La melma si asciuga fra le radici.
Il mio verbo è al presente.
Questo mondo residuo d’incendi
vuole esistere.
Insetti tendono
trappole lunghe millenni.
Le effimere sfumano. Si sfanno
impresse nel dolce vento d’Arcadia.
Attraversa il fiume una barca.
È un servo del vescovo Baudo.
Va tra la paglia d’una capanna
sfogliata sotto molte lune.
Detto la mia legge ironica
alle foglie che ronzano, al trasvolo
nervoso del drago-cervo.
Confido alle canne false eterne
la grande strategia da Yenan allo Hopei.
Seguo il segno che una mano armata incide
sulla scorza del pino
e prepara il fuoco dell’ambra dove starò visibile.
***
Era la guerra, la notte tremavano
nelle credenze i cristalli al ronzio
delle ondate da ovest ad oriente
o a sud, verso l’Italia. Chi ero io
e tu chi eri? Cominciò così.
Lungo e grigio era il lago di Zurigo
e i tram celesti nell’aria di neve.
Franco Fortini
Une tache de sang intellectuel
Una macchia di sangue intellettuale
che il sole non asciuga mai. «Oh, che cosa vuoi fare!»
mi gridano i compagni coraggiosi
alti tra le bandiere e le sostanze reali
della festa di corpi naturali
di lotta e di amor vero.
«Voglio esistere e voi perdonatelo»
rispondo io, di quaggiù, dalla segreta.
«Anche come il viscere della bestia stracciata
anche come il sangue rappreso nella polvere.
Anche il cieco nato può in sé vedere il lampo
e parlarne con gesti imperfetti
e il suo discorso in catene
può atterrire e può dissuggellare.
E chi sempre ha negata l’avventura
può non lontano dalle nostre case
disvelare una terra di miracolo.»
«Oh, cosa aspetti» mi gridano i viventi
impetuosi ancora tra le vendemmie.
«Passa il tuo giorno» gridano, bocche al sole.
«Nessun orgoglio» rispondo «amici miei cari!
E mi sarebbe dolce essere anch’io
dove voi siete. Ma a ognuno le sue armi.
A voi il fuoco felice e il vino fraterno
a me la speranza acuta dentro la notte.»
Forse il tempo del sangue
Forse il tempo del sangue ritornerà.
Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
Padri che debbono essere derisi.
Luoghi da profanare bestemmie da proferire
incendi da fissare delitti da benedire.
Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
Parabola
Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliare
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.
Breve biografia di Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes) nasce a Firenze da padre ebreo il 10 settembre 1917. Qui compie gli studi, laureandosi dapprima in Giurisprudenza e poi in Lettere (Storia dell’arte). Battezzato valdese nel 1939, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fugge in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Finita la guerra si stabilisce a Milano, che diventa sua città d’adozione, e unisce all’insegnamento un’intensa attività di collaborazione a riviste politiche e culturali. Dopo il 1957, anno in cui lascia le file del Partito Socialista, continua la sua partecipazione alla vita politica italiana da posizioni della sinistra non ufficiale. Tra le sue raccolte poetiche ricordiamo: Foglio di via e altri versi (1946), Poesia ed errore (1959), Questo muro (1973), Paesaggio con serpente (1984). Muore nel capoluogo lombardo il 28 novembre 1994.
Fonte –AVAMPOSTO- Rivista di Poesia- Reggio Calabria
Contatti-Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
per quel ch’è vero morte e sonno con te si scuseranno,
come incarnato, saggio per ogni dolore,
quel ch’è vero smuove la pietra dal tuo sepolcro.
Quel ch’è vero, caduto ormai, slavato
seme o già foglia, nel letto malsano della lingua,
un anno e un anno ancora ed ogni anno –
quel ch’è vero non crea tempo, lo salva.
Quel ch’è vero discrimina la terra,
pettinando sogno serto e coltura,
alza la cresta e colmo di frutti strappati
ti folgora, prosciugando ogni cosa.
Quel ch’è vero non spera la scorreria
quando per te forse è in gioco tutto.
Sei la sua preda, se le tue ferite sgorgano;
nulla ti assale, che non ti tradisca.
Giunge la luna, con brocche avvelenate.
Bevi il tuo calice. L’amara notte cala.
La feccia schiuma su penne di colombe,
se un ramo non è portato in salvo.
Schiavo del mondo, sei gravato di catene,
ma quel ch’è vero nel muro apre le crepe.
Vegli e nel buio vai scrutando intorno,
a ignota via d’uscita tu sei volto.
INGEBORG BACHMANN
Il gioco è finito
Mio caro fratello, quando costruiremo una zattera
per scendere lungo il cielo?
Mio caro fratello, presto sarà il carico immenso
e noi affonderemo.
Mio caro fratello, tracciamo sul foglio
molti paesi e binari.
Sta attento a linee nere,
lì salti in aria con le mine.
Mio caro fratello, voglio gridare
legata stretta al palo.
Ma già cavalchi dalla valle dei morti
e insieme fuggiamo.
Svegli nel campo di zingari e svegli in tenda nel deserto,
scorre sabbia dai nostri capelli,
la tua, la mia età e l’età della terra
non si misura con gli anni.
Non lasciarti ingannare dall’astuzia dei corvi,
da una zampa vischiosa di ragno, dalla penna nel rovo,
nel paese di cuccagna non mangiare e non bere,
schiuma apparenza da padelle e bicchieri.
Solo chi al ponte d’oro, per la fata rubino
la parola sa ancora, ha vinto.
Devo dirti che con l’ultima neve
si è sciolta nel giardino.
Hanno piaghe i nostri piedi, per molte e molte pietre.
Uno è sano. Con lui salteremo,
finché il re dei fanciulli, con in bocca la chiave del regno,
non ci prenda con sé e noi canteremo:
È una bella stagione, quando il dattero è in fiore!
Chi cade ha le ali.
Un rosso ditale orla il sudario dei poveri,
e il tuo cuore cade sul mio sigillo.
Si va a dormire, caro, il gioco è finito.
In punta di piedi. Si gonfiano le camicie bianche,
Papà e mamma dicono che ci sono i fantasmi
quando scambiamo il respiro.
Invocazione all’Orsa Maggiore
Scendi, Orsa Maggiore, notte arruffata,
fiera dal manto di nubi, dagli antichi occhi,
stelle occhi,
nel folto si aprono, scintillanti,
le tue zampe con gli artigli,
stelle artigli,
vigili pascoliamo gli armenti,
pur da te ammaliati, e diffidiamo
dei tuoi fianchi sfiniti, degli aguzzi
denti dischiusi,
vecchia orsa.
Un cono di pigna: il vostro mondo.
Voi: le sue squame.
Dagli abeti del principio
agli abeti della fine
lo rivolto, lo sbalzo,
l’annuso, ne saggio il sapore
e l’abbranco.
Temete e non temete!
Gettate l’obolo nella borsa,
all’uomo cieco una buona parola,
perché tenga l’orsa al guinzaglio.
E condite gli agnelli di spezie.
Potrebbe quest’orsa
liberarsi, non più minacciando,
incalzando ogni pigna, dagli abeti
caduta, maestosi abeti alati,
precipitati dal paradiso.
INGEBORG BACHMANN
Mio uccello
Qualunque cosa accada: il mondo devastato
ricade indietro nel crepuscolo,
un elisir gli offrono i boschi perché dorma,
e dalla torre che la vedetta lasciò vuota
gli occhi della civetta calmi e fermi scrutano.
Qualunque cosa accada: tu sai il momento,
tu prendi il velo, mio uccello,
e giugni a me per la nebbia.
Vagano i nostri occhi nell’orbita abitata dalla feccia,
tu segui il mio cenno, portandoti fuori
in un vortice di piume e calugine –
Grigio compagno della mia spalla, mia arma,
adorno di quella penna, mia unica arma!
Mio unico fregio: il tuo velo e la tua penna.
Quand’anche nella danza degli aghi sotto l’albero
la pelle mi bruci,
e il cespuglio che giunge all’anca
mi tenti con foglie speziate,
quando le mie chiome guizzano
ondeggiando e bramano madore,
detriti di stelle rovinano
proprio sui miei capelli.
Quando sotto un elmo di fumo
nuovamente so cosa accade,
o mio uccello, o soccorso mio della notte,
quando nella notte divampo,
crepita nella macchia scura
e la scintilla da me stessa estraggo.
Quando infuocata come sono rimango,
e amata dal fuoco,
finché resina stilla dai tronchi
goccia a goccia sulle ferite, e calda
di sé intesse la terra,
(e quand’anche il mio cuore tu predassi di notte,
mio uccello in fede e mio uccello per sempre!)
nella luce si mostra la vedetta
che tu, placato,
in splendida calma volando raggiungi –
qualunque cosa accada.
Réclame
Ma dove andare
spensierato sii spensierato
quand’è buio e fa freddo
spensierato
e cosa fare
con musica
dunque
allegro con musica
e pensare
allegro
al cospetto di una fine
con musica
e dove portare
meglio
le nostre domande e l’orrore di tutti gli anni
nella lavanderia dei sogni spensierato sii spensierato
cosa accade dunque
meglio
quando quiete mortale
si fa
Discorso e diceria
Dalle labbra nostre non uscire,
parola che semini il drago.
È vero, l’aria è afosa,
schiuma la luce di acidi e fermenti,
e grava sulla palude nero il velo di zanzare.
Volentieri la cicuta si abbevera.
Una pelle di gatto è in mostra,
la serpe sopra vi soffia,
lo scorpione compare.
Al nostro orecchio non giungere,
notizia d’altrui colpa.
Parola, muori nella palude,
da cui sgorga la pozzanghera.
Parola, sii con noi,
pazientemente tenera
e impaziente. Deve il seminare
avere fine!
Non domerà l’animale, chi ne imita il verso.
Chi rivela i suoi segreti d’alcova, si priverà d’amore.
Bastarda la parola si fa lazzo e sacrifica uno stolto.
Chi ti chiede sullo straniero una sentenza?
E se la pronunci non richiesta, va’ tu, di notte in notte,
con le sue piaghe ai piedi, va’! non ritornare.
Parola, sii tra noi,
libera, chiara e bella.
Certo deve aver fine,
il diffidare.
(Il gambero indietreggia,
la talpa dorme troppo,
l’acqua morbida scioglie,
il calcare che ha tessuto pietre.)
Vieni, grazia di suono e di fiato,
fortifica questa bocca,
quando la sua debolezza
ci atterrisce e frena.
Vieni e non ti negare,
poiché noi siamo in lotta con tanto male.
Prima che sangue di drago protegga il nemico
cadrà questa mano nel fuoco.
Mia parola, salvami!
Ombre rose ombre
Sotto un cielo straniero
ombre rose
ombre
su una terra straniera
tra rose e ombre
in un’acqua straniera
la mia ombra
INGEBORG BACHMANN
Breve biografia di Ingeborg Bachmann (Klagenfurt 1926 – Roma 1973), nota anche come Ruth Keller, ottiene il Premio del Gruppo 47 per le poesie riunite ne Il tempo dilazionato (1953), in cui i motivi ideologici della sua formazione intellettuale (Heidegger, Wittgenstein) s’incontrano con il tema della generazione venuta dopo gli orrori della guerra nella dimensione d’un linguaggio spesso tormentato e astruso, ma sempre autentico. Nella successiva raccolta, Invocazione all’Orsa Maggiore (1956), i nodi espressivi tendono a sciogliersi in un dettato più lucido (vi compare spesso, al posto del metro libero, la strofa rimata), pur senza perdere di profondità. Di singolare interesse (a parte alcuni testi minori, fra i quali i radiodrammi Le cicale, 1955, e Il Buon Dio di Manhattan, 1958, in forma di ballata) sono altresì i volumi di racconti Il trentesimo anno (1961) e Simultan (1972) e il romanzo Malina (1971): pagine narrative caratterizzate da una intensa vibrazione poetica, anche se quasi sempre lontane dai moduli della prosa lirica.
Testi selezionati da Invocazione all’Orsa Maggiore (trad. di L. Reitani, Mondadori, 1999)
Fonte- AVAMPOSTO-Rivista di Poesia
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Per informazioni, segnalazioni, proposte di pubblicazione e/o collaborazione,
invio di materiale e quant’altro compila il form o contattaci ai seguenti recapiti:
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
“Scriveva poesie. Ciò stupì un poco gli amici. La sua mente raziocinante l’aveva fatta apparire più incline alla saggistica. Inoltre quegli anni erano particolarmente antieroici, antipoetici. Predominava il discorso, trionfava la frase più scarna possibile. Eppure Ingeborg covava una liricità che nulla aveva a che fare col ragionamento. Cantava, trasformando il pensiero in immagini che solcavano la pagina, a grappoli, con parole di fuoco. Tutte le più strane combinazioni potevano avvenire in mezzo ai versi: irruzione di sgomento e colpa, ammonizioni, verdetti, tragiche consapevolezze, estasi nei confronti della parola.”
Grazia Livi, Le lettere del mio nome, La Tartaruga
*
Così parlò
e la luce
si spense,
scrisse, e
un uomo cadde a pezzi
come un vestito vecchio. La tortura
*
Dalla terrazza più alta
volevo saltare,
sono salita a piedi
lungo la scala di servizio, per
i domestici, e ho origliato
alla porta le risate
nelle mie stanze, mi hanno scoraggiata. Un cadavere,
subito dopo colazione, lo avresti
preso male Sulla terrazza più alta
*
Andai dunque nel deserto. La luce si rovesciò su di me, l’eruzione del cielo, il suo odore nitido, ardente, mi è divenuto familiare. Sono fuggita, anzi mi sono ribellata, allontanata dalla clinica, mentendo ho fatto sparire le mie tracce, mi sono procurata il siero con dei pretesti, ho simulato che la vista si annebbiasse e di poter stare a galla, senza dover annaspare con le braccia, ho falsificato i referti. Non c’è più bisogno di menzogne qui, tutti guardano fisso dinanzi a sé, tutti hanno uno sguardo che non promette più nulla.
da Il libro Franza, Adelphi
*
Ma non vogliamo parlare dei limiti,
e limiti attraversano ogni parola:
spinti dalla nostalgia li oltrepasseremo
e poi saremo in armonia in ogni luogo. Von einem Land, einem Fluss und den Seen
Il compito dello scrittore non può consistere nel negare il dolore, nel nascondere le tracce, nel far nascere illusioni su di esso. Per lui anzi il dolore deve essere vero e deve essere reso tale una seconda volta, cosicché noi possiamo vederlo. Tutti, infatti, vogliamo diventare vedenti. E solo quel dolore nascosto ci fa sensibili all’esperienza e soprattutto all’esperienza della verità. Quando siamo in questo stato in cui il dolore diventa fertile, stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un oggetto o un avvenimento, ma proprio perché comprendiamo ciò che non possiamo vedere. E l’arte dovrebbe portare a questo. Far sì che, in tal senso, ci si aprano gli occhi. Die Wahrheit ist dem Menschen zumutbar
Alla poetessa austriaca, nata a Klagenfurt nel 1926, gli occhi si sono aperti in Italia, a Roma.
Ho visto che dicendo Roma si evoca ancora il mondo e che la chiave della forza sono quattro lettere S.P.Q.R. […] Qui a Roma il Tevere è bello, ma trascurato. L’isola Tiberina è un’isola di malati e di morti. Al Ghetto non bisogna lodare il giorno prima che faccia sera. […] Giordano Bruno continua ad essere bruciato ogni sabato, quando si smantella il mercato. A Roma ho visto che tutto ha un nome e ho capito che bisogna conoscere i nomi. Quel che ho visto e udito a Roma
Arrivata a Roma, quasi per caso, nell’autunno del 1953 e senza poter spiegarne il vero motivo Ingeborg Bachmann ci rimase fino alla sua morte precoce nel 1973. A differenza della maggior parte degli scrittori tedeschi o austriaci che arrivano in Italia sulle tracce di Goethe e con lo sguardo nordico di chi ammira i monumenti e la storia, per la Bachmann vivere in Italia fu una cosa naturale e non sentì il bisogno di tematizzare e di citare Roma nelle sue opere. Anzi, diceva di avere una “doppia vita” abitando nel cuore di Roma e scrivendo opere ambientate a Vienna. Per lei Roma fu una “città aperta con un carattere utopico”, una “città a strati” dove riuscì semplicemente a trovare una “sensazione di patria intellettuale”. In questa Roma dal carattere utopico lavorò ininterrottamente al ciclo Todesarten (Modi di morire), una serie di romanzi che dovevano avere come tema la morte dovuta alla società. Summa della sua opera è Malina dove afferma la necessità della sofferenza tramite le parole: “La lingua è castigo. Tutte le cose devono entrare in essa e devono poi scomparire secondo la colpa e secondo la misura della loro colpa.”
Nikola Harsch
*
Roma e Vienna, la doppia vita della Bachmann
“Ho visto che dicendo Roma si evoca ancora il mondo e che la chiave della forza sono quattro lettere S.P.Q.R.” (Ingeborg Bachmann, Quel che ho visto e udito a Roma). Ingeborg Bachmann, poetessa e scrittrice austriaca, visse per molti anni a Roma dove morì a causa di un terribile incidente il 17 ottobre 1973.
Nacque a Klagenfurt (Carinzia) nel 1926 e passò la sua infanzia lì, vicino al confine con l’Italia. Nel 1945 lasciò la casa dei genitori e dopo un anno di studi a Innsbruck e a Graz si trasferì a Vienna dove rimase fino alla laurea in filosofia e dove cominciò anche a scrivere poesie e radiodrammi. Nel 1952 fu invitata da Hans Werner Richter, insieme a Paul Celan e Inge Aichinger, al decimo congresso del Gruppo 47 che nel 1953 le assegnò un premio per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato. Nello stesso anno accettò un invito a Ischia da parte del compositore Hans Werner Henze. Partì per l’Italia lasciandosi alle spalle l’Austria dove non sarebbe più ritornata tranne che per brevi visite. A Ischia scrisse le poesie della raccolta L’Invocazione dell’Orsa Maggiore e furono in molti a dire che il suo stile si fosse trasformato positivamente con il trasloco.
Nell’autunno del 1953 la Bachmann venne a Roma per la prima volta. La decisione di trasferirsi nella capitale fu dettata dal bisogno di guadagnare: per un anno scrisse come corrispondente per vari giornali tedeschi. La sua idea fu quella di restare a Roma soltanto per qualche mese ma ci rimase molto di più benché non poté mai spiegare il vero motivo della sua decisione. Si stabilì nella capitale e presto entrò a far parte della scena letteraria romana.
Collaborò alla rivista letteraria Botteghe Oscure e tradusse le poesie di Giuseppe Ungaretti, si interessò di Morante e Manganelli, scrisse un saggio sulla relazione tra la letteratura italiana e quella tedesca e conobbe gli scrittori tedeschi che vivevano a Roma, tra cui Marie Luise Kaschnitz e la figlia Iris, Hermann Kesten e quelli che frequentarono come loro l’Istituto di Studi Germanici a Villa Sciarra. Spesso le venne chiesto perché avesse scelto di vivere proprio a Roma. Lei descrisse Roma come “una città aperta” con “un carattere utopico” dove si riesce ad avere “una sensazione di patria intellettuale”. In uno dei suoi pochissimi testi su Roma, Quel che ho visto e udito a Roma del 1954, descrisse proprio questo.
Nel 1957 Ingeborg Bachmann lasciò Roma per alcuni anni. Si trasferì a Monaco di Baviera dove accettò un posto in televisione come drammaturgo. Conobbe lo scrittore svizzero Max Frisch con il quale fu legata in una relazione molto movimentata fino al 1962. Con lui visse tra Roma e Zurigo, ma fu soltanto dopo la fine del loro rapporto che nel 1966 decise di ritornare definitivamente a Roma. Abitò in Via Bocca di Leone 60 (oggi una lapide ricorda gli anni dal 1966 al 1971) e dopo si trasferì in Via Giulia 66 dove visse fino alla morte. Soffrì di gravi problemi di salute dovuti alla sua farmacodipendenza ma nonostante tutto lavorò ininterrottamente al ciclo “Modi di morire”, una serie di romanzi che dovevano avere come tema la morte dovuta alla società. Summa della sua opera narrativa è Malina (1971), primo romanzo del ciclo; il secondo romanzo del ciclo, Il caso Franza, rimase incompiuto.
Quando la Bachmann parlò della sua vita a Roma alla fine degli anni Sessanta, la chiamò Doppelleben, doppia vita. I suoi racconti della raccolta Il trentesimo anno e anche i romanzi furono, infatti, ambientati esclusivamente in Austria mentre lei viveva nel cuore di Roma. “Sto meglio a Vienna perché sono a Roma; senza questa distanza non potrei immaginarla per il mio lavoro.”
Ingeborg Bachmann non fu la tipica poetessa venuta dal Nord, piena di ammirazione per l’Italia con la sua storia e i suoi monumenti, non sentì il bisogno di descrivere continuamente la città eterna come lo fecero molti dei suoi colleghi tedeschi. Sottolineò spesso che per lei vivere in Italia fosse qualcosa di normale visto che era cresciuta vicino al confine. Fu a Roma che trovò la libertà e la forza per concentrarsi sul suo lavoro di scrittrice e dove seguì un impegno ben preciso: “Il compito dello scrittore non può consistere nel negare il dolore, nel nascondere le tracce, nel far nascere illusioni su di esso. Per lui, anzi, il dolore deve essere vero e deve essere reso tale una seconda volta, cosicché noi possiamo vederlo. Tutti, infatti, vogliamo diventare vedenti. E solo quel dolore nascosto ci fa sensibili all’esperienza e soprattutto all’esperienza della verità. Quando siamo in questo stato in cui il dolore diventa fertile, stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un oggetto o un avvenimento, ma proprio perché comprendiamo ciò che non possiamo vedere. E l’arte dovrebbe portare a questo: far sì che, in tal senso, ci si aprano gli occhi” (Die Wahrheit ist dem Menschen zumutbar).
Il dolore di cui la Bachmann parlò come via verso la percezione di una realtà diversa è quello della guerra, il “dolore troppo precoce” che aveva provato quando le truppe di Hitler invasero Klagenfurt, l’amara scoperta della volontà di distruzione, del desiderio di supremazia che si cela nelle relazioni umane, delle “ombre cupe” che accompagnano la vita di tutti i giorni.
Nikola Harsch, l’Unità, 17 ottobre 2003
*
È buio fitto davanti alla finestra, non posso aprirla e premo il viso contro il vetro, non si riesce a vedere quasi niente. Lentamente ho l’impressione che il fosco specchio d’acqua potrebbe essere un lago e sento gli uomini ubriachi cantare sul ghiaccio un corale. So che dietro a me è entrato mio padre, ha giurato di uccidermi, e mi metto svelta tra la lunga tenda pesante e la finestra, in modo che non mi sorprenda a guardare fuori, ma so già quello che non debbo sapere: in riva al lago c’è il cimitero delle figlie uccise.
da Malina, Adelphi
*
Era proprio uno strano meccanismo il suo, viveva senza un solo pensiero in testa, immersa nelle frasi degli altri che immediatamente doveva ripetere come una sonnambula, ma con suoni diversi: di “machen” sapeva fare to make, faire, fare, hacer e delat’, era capace di girare ogni parola come su un rullo per ben sei volte, soltanto non doveva pensare che machen significava veramente machen, faire fare, fare fare, delat’ delat’, questo avrebbe reso la sua testa inservibile e lei doveva stare molto attenta a non venire un giorno travolta da quella valanga di parole.
da “Simultaneo”, Tre sentieri per il lago, Adelphi
*
il rogo è eretto sul Kurfürstendamm, angolo Joachimsthalerstraße. C’è il black-out dei giornali. Nessuno dei giornali con cui si può accendere il fuoco è uscito. L’edicola è vuota, non c’è neanche la giornalaia. La gente esita, poi ciascuno si fa coraggio e prende un ciocco. Alcuni si portano subito a casa il ciotto sotto il soprabito, altri cominciano lì sul posto a incidere nel legno col temperino quel che gli salta in mente: segni solari, segni di vita. Un aio di persone fanno osservazioni volgari e dicono che la legna è umida. Un uomo decrepito alza il suo ciocco e grida: sabotaggio! Li lasciamo cadere in mano agli altri! E davvero i ciocchi corrono già in cerchio, ognuno passa all’altro un ciocco, ma nessuno scherza col fuoco, tutti sono molto ragionevoli. Ben presto la legna è finita e il traffico riprende. Tutt’a un tratto i giornali escono, prima i giornali piccolissimi, con lettere in grassetto nero, con sottolineature cotennose, con grasso freddo in eccedenza che sgronda ai margini. Poi i giornali grandissimi, quelli magri, stracotti, ricoperti di brodo pallido, che si prendono in mano coi guanti.
Fonte delle Poesie riprodotte- Avamposto-Rivista di Poesia
Testi selezionati da Il barbagianni. L’ignorante (trad. di F. Pusterla, Einaudi, 1992)
Philippe Jaccottet
Portovenere
Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.
Interno
Cerco da tempo di vivere qui,
in questa stanza che fingo d’amare,
tavolo, oggetti quieti, la finestra
che in fondo ad ogni notte apre altri verdi,
e il cuore del merlo che batte nell’edera scura,
punti di luce sulle macchie d’ombra.
Anch’io cerco di dirmi: «L’aria è dolce,
sono a casa, la giornata sarà buona».
C’è solo, in fondo al letto, questo ragno
(si sa, è il giardino), che non ho abbastanza
ucciso, sembra stia tessendo ancora
la trappola al mio fragile fantasma…
Philippe Jaccottet
***
Di notte, nella città dove vivo in immagine,
la nebbia trasforma le strade in passaggi e voragini,
in cui vanno i fantasmi, come portando altrove
quel lieve vapore che sale dal fondo del cuore.
Eppure insisto, per quanto sia incapace il solitario,
e osservo le figure della luce. E se poi fosse
appunto per la pietra che vacilla, o perché il vento
di fronte ai bar impazza come un cane, o perché squassa
foglie, finestre malchiuse, che finalmente
stavo per incrociarvi, distrutta la forza,
estrema fragilità sempre sfuggente: e se poi avessi
acciuffato il vostro mantello di cuoio… Ora sapendo
che i muri più alti non sono che leghe di polvere,
che chiasso e arditi specchi dei caffè improvvisamente
s’incrinano ai primi suoni del mattino, e che salendo
ai belvedere di periferia la città appare
povero mucchio di braci fumanti,
più non accoglierò queste figure terrificanti,
e ancora camminerò, benché sia inverno, e gli ultimi
ricordi di ieri il fiume abbia travolto…
Vivrò meno tremante in queste fortezze di sabbia,
poiché desidero solo una cosa che sfugge, vaga,
questa parola detta in un soffio alla bocca in attesa,
sull’astro degli occhi brucianti questo passaggio di nebbia.
Philippe Jaccottet
L’ignorante
Più invecchio e più io cresco in ignoranza,
meno possiedo e regno più ho vissuto.
Quello che ho è uno spazio volta a volta
innevato o lucente, mai abitato. E il donatore
dov’è, la guida od il guardiano? Io rimango
nella mia stanza, e taccio (entra il silenzio
come un servo che venga a riordinare),
e attendo che a una a una le menzogne
scompaiano: cosa resta? cosa rimane a questo moribondo
che gli impedisce ancora di morire? Quale forza
lo fa ancora parlare tra i suoi muri?
Potrei saperlo, io, l’ignaro e l’inquieto? Ma la sento
parlare veramente, e ciò che dice
penetra con il giorno, anche se è vago:
«Come il fuoco, l’amore splende solo
sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere…»
Il lavoro del poeta
Compito dello sguardo che s’offusca
non è sognare o piangere, è vegliare
come un pastore il gregge, e richiamare
ciò che rischia di perdersi nel sonno.
*
Così, sul muro acceso dall’estate
(ma non sarà piuttosto dal ricordo)
vi guardo dentro la pace del giorno,
voi che andate lontano, che fuggite,
vi chiamo, luminosi dentro l’erba
più scura, come un tempo nel giardino, voci o luci
(chi sa) che legano i defunti con l’infanzia…
(È morta, la signora sotto il bosso,
spento il suo lume, al vento il suo corredo?
O un giorno tornerà da sotto terra
e potrò dirle, io, andandole incontro: «Che ne è stato
di tutto questo tempo, in cui tacevano
il riso e i vostri passi per la via? E non si poteva
che andarsene così, senza avvisare?
O signora! tornate ora fra noi…»)
Nell’ombra ed ora d’oggi sta in silenzio,
nascosta, l’ombra di ieri. E questo è il mondo.
Non lo vediamo a lungo, quel che basta
a trattenerne quello che scintilla, e a poco a poco
si spegne, a chiamare ancora e poi ancora, e a tremare
di non vedere più. Così si sforza
il misero, come chi, inginocchiato, contro vento,
tenta di radunare un magro fuoco…
***
Adesso so che non possiedo nulla,
neppure l’oro delle foglie fradicie,
né questi giorni che a gran colpi d’ala
vanno da ieri a domani, rimpatriano.
Lei fu con loro, pallida emigrante,
tenue beltà coi suoi segreti vani,
brumosa. E ora condotta certamente
via, tra i boschi piovosi. Come prima
eccomi in faccia a un irreale inverno,
ricanta il ciuffolotto, unica voce
che insiste, come l’edera. Ma il senso
chi lo può dire? E la salute scema,
simile oltre la nebbia al fuoco breve
che un vento glaciale smorza… Ed è già tardi.
Philippe Jaccottet
Il barbagianni
La notte è una grande città addormentata
battuta dal vento… È venuto fin qui da lontano,
all’asilo del letto. È mezzanotte di giugno.
Tu dormi, mi hanno portato a questi bordi infiniti,
freme al vento il nocciolo. Ecco il richiamo
che viene e si ritrae, sembra davvero
una luce in fuga nei boschi, o quel che dicono
il vorticare d’ombre giù negli inferi.
(Questa voce nella notte estiva, quante cose
potrei dirne, e dei tuoi occhi…) Ma è soltanto
il grido del barbagianni che ci invita
nel folto di questi boschi suburbani.
E subito il nostro odore
è quello del marciume al far dell’alba,
subito sbuca l’osso
sotto la nostra pelle così calda,
e intanto le stelle svaniscono in fondo alle strade.
Philippe Jaccottet
Breve biografia di Philippe Jaccottet è nato nel 1925 a Moudon, nella Svizzera francese, ed è morto a Grignan nel 2021.Dal 1953 ha vissuto in Francia. Ha tradotto Hölderlin, Musil, Rilke (cui ha dedicato una monografia critica) e poeti italiani, tra cui Ungaretti, Montale, Bertolucci, Sereni. Nel 1953 ha pubblicato Il barbagianni e altre poesie, cui sono seguite Poesie (1971), con prefazione di J. Starobinski, Alla luce d’inverno (1994), E tuttavia (2001). La sua attività di prosatore e saggista trova l’espressione più alta nei taccuini di Appunti per una semina (1984), seguiti da La seconda semina (1996) e dal saggio La parola Russia (2002).
-Avvenire- Giornale della CEI-
Philippe Jaccottet
Addio a Philippe Jaccottet, poeta in ascolto della presenza e della natura
Articolo di Alberto Fraccacreta -giovedì 25 febbraio 2021
Aveva 95 anni, è tra i massimi poeti in lingua francese. Nato in Svizzera, viveva da tempo nell’Alta Provenza, “ambiente” delle sue poesie, in cui si sposano leggerezza e profondità.
Ho telefonato a casa di Philippe Jaccottet qualche tempo fa. «Jaccottet… Oui?», la subitanea risposta. Ho cominciato a biascicare qualche parola in un francese da arresto. Desideravo chiedere al poeta, scomparso ieri a 95 anni, la sua disponibilità per un’intervista. L’energica seppur pacata voce che era all’altro capo del telefono, sembrava sorridere alla richiesta e adduceva alcune ragioni per un diniego che in verità non ho compreso del tutto. Certo è che, alla fine, in perfetto italiano Jaccottet ha chiosato: «Sono vecchissimo… ormai…». La mia attenzione, una volta chiuso l’ancora tremolante telefono, s’indirizzò più all’“ormai” che al “vecchissimo”. “Ormai” significava l’essere entrato in una dimensione che osservava l’esteriorità del mondo con uno sguardo indulgente ma distaccato.
Il Philippe che aveva ribattuto così cortesemente era lo stesso io lirico di E, tuttavia (traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 2006): un io povero, capiente. Più sganciato dalle cose. Attento alla loro lucentezza. Già Starobinski lo aveva sottolineato nel memorabile saggio Parlare con la voce della luce, presente in forma di postfazione in Il Barbagianni. L’ignorante (a cura di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992): «È forse questo l’aspetto più ammirevole dell’opera di Philippe Jaccottet: […] il soggetto cui essa rinvia è il più discreto che esista, desideroso unicamente di alleggerire la propria presenza, di renderla quasi invisibile». Insomma, la poesia di Jaccottet è umile, discreta, come ha evidenziato lo stesso Pusterla, uno dei massimi esperti mondiali del poeta svizzero, autore della prefazione delle Œuvres nella prestigiosa edizione Gallimard (“Bibliothèque de la Pléiade”, 2014).
Avevo inviato persino una lettera, alcuni mesi prima, alla quale rispose declinando sempre la sospirata intervista ma esultando del «beau souvenir» che arrivava da Urbino: qual era il souvenir? La lettera stessa, scritta anche in quell’occasione in un francese spericolato. La lettera era Urbino. Questa, in fondo, è la poesia: il mezzo è la traccia inderogabile del messaggio. E Urbino era Raffaello, Piero della Francesca, la Madonna di Senigallia (di cui Jaccottet parlò raffrontandola curiosamente ai quadri di Morandi in La ciotola del pellegrino (traduzione di Fabio Pusterla, Casagrande, 2007).
Nato a Moudon nel 1925, dopo gli studi a Losanna, Jaccottet andò a vivere a Parigi. Il frenetico ambiente letterario della capitale non gli era familiare, al punto che decise di trasferirsi nell’ottobre del ’53 con la moglie e pittrice Anne-Marie Haesler a Grignan, paese medievale in Alta Provenza non lontano dal Rodano. Nella solitudine essenziale del suo studiolo intraprende la strada della traduzione, lavorando a Omero, ai classici tedeschi e alla poesia italiana (Ungaretti su tutti, ma anche Montale, Bigongiari e molti altri). In un’intervista televisiva (reperibile su Vimeo) Jaccottet ha confessato che la sua vita cambiò quando, durante una passeggiata dal sapore esiodeo, vide «un albero di mele cotogne sul ciglio della strada»: «Un albero abbastanza raro che io non avevo mai visto in fiore. Allora è successo qualcosa che mi ha a dir poco influenzato».
Lì nella Drôme provenzale costruisce la mitologia delle sue ambientazioni poetiche: il nido dell’anemone, le carote selvatiche come «piccole galassie in sospensione», il pettirosso «porta-lanterna», i colori diafani del tramonto simili a «lame vetrificate», l’usignolo in un «ruscello nascosto nella notte». Questi soggetti – a prima vista “insignificanti” – sono latori di uno spazio intermedio (entre-deux) che non si oppone né alla terra né al cielo, ma tenta di cogliere “rasoterra” una trascendenza dentro il reale, uno scorcio di ulteriorità nell’atto della presenza. Il punto di vista dello scrittore è quello di un ignorant («Più invecchio e più io cresco in ignoranza,/ meno possiedo e regno più ho vissuto»), capace di annotare la limpidezza sorgiva di una immacolata percezione.
La poesia di Jaccottet nasce sotto gli auspici di questa levità e di un classicismo disarmante. Pian piano, però, sin dagli anni Settanta e Ottanta con Alla luce d’inverno e Pensieri sotto le nuvole (poi tradotte ancora da Pusterla per Marcos y Marcos, 1997) si sviluppa la predilezione per una lirica larvale che slaccia la cerniera del verso e apre la scrittura a un grembo di osservazioni, bozzetti, sequenze estremamente moderne. Una scrittura legata in maniera indissolubile all’occhio purificato («Che cos’è lo sguardo?/ Una freccia più aguzza della lingua/ la corsa da un estremo all’altro/ dal più profondo al più lontano/ dal più scuro al più chiaro// un rapace», da Arie, traduzione di Albino Crovetto, Marcos y Marcos, 2001), con uno stile paesaggistico e impressionistico che coinvolge l’amato Cézanne e Morandi nel contemplare l’«immemoriale respiro divino», come accade in Paesaggi con figure assenti (a cura di Fabio Pusterla, Armando Dadò, 2009).
Dagli inizi degli anni Novanta a oggi – lasso di tempo in cui fioccano premi importanti, tra cui il Goncourt per la poesia (2005) e il Premio Mondiale Cino-del-Duca (2018), oltre alla sempiterna candidatura al Nobel – la svolta del poème en prose cambia definitivamente i connotati all’opera jaccottetiana: saggi, riflessioni, pezzi narrativi confluiscono nell’unico genere lirico che acquista la forza di un’epica slabbrata, di una totalizzante ossessione elegiaca. Assieme al diario di viaggio (in Russia, Austria, Libano, Siria e Israele) e agli immarcescibili carnets, viene fuori un’idea di silloge destinata a mutare per sempre la percezione fisionomica della poesia: versi e non versi nel medesimo calderone, lirismo e saggismo coagulati, appunti e riquadri romanzeschi (non dimentichiamo la pubblicazione di Appunti per una semina, a cura di Antonella Anedda, Fondazione Piazzolla, 1994; e il romanzo L’oscurità, a cura di Gianluca Manzi, Fazi, 1998), fino alle prose di Passeggiata sotto gli alberi (prefazione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos), in uscita il 17 marzo prossimo: tutto, davvero tutto è poesia.
Sulla scorta di tale slargo espressivo nasce il capolavoro assoluto di Jaccottet, il già citato E, tuttavia con le paroles à la limite de l’ouïe, «parole al limite dell’udito, a nessuno attribuibili, raccolte nella conca dell’orecchio proprio come la rugiada da una foglia». Il gesuita Hopkins, Juan de la Cruz, Claudel e persino Gesù si affacciano al testo nelle vesti sfolgoranti dell’intuizione poetica effigiata dall’azzurro e dall’arancio del martin pescatore, passando sotto lo schiocco di viole che sgombrano la vista, convolvoli rosa che richiamano il poeta a «una sorta d’origine». Qui, nell’infimo e nel consueto, s’infrange ogni resistenza, ogni inchiodatura di scetticismo – pure segnalato dall’esperienza del dolore e della morte nelle coeve Note dal botro – per dar luogo a una forma di immacolatezza, di mariologia della letteratura che offre speranza e consolazione: «Ripenso al verso di Nerval che accosta la santa e la fata: potrei assistere qui, nel mio giardino, alla trasfigurazione della fata ancora rosa, ancora incarnata, nella sua propria anima purissima e priva di peso? Sarebbe troppo bello, troppo conforme ai miei sogni. Credo ci sia piuttosto in questa scena qualcosa come un’acqua molto pura».
La recente monografia di Maurizio Nascimbene, Philippe Jaccottet, un poeta “qui creuse dans la brume” (Nulla Die, 2020) registra come tale «valore attribuito all’innocenza» appaia strettamente connesso a un’«attività poetica volta a indagare il Tutto». E proprio in questi giorni Crocetti ha tradotto un libro che prosegue e celebra il senso di ospitalità lirica, Quegli ultimi rumori… (a cura di Ida Merello e Albino Crovetto).
Con vera commozione rivolgiamo oggi il nostro pensiero alla scomparsa di un autore che ha associato, se non sovrapposto del tutto, la sua esperienza di poeta alla sua esperienza di uomo. Un uomo e un poeta la cui opera, lungi dal digradare a evento moralizzatore, ha in sé una radice di ethos insradicabile, una passione originale per la verità e la bellezza, una volontà di bene come raramente si è potuto osservare a queste altezze, con questo vigore e impeccabilità stilistica, nella storia della letteratura occidentale. Se è possibile utilizzare un’espressione di Amelia Rosselli, “tutto il mondo è vedovo” se Philippe Jaccottet non cammina ancora per le strade di Grignan.
Fonte delle Poesie riprodotte- Avamposto-Rivista di Poesia
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Avamposto-Rivista di Poesia
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
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