Poesie di Pasquale Vitagliano dalla raccolta “Apprendistato alla salvezza”
Editore Interno Poesia – Nota di Antonio Fiori.
Breve biografia di Pasquale Vitagliano è nato a Lecce nel 1965, è poeta e critico letterario. Presente nell’Atlante dei poeti italiani contemporanei “Ossigeno nascente”, curato dall’Università di Bologna, è caporedattore della rivista letteraria Menabò, animatore del Litblog Lapoesiaelospirito, e collabora con la Gazzetta del Mezzogiorno. Tra le sue opere ricordiamo, in prosa: “Le voci del pretorio”, David and Matthaus (2017), “Sodoma”, Castelvecchi (2017); in poesia: “Del fare spietato”, Arcipelago Itaca (2019); in veste critica: “Icone e labirinti”, Terra d’ulivi (2020).
C’è stato tolto tutto
Chi si azzarda più
A dipingere madonne
Ci hanno privato delle ninfe
Le nature morte sono morte davvero
Non più scandalo nemmeno
Un barattolo o un volto scomposto
Ci hanno lasciato infine i rifiuti
Al massimo da differenziare
Che arte puoi fare se non un’alchimia
Almeno per chi come a tutti gli umani
Spetta di camminare.
*
In questa poesia non ci sono alberi
Animali o elementi naturali
Neppure parti del corpo e
Neanche oggetti di uso comune
Che pure sono quelli che preferisco usare
In questa poesia ci sono soltanto
settanta parole che senza aspettarsi premi
Cercano di scrivere appena
Ciò che la vita non riesce a dire
Quello che dalla vita avanza
Perché possa smaltirsi il dolore
Per dare un senso alla salvezza.
*
Arride sulla trincea
La scia del tracciante
Irradia l’ultima notizia
La guerra privata è finita
Il bollettino quotidiano
Sulla battaglia continua
Irride la gloria alla buon’ora.
Quello alla salvezza è un apprendistato che dura tutta la vita; ne dà prova e testimonianza Pasquale Vitagliano non solo in questa silloge ma in tutto il suo percorso di scrittura poetica.
Una poesia che qui certo volge all’introspezione ma sempre partendo dallo sguardo sul mondo, dalla sua vocazione etica e civile: Far sì che agendo/ Il dire e il fare/ Guardino dalla stessa sponda/ Smetterla così di fare cose/ Con le parole agire/ In tutto quello che accada.
Chiuso nella sua stanza, il poeta è assediato da dubbi, sospetta congiure, cerca di riordinare i pensieri. In un verso ci rivela chedisteso sul letto mi tiene la mano l’assenza più attesa.
Incontriamo anche molti testi meta-poetici, apparentemente assertivi ma forse solo provocatori, vicini al realismo terminale: Le cose sono parole e gli oggetti parlano/ Senza bisogno di muoversi/ Perché adesso puoi toccare/ Ciò che dici.
L’apprendistato conosce tappe di assestamento, nelle quali si addensano insegnamenti e consigli (La luce non serve la speranza non smuove/ Alzati ascolta prova a spostarti cammina/ La luce non serve per salvarsi) e si chiude con la prima poesia intitolata (“Taranto per noi”).
Segue la sezione “Dopo la battaglia”, nella quale irrompe l’attualità: Non mi aspettavo una guerra/ Per cui non devo combattere/ Eppure sono in trincea/ Con un solo colpo in canna/ Così devo difendere la chiave/ Da passare al prigioniero.
Il libro si chiude con una bella lettera di Lino Angiuli, da poeta a poeta: “Poesia come arte dell’abbandono ed elemosina del senso, dunque; allestimento di una disposizione d’animo (e d’anima) che possa fare da apripista alla scaturigine di un quid che si intuisce esserci da qualche parte, e da cui ci si aspetta di essere visitati, senza ovviamente scansare le preziose istruzioni del buio.”
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Chiara Colombini-Storia passionale della guerra partigiana-
Editori Laterza-Bari
DESCRIZIONE del libro di Chiara Colombini -Storia passionale della guerra partigiana-A partire dall’8 settembre 1943 fino all’aprile del 1945 migliaia di giovani e meno giovani abbandonarono la loro vita abituale, presero le armi e si gettarono in un’avventura che stravolte la loro esistenza.
Perché lo fecero? Quali furono i sentimenti e le passioni che li spinsero ad un passo del genere e li sostennero in quei venti mesi?
Amore e odio, speranza e vendetta, dolore e felicità: osservare le passioni della resistenza ‘in diretta’ significa avvicinarsi a quella esperienza in modo quasi viscerale ed eliminare le distorsioni prospettiche che inducono a giudicare le scelte di allora con il metro del nostro presente.
Amore e odio, speranza e vendetta, dolore e felicità: osservare le passioni della Resistenza ‘in diretta’ significa avvicinarsi a quella esperienza in modo quasi viscerale ed eliminare le distorsioni prodotte dal passare del tempo.
Le passioni e i sentimenti, lo sappiamo, hanno un ruolo fondamentale nelle nostre vite. Ci fanno compiere scelte improvvise, ci fanno gioire e soffrire. Alimentano un fuoco che non può essere spento. Passioni e sentimenti certamente mossero le donne e gli uomini che scelsero la strada della ribellione e della Resistenza durante la guerra. Possiamo comprenderle davvero noi che viviamo un altro tempo e un’altra storia? È quanto prova a fare Chiara Colombini, cogliendo, attraverso diari, lettere e carteggi, queste passioni ‘in diretta’, nel loro erompere durante quei venti mesi, tenendo sullo sfondo ciò che solo lo svolgersi della storia ha permesso di razionalizzare. In un tempo condizionato dall’eccezionalità che deriva dall’intreccio tra guerra totale, occupazione e guerra civile, i partigiani si innamorano, coltivano ambizioni, si accendono di entusiasmo o si arrovellano nell’insoddisfazione. Una condizione in cui, oltre alla vita, è in gioco ciò che si è scelto di essere. E, a quasi ottant’anni di distanza, emerge intatto il fascino di quell’esperienza così centrale per la storia di questo paese, la sua dimensione di profonda umanità, il prezzo pagato da uomini e donne direttamente nelle loro esistenze, il loro lascito.
L’Autrice
Chiara Colombini-
Chiara Colombini, storica, è ricercatrice presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”.Ha curato, tra l’altro, Resistenza e autobiografia della nazione. Uso pubblico, rappresentazione, memoria (con Aldo Agosti, Edizioni SEB27 2012) e gli Scritti politici. Tra giellismo e azionismo (1932-1947) di Vittorio Foa (con Andrea Ricciardi, Bollati Boringhieri 2010) ed è autrice di Giustizia e Libertà in Langa. La Resistenza della III e della X Divisione GL (Eataly Editore 2015).
Emily Brontë ed Emily Dickinson: “Tra di noi l’oceano” di Mattia Morretta-Gruppo Editoriale Viator
La modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson: “Tra di noi l’oceano” di Mattia Morretta-
Descrizione-Emily Brontë ed Emily Dickinson–Vite parallele delle due Emily più note e ineffabili del panorama letterario, una narrazione biografica arricchita dall’approfondimento tematico dell’opera e da traduzioni più aderenti al testo originario, ricostruendo i collegamenti esistenziali e artistici, le consonanze dei profili di personalità e dell’ispirazione. Una singolare rilettura che svela perché la loro scelta di votarsi alla scrittura, rimanendo latenti e dietro le quinte del mondo, si sia tradotta in libertà morale e solida eredità culturale. Si scopre infatti che per i contenuti e gli accenti sono nostre contemporanee e che ci rianimano con un vocabolario dotato di eccezionale energia. Maestre di consapevolezza con domande sul dolore, la malattia e la morte, l’identità personale e sessuale, le prove dell’amore e della solitudine, la conoscenza dei fenomeni mentali e il rapporto con la natura. Storie esemplari, fondate sulla qualità della vita interiore e sulla distanza critica indispensabile per dialogare con sé stessi e gli altri. Un viaggio nel passato e nel futuro con tre parole chiave: poesia, memoria, eternità.
Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00)
Articolo di di Simone Bachechi-Fra le due sponde dell’oceano del nostro atlante occidentale si staglia da pochi mesi (il volume è uscito lo scorso maggio per i tipi di Viator) il sorprendente e affascinante studio di Mattia Morretta sulle due Emily più celebri della letteratura moderna: Emily Brontë ed Emily Dickinson sono le protagoniste di questo bel saggio dello psichiatra e sessuologo milanese, il quale ha già all’attivo altri titoli che spaziano dalla biografia d’artista all’analisi sociologica con attinenza alle tematiche più vicine alla nostra contemporaneità.
In Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00) le due donne e poetesse, la Dickinson è universalmente conosciuta come tale, mentre la Emily di Haworth è meno nota per la sua opera poetica (sono circa duecento le poesie pervenuteci, svettando nella sua produzione il capolavoro della letteratura vittoriana Cime tempestose), sono tratteggiate nella comunanza della loro debordante e allo stesso tempo schiva e al limite del monacale personalità, del loro temperamento tormentato, del loro apparente disadattamento sociale e disagio psichico, tutte caratteristiche che non impediscono di riconoscere in loro il ruolo di «integre amazzoni antesignane del femminismo», non fosse altro per l’epoca storica nella quale si è svolta la loro parabola umana e artistica, per «la maestosa sacerdotessa di Amherst», come è stata definita la Dickinson, il New England puritano delle seconda metà dell’Ottocento, per l’altra, la seconda delle sorelle in lettere Brontë, il contesto rurale e isolato di un villaggio perduto nelle lande dello Yorkshire ai piedi dei Monti Pennini, all’interno del presbiterio di campagna di una famiglia povera e numerosa in cui il padre era curato perpetuo. Per loro vale quanto citato nel volume dal Don Giovanni di Byron:
Molti alberi solitari crescono in altezza/maggiormente quelli pigiati nel labirinto della foresta (Canto XVII, 1, 1823).
A dispetto dell’isolamento la loro vocazione artistica diviene strumento di inclusione sociale e allo stesso tempo rivendicazione del ruolo della donna fuori dallo stereotipo e ruolo obbligato imposto dalla società ottocentesca che la vorrebbe relegata alle domestiche occupazioni, magari svenevole, pudica, docile, oggetto della narrazione maschile e non soggetto attivo dedito a “pericolose” attività intellettuali che avrebbero potuto minare la supremazia dell’uomo disposto a un riconoscimento della femminilità basato solo sull’esteriorità.
La Dickinson, la quale ci dice Morretta con la sua «vista telescopica, snobbando esami di abilitazione e quote rosa, aveva già concluso di nascosto la scalata della metafisica», la Brontë decisa a non prendere in considerazione il copione del gentil sesso e che anche con la sua celebre prova romanzesca riesce a scardinare i classici stereotipi femminili. La confusione e compenetrazione dei sessi è un dato costante nelle due Emily senza che questo conflitto arrivi a una sintesi in un ipotetico terzo sesso ma trovando espressione nella corporeità dilaniata che si fa parola poetica nella Dickinson come nei vari personaggi e “tipi” psicologici di Cime tempestose.
Il relativo provincialismo delle due autrici non impedisce di lasciar affiorare nei loro scritti «esempi di sorprendente modernità per l’esercizio di lucida introspezione e osservazione minuziosa del funzionamento mentale, metà protestantesimo e metà insegnamento dei classici, una pagina della Bibbia e una di Shakespeare, filosofia remota e piscoanalisi a venire».
Troppo spesso studiate (soprattutto la Dickinson) a partire dal dato clinico, mettendole così a distanza di sicurezza, accettando il genio solo se inquadrabile in una sindrome, le due Emily sono anche accomunate dall’«astrattezza e strumentalizzazione tipica dell’industria culturale», «ingessate in letture riduttive e abbozzate» dice Morretta, e quindi vittime dell’omologazione. Il successo per molti versi tardivo della Dickinson, il pubblico riconoscimento relativamente recente, frutto di letture spesso superficiali ne è la testimonianza.
Le due Emily sono osservate dall’autore sotto diversi punti di vista: bibliografico, non mancando un’attenta analisi filologica sulle loro opere partendo da estratti delle loro poesie tradotte dallo stesso per una maggiore aderenza al testo originario e nel caso della Brontë facendo riferimento oltre alle liriche anche al celebre romanzo, biografico, scandagliando le loro vicende private (ma cosa c’è di privato nella poesia che vuole farsi voce dell’assoluto?) e allo stesso tempo offrendoci un quadro sociologico delle epoche e degli spazi geografici che le due si sono trovate ad attraversare, focalizzando l’attenzione (forse per deformazione professionale dell’autore?) su una loro caratterizzazione di tipo psicologico che quanto mai come nel caso della Dickinson risente del linguaggio provocatorio del filtro psicanalitico. Non mancano accurate riflessioni sul sentimento che “move il sole e l’altre stelle”. Le due Emily sono fra le grandi cantrici dell’amore che in poche come loro è dimensione ideale, immagine stessa del distacco, ferita, distanza ben espressa in alcuni versi della sacerdotessa di Amherst:
Così dobbiamo incontrarci separati/tu là – io qui/con la porta appena socchiusa/ che Oceani sono – e Preghiera – /e bianco sostentamento – /Disperazione – (n. 640, 1862).
Un costante processo di smaterializzazione, spiritualizzazione dell’eros: «La loro eccitazione è nella calotta cranica», «Emily and Emily sono interamente psichiche». È questo il grande messaggio lasciatoci, l’attenzione, il credo e fedeltà nella forza taumaturgica della parola e dell’influenza divina della poesia come già espresso nell’esergo al volume costituito da alcuni versi di Kavafis:
A te mi volgo/Arte della Poesia, che un poco sai di farmachi,/e del dolore una narcosi tenti/nella parola e nella Fantasia.
Un richiamo alla potenza dell’interiorità, alle “voci di dentro” che ha del religioso, quel sentimento così vivo soprattutto nella Emily di Amherst, perché vivere è sentire, amare, sperare e tanto meno questi beni si trovano nel mondo reale quanto maggiore è la capacità di sentire; un elogio della ricchezza della vita interiore a dispetto della morte che incombe e sulla quale la poesia di Emily Elizabeth è una grande meditazione. Scrive la Dickinson in una lettera a Thomas Higginson, il critico con il quale avrà una pluriennale corrispondenza: «Trovo estasi nell’atto di vivere – il semplice senso di vivere è gioia sufficiente» e ancora «Vi è sempre una cosa di cui sentirsi grati: essere se stessi e non qualcun altro». Un percorso di indagine e autoanalisi che trova espressione nella forma letteraria; scendere dentro se stessi per far maturare lentamente la propria anima, solennemente, in modo nascosto, distillato, in maniera che passi in lei solo il meglio:
Non conosciamo la nostra altezza
Finché non siamo chiamati ad alzarci
(n. 1176, 1870)
È la meraviglia nel constatare la grandezza nella piccola misura, l’immensità nella finitezza, tutte cose rese dalla Dickinson con mirabili metafore che rimandano all’incanto della natura, «la casa stregata» alla quale è dedicata così ampio spazio nelle sue poesie, a partire dai fiori, coltivati con amorevole cura da Emily Elizabeth nel suo giardino, i «nostri piccoli parenti» che svettano in verticale, simbolo spirituale, emblema della bellezza e allo stesso tempo della caducità, la stessa natura osservata dalla Emily di Haworth sia in Cime tempestose che nelle sue liriche, il cui spettacolo di armonia e sacralità ci fa dimenticare (almeno per un po’) la sua crudeltà.
Una lettura quella di Morretta che va ben oltre la semplice biografia d’artista, quasi un piccolo trattato di psicologia o psicanalisi per tramite del medium letterario. Ne nascono vere e proprie tipizzazioni delle due Emily, tanto da arrivare a parlare di processo di ermafroditizzazione in Emily Brontë e facendo ricorso parlando della Dickinson tramite altrui studi doverosamente citati sulla sacerdotessa di Amherst di « voyueurismo, vampirismo, necrofilia, lesbismo, sadomasochismo».
Quale che sia l’apporto della malattia o del semplice disagio psichico all’opera delle due Emily, ben rappresentato in una delle brevi e fulminanti espressioni per sentenze dickinsoniane: «Da un grande male un grande bene» o volendo accreditare in tal senso la somma aritmetica di Roberto Bolaño «Letteratura+malattia=malattia», è innegabile lo svettare della personalità (e Morretta lo mette bene in evidenza) di due «dissenzienti e dissidenti poco decifrabili», refrattarie ai tentacoli della moltitudine, felici interpreti del motto ovidiano Bene qui latuit, bene vixit o del Lathe biosas epicureo, tanto da divenire celebri per la ritrosia a pubblicare i propri scritti, le quali con il loro atteggiamento, non una posa o un vezzo ma una scelta artistica e esistenziale, riescono ancora oggi a parlare «a coloro che insistono nel forgiare la pietra filosofale in un laboratorio sotterraneo nell’era della visibilità e delle creature digitali».
Due autrici nascoste e stanziali, che non si sono mai mosse dalle rispettive dimore e che hanno fatto della staticità fisica e del sostare nel luogo natio l’occasione per la loro crescita mentale e morale, due zitelle solitarie, monacali, quasi ascetiche, votate anima e corpo all’arte, alla poesia, che dalla loro prospettiva a suo modo selvaggia sono riuscite a parlarci dalle stanze di alabastro delle loro dimore del mistero della morte, della natura, dell’amore, di trascendenza, di religione o del suo sentimento. Una, la monaca ribelle del New England osservando il mondo dalla finestra della sua camera, l’altra da un villaggio nel piovoso Yorkshire, entrambe chiamate a dialogare tra di loro nel volume di Morretta e a riconoscersi in un percorso dell’anima avanti e indietro sull’Oceano in un ping pong continuo che è la più forte rivendicazione delle ragioni più esose della letteratura.
Fonte – minima&moralia-
Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00)
Barbara Herzog si è trasferita ventenne dalla Svizzera in Italia, dove si è laureata con una tesi in letteratura africana. È traduttrice ed interprete tra italiano, inglese, tedesco e francese; scrittrice di poesie, racconti, recensioni, articoli e sostenitrice dei diritti umani. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: Se non nel silenzio (L’arcolaio 2015, con prefazione di Francesca Serragnoli) e Sopravvento (Raffaelli 2012, con prefazione di Davide Rondoni). Ha inoltre tradotto dallo svizzerotedesco Qualcuno ha scambiato le mie ossa di Ursula Hohler (Capire 2020). Ha partecipato a vari convegni, rassegne e presentazioni di poesia tra cui Infinito 200 all’Accademia Mondiale della Poesia a Verona ed è stata citata in diverse antologie (tra le quali In My Secret Life, Mirada de Pájaro Editores, Bogotá).
Vuoi suggere da ogni risposta una goccia di anima per assaporarla abbracciarla solo per questo cavi sapere da un sasso e sì, per la tua voce che bacia come il vento gli steli d’erba
***
Quando intuisci a poche sillabe assurgi ciascuna perché non puoi toccare per colmare l’urgenza ogni gemito accarezzato nell’aria non fa che acuire la carnalità del bisogno
***
Inutile arrovellamento le risposte non sgorgano da quel ruscello limpido frastornante fino a poco fa
ruvido palpare per comprendere dov’è finita la piena sgorgano
***
Sublimare è la parola d’ordine dei decreti che giocano al salto della corda
fortunata colgo l’ispirazione nell’inflessione delle parole e costruisco
castelli sulle nuvole se no la mia pelle sarebbe già avvizzita
***
Comprimendo tutte le tue parole risulterebbe il gemito primordiale attraverso tutte le sinapsi fulmine a cielo non domabile in quel punto estesissimo messo a fuoco da te
***
Fatemi dimorare in una risposta che non mi accontenterà mai
volare da lontano intorno a ciò che mai più sarà vicino
fatemi guarire senza accorgermene
sospirare lieta ricordando ridere forte della mia follia tornare al mio io assennato
Da: “Nada màs” puntoacapo editrice, 2021
Barbara Herzog si è trasferita ventenne dalla Svizzera in Italia, dove si è laureata con una tesi in letteratura africana. È traduttrice ed interprete tra italiano, inglese, tedesco e francese; scrittrice di poesie, racconti, recensioni, articoli e sostenitrice dei diritti umani. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: Se non nel silenzio (L’arcolaio 2015, con prefazione di Francesca Serragnoli) e Sopravvento (Raffaelli 2012, con prefazione di Davide Rondoni). Ha inoltre tradotto dallo svizzerotedesco Qualcuno ha scambiato le mie ossa di Ursula Hohler (Capire 2020). Ha partecipato a vari convegni, rassegne e presentazioni di poesia tra cui Infinito 200 all’Accademia Mondiale della Poesia a Verona ed è stata citata in diverse antologie (tra le quali In My Secret Life, Mirada de Pájaro Editores, Bogotá).
Carla Buranello ha lavorato per molti anni come dirigente presso un’azienda internazionale. Lasciato il lavoro, e ritornata padrona del proprio tempo, ha deciso di dedicarsi agli interessi da lungo tempo trascurati iniziando, per pura passione, a tradurre, soprattutto poesie di autori inglesi e americani. Tramite internet, si è messa in contatto con la poetessa angloamericana Anne Stevenson, iniziando una corrispondenza trasformatasi presto in amicizia.
È la casa dove andrò per morire.
PENELOPE
E così rimasi a casa. Sola.
A filare il filo bianco dei giorni,
il filo nero delle notti,
a tessere la tela grigia della mia solitudine.
In me si aprivano territori
popolati da mostri e da paure,
incantesimi di maghe, senza scopo,
seduzioni di ninfe, del tutto inutili,
richiami di sirene, inascoltati.
Io, moglie di eroe per usucapione,
fedele per definizione,
morirò inesplorata.
*
LA CASA NUOVA
È la casa dove andrò per morire
l’occaso, il mio occidente,
la sceglierò con cura, la renderò perfetta,
sarà ampia, luminosa e ben disposta,
avrà spazio e scaffali sul muro
per collocare presente passato e futuro.
All’orizzonte della mia cucina
potrò avvistare l’Oriente e la Cina
senza muovermi dalla finestra
porcellane e sete nella mia testa.
Darò una festa il primo giorno
per festeggiare il non ritorno
siete invitati tutti quanti
mi raccomando … guanti bianchi!
*
LUMACHINA
Lumachina bellissima
amabile sorpresa
su questa verde grumosa
foglia di ortaggio
che condividiamo per cena
nitida e matematica
morbida carne d’ostrica
in convolvolo di lucida scaglia
tu non sai nulla
della spirale logaritmica (1)
non te ne cale
della sezione aurea
di Fibonacci
tu te ne stropicci
lenta e implacabile
attraversi le età
con te porti te stessa
e ogni tua proprietà
in equilibrio fragile
tra il caso e la necessità
(1) il guscio della chiocciola (al pari di altri fenomeni del mondo naturale, quali la disposizione dei semi di girasole e delle squame dell’ananas, o la spaziatura delle foglie lungo uno stelo) presenta uno schema riconducibile a quello della sezione aurea e dei numeri di Fibonacci. L’elemento comune di questi fenomeni è rappresentato dalla spirale logaritmica detta anche “spirale aurea”, attraverso la quale lo sviluppo armonico della forma è legato alla necessità degli esseri viventi di accrescere “secondo natura” in maniera ottimale e meno dispendiosa possibile.
*
NOVELLA SPOSA
Tu mi hai fatto comprare un orologio
per prima cosa
novella sposa
tu mi hai fatto comprare un orologio
e ti sei insediato nel quadrante
hai preso a scandire le mie ore
che prima battevano presso il cuore
eccomi qua
avvinta ad una molla
che ora mi tira
e ora mi sgrolla
e non mi lascia
strettamente mi fascia
mi strozza
mi strizza la gargozza
sputo a fatica
negli ultimi sobbalzi
ore minuti
secondi vuoti
con le lancette mi percuoti
mi frusti
esulti
è straordinario
muoio
in perfetto orario!
*
COMICA FINALE
Ho il cuore vecchio questa sera,
un vecchio cuore
che indossa un parrucchino di parole,
un’assurda dentiera di metafore,
ha le labbra tinte con sangue non suo
e finge un trasporto che non c’è.
Volteggia, piroetta, ammicca,
si esibisce su un liso tappeto
di vocaboli,
si inchina,
vuole gli applausi, il meschino.
Scivola su un accento sdrucciolo,
batte la testa su un sostantivo,
è trafelato, suda,
non sa cosa dire,
non sa come dire.
Cola il cerone delle rime
e il rimmel degli artifici
gli appiccica gli occhi.
Boccheggia,
sta per piangere,
ma una vecchia solerte
-la badante di Euterpe-
lo prende sottobraccio
e passo passo lo accompagna
verso la parola: FINECarla Buranello
Biografia di Carla Buranello è nata a Venezia, dove ha studiato, (laureandosi presso l’Università Ca’ Foscari in Lingue e Letterature Straniere Facoltà di Anglo-Americano), e dove vive tuttora.Ha lavorato per molti anni come dirigente presso un’azienda internazionale. Lasciato il lavoro, e ritornata padrona del proprio tempo, ha deciso di dedicarsi agli interessi da lungo tempo trascurati iniziando, per pura passione, a tradurre, soprattutto poesie di autori inglesi e americani. Tramite internet, si è messa in contatto con la poetessa angloamericana Anne Stevenson, iniziando una corrispondenza trasformatasi presto in amicizia. Ne è nata la prima edizione italiana di una selezione di poesie di Stevenson, pubblicata nel 2018 dall’editore Interno Poesia. Ha tradotto anche un libro inglese di racconti ispirati alla scienza, non ancora pubblicato. Dall’amore per il linguaggio poetico, e dalla profonda vicinanza con esso che il tradurre determina, è nato anche il desiderio di cimentarsi nella scrittura. E in alcuni casi di tradurre in inglese le sue stesse poesie. Non ha mai pubblicato nulla, ma ha accettato con piacere di affidare alcuni suoi versi a Margutte.-
Elsa Morante fin da giovanissima iniziò a scrivere racconti e poesie. Dopo aver completato gli studi, lasciò la famiglia, mantenendosi dando lezioni di greco e latino. I suoi primi racconti sono stati pubblicati su riviste come Il Corriere dei Piccoli, I diritti della scuola e Oggi, alcuni di essi pubblicati con lo pseudonimo di Antonio Carrera.
Da: Alibi -Longanesi, 1958- Da: Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi-Einaudi, 1968-
Da: Alibi -Longanesi, 1958-
ALIBI
Solo chi ama conosce. Povero chi non ama! Come a sguardi inconsacrati le ostie sante, comuni e spoglie sono per lui le mille vite. Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori e gli si apre la casa dei due misteri: il mistero doloroso e il mistero gaudioso.
Io t’amo. Beato l’istante che mi sono innamorata di te.
Qual è il tuo nome? Simile al firmamento esso muta con l’ora. Sei tu Giulietta? o sei Teodora? ti chiami Artù? o Niso ti chiami? Il nome a te serve solo per giocare, come una bautta. Vorrei chiamarti: Fedele; ma non ti somiglia.
La tua grazia tramuta in un vanto lo scandalo che ti cinge. Tu sei l’ape e sei la rosa. Tu sei la sorte che fa i colori alle ali e i riccioli ai capelli. La tua riverenza è graziosa come l’arcobaleno.
Sono i tuoi giorni un prato lucente dove t’incontri con gli angeli fraterni: il santo, adulto Chirone, l’innocente Sileno, e i fanciulli dai piedi di capra, e le fanciulle-delfino dalle fredde armature. La sera, alla tua povera cameretta ritorni e miri il tuo destino tramato di figure, l’oscuro compagno dormiente dal corpo tatuato.
Tu eri il paggio favorito alla corte d’Oriente, tu eri l’astro gemello figlio di Leda, eri il più bel marinaio sulla nave fenicia, eri Alessandro il glorioso nella sua tenda regale. Tu eri l’incarcerato a cui si fan servi gli sbirri. Eri il compagno prode, la grazia del campo, su cui piange come una madre il nemico che gli chiude gli occhi. Tu eri la dogaressa che scioglie al sole i capelli purpurei, sull’alto terrazzo, fra duomi e stendardi. Eri la prima ballerina del lago dei cigni, eri Briseide, la schiava dal volto di rose. Tu eri la santa che cantava, nascosta nel coro, con una dolce voce di contralto. Eri la principessa cinese dal piede infantile: il Figlio del Cielo la vide, e s’innamorò.
Come un diamante è il tuo palazzo che in ogni stanza ha un tesoro e tutte le finestre accese. La tua dimora è un’arnia fatata: narcisi lontani ti mandano i loro mieli. Per le tue feste, da lontani evi giungono luci, come al firmamento. Ma tu in esilio vai, solo e scontento. Il mio ragazzo non ha casa né paese.
Elsa Morante
La bella trama, adorata dal mio cuore, a te è una gabbia amara. E in tua salvezza non verrà mai la sposa regina del labirinto. Per il sapore strano del bene e del male la tua bocca è troppo scontrosa. Tu sei la fiaba estrema. O fiore di giacinto cento corimbi d’un unico solitario fiore!
La folla aureovestita del tuo bel gioco di specchi a te è deserto e impostura. Ma dove vai? che mai cerchi? invano, gatta-fanciulla, il passaggio d’Edipo sul tuo cammino aspetti. O favolosa domanda, al tuo delirio non v’è risposta umana. Riposa un poco vicino a chi t’ama angelo mio.
Quando mi sei vicino, non più che un fanciullo m’appari. Le mie braccia rinchiuse bastano a farti nido e per dormire un lettuccio ti basta. Ma quando sei lontano, immane per me diventi. Il tuo corpo è grande come l’Asia, il tuo respiro è grande come le maree. Sperdi i miei neri futili giorni come l’uragano la sabbia nera. Corro gridando i tuoi diversi nomi lungo il sordo golfo della morte.
Riposa un poco vicino a chi t’ama.
Lascia ch’io ti riguardi. La mia stanza percorri spavaldo come un galante che passa in una strage di cuori. Allo specchio ti miri i lunghi cigli ridi come un fantino volato al traguardo. O figlio mio diletto, rosa notturna! Povero come il gatto dei vicoli napoletani come il mendico e il povero borsaiolo, e in eleganza sorpassi duchi e sovrani risplendi come gemma di miniera cambi diadema ogni sera ti vesti d’oro come gli autunni.
Elsa Morante
Passa la cacciatrice lunare coi suoi bianchi alani…
Dormi. La notte che all’infanzia ci riporta e come belva difende i suoi diletti dalle offese del giorno, distende su noi la sua tenda istoriata. I tuoi colori, o fanciullesco mattino, tu ripiegasti. Nella funerea dimora, anche di te mi scordo.
Il tuo cuore che batte è tutto il tempo. Tu sei la notte nera.
Il tuo corpo materno è il mio riposo.
(1955)
Elsa Morante
MINNA LA SIAMESE
Ho una bestiola, una gatta: il suo nome è Minna.
Ciò ch’io le metto nel piatto, essa mangia, e ciò che lemetto nella scodella, beve.
Sulle ginocchia mi viene, mi guarda, e poi dorme, tale che mi dimentico d’averla. Ma se poi, memore, a nome la chiamo, nel sonno un orecchio le trema: ombrato dal suo nome è il suo sonno.
Se penso a quanto di secoli e cose noi due livide, spaùro. Per me spaùro: ch’essa di ciò nulla sa. Ma se la vedo con un filo scherzare, se miro l’iridi sue celesti, l’allegria mi riprende.
I giorni di festa, che gli uomini tutti fan festa, di lei pietà mi viene, che non distingue i giorni. Perché celebri anch’essa, a pranzo le do un pesciolino; né la causa essa intende: pur beata lo mangia.
Il cielo, per armarla, unghie le ha dato, e denti: ma lei, tanto è gentile, sol per gioco li adopra. Pietà mi viene al pensiero che, se pur la uccidessi, processo io non ne avrei, né inferno, né prigione.
Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io m’illudo, ma so che un’altra padrona, o me, per lei fa uguale. Mi segue, sì da illudermi che tutto io sia per lei, ma so che la mia morte non potrebbe sfiorarla…
(1941)
Elsa Morante
AMULETO
Quando tu passi, e mi chiami, assente son io. Per lunghe ore ti aspetto, e tu, distratto, voli altrove. Ma tanto, il mezzano serafico del nostro amore, il sultano dello zenit che muove sul quadrante le sfere con le dita infingarde e sante, ha già segnato l’istante del nostro convegno. Molli si volgono i miei giorni a quella imperiosa stagione. Candida e glaciale essa risplende alta salendo, come fuoco. Ah, nostra incantevole stanza! Che importa a me, infido spirito, dei tuoi diversi pensieri? Il presagio inchina già la fronte all’annuncio. Sorte e amore ti congiungono a me.
(1945)
LETTERA
Tutto quel che t’appartiene, o che da te proviene, è ricco d’una grazia favolosa: perfino i tuoi amanti, perfino le mie lagrime. L’invidia mia riveste d’incanti straordinari i miei rivali: essi vanno per vie negate ai mortali, hanno cuore sapiente, cortesia d’angeli. E le lagrime che mi fai piangere sono il mio bel diadema, se l’amara mia stagione s’adorna del tuo sorriso.
Stupisco se ripenso che avevo tanti desideri e tanti voti da non sapere quale scegliere. Ormai, se cade una stella a mezzo agosto, se nel tramonto marino balena il raggio verde, se a cena ho una primizia nella stagione nuova, o m’inchino alla santa campana dell’Elevazione, non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome, o parola che m’apri la porta del paradiso.
Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu, le antiche leggi del mondo son tutte rovesciate: l’orgoglio si compiace d’umiliarsi a te, la vanità si nasconde davanti alla tua gloria, la voglia si tramuta in timido pudore, la mia sconfitta esulta della tua vittoria, la ricchezza è beata di farsi, per te, povera, e peccato e perdono, ansia e riposo, sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia.
Ma la frase celeste, che la mia mente ascolta, io ridirti non so, non c’è nota o parola. Ti dirò: tu sei tutto il mio bene, ad ogni ora questa grazia di amarti m’è dolce compagnia. Potesse il mio affetto consolarti come mi consola, o tu che sei la sola confidenza mia!
Elsa Morante
(1946)
CANTO PER IL GATTO ALVARO
Tra le mie braccia è il tuo nido, o pigro, o focoso genio, o lucente, o mio futile! Mezzogiorni e tenebre son tue magioni, e ti trasformi di colomba in gufo, e dalle tombe voli alle regioni dei fumi. Quando ogni luce è spenta, accendi al nero le tue pupille, o doppiero del mio dormiveglia, e s’incrina la tregua solenne, ardono effimere mille torce, tigri infantili s’inseguono nei dolci deliri. Poi riposi le fatue lampade che saranno al mattino il vanto del mio davanzale, il fior gemello occhibello. E t’ero uguale! Uguale! Ricordi, tu, arrogante mestizia? Di foglie tetro e sfolgorante, un giardino abitammo insieme, tra il popolo barbaro del Paradiso. Fu per me l’esilio, ma la camera tua là rimane, e nella mia terrestre fugace passi giocante pellegrino. Perché mi concedi il tuo favore, o selvaggio? Mentre i tuoi pari, gli animali celesti gustan le folli indolenze, le antelucane feste di guerre e cacce senza cuori, perché tu qui con me? Perenne, tu, libero, ingenuo, e io tre cose ho in sorte: prigione peccato e morte. Tra lune e soli, tra lucenti spini, erbe e chimere saltano le immortali giovani fiere, i galanti fratelli dai bei nomi: Ricciuto, Atropo, Viola, Fior di Passione, Palomba, nel fastoso uragano del primo giorno… E tu? Per amor mio?
AVVENTURA
per Luchino Visconti
Hai tu un cuore? La leggenda vuole che tu non l’abbia. Al vedermi, che per te mi consumo d’amore, tutti mi dicono: «Ah, pazza, mangiata dalle streghe, rosa dalle fole, soldato d’imprese disperate, marinaio senza veli né remi, dove t’avventuri? in quali deserti di sabbia, dietro Morgane, e fuochi fatui, e larve canzonatrici tu vuoi spegnere la tua sete nella solitaria morte! Ah, chi ti gettò questa rete, povero pesciolino?» Così dice la gente; ma lasciamo che dica! A chi di te mi sparla, nemica io mi giurai. Per te, mio santo capriccio, volto divino, senz’armi e senza bussola sono partita. Non v’è riposo alla speranza mai. A difficili amori io nacqui. Come una rosa in un giardino d’Africa o d’Asia assai lontano, come una bandiera alzata in cima a una nave pirata, come uno scudo d’argento appeso in un barbaro tempio, difficile splende il tuo cuore il tuo frivolo, indolente cuore, l’eroico, femmineo tuo cuore. il tuo regale, intatto cuore, il cuore dell’amore mio. Io credo nel tuo cuore! Le caverne terrestri son tutte una gioielleria. Funerea primavera per le mie feste vanesie, l’ametista viola e l’agata lunare e i diamanti simili a rose cangianti e il topazio vetrino, il topazio d’oro. Hanno i cristalli aloni e code di fuoco, mille comete e lune per la mia notte. M’offron conchiglie i golfi, e giochi oceanici, e il cielo boreale riposi e meditazioni. Dolcezze ha l’aranceto, come salive d’amore, e l’Asia graziose belve, mie tenere schiave. Le Maestà dei re conversazioni m’accordano, e al mio comando s’accendono circhi e teatri. Ma alla conquista io partii d’un frutto aspro. Il tuo cuore: altro frutto non voglio mordere. Non voglio i doni terrestri, al mio potere mi nego. Il solo mio volere è questa impresa! Alla conquista d’un frutto amaro andai. Le cose amare sono le più care. Segreta, lo so, è la stanza del prezioso cuore ch’io cerco. Lungo e incerto il viaggio fino al nido di questa civetta-fenice. Inesperta son io, compagno né guida non ho, ma giungerò alla camera felice del mio bell’idolo. Addio, dunque, parenti, amici, addio! Prima bisogna guadare il lago stagnante della paura, e i Grandi Orgogli oltrepassare, fastosa catena di rupi. Snidare bisogna l’invidia che s’imbosca e i mostri di gelosia mettere in fuga, (ah, San Michele e San Giorgio, datemi il vostro scudo!) per notti occhiute, selve purpuree, dove incontrare potrò centauri e ippogrifi, e bere il magico sangue dei narcisi. Si levan poi le triplici mura di Sodoma intorno a campo straniero dalle sette torri merlate. Incantare dovrò i guardiani, riscattare le spose comprate, e a lungo errerò per corti e fughe di scale, fra un popolo d’echi e d’inganni fino alla cara porta, che reca la scritta crudele: Indietro, o pellegrina. Non riceve. Ah, fossi alato usignolo, foss’io centaura, ah, sirena foss’io, foss’io Medoro o Niso, che forse a te più amico sarebbe il nome mio, grazioso cuore! Invece, Lisa è il mio nome, nacque nell’ora amara del meriggio, nel segno del Leone, un giorno di festa cristiana. Fui semplice ragazza, madrina a me fu una gatta, e alla conquista partii d’un dolce cuore. Or che mi presentai, siimi cortese, o amore. Di che temi, o selvatico? d’esser preso al laccio? Ah, no, dell’amara pampa la figlia io non sono. D’esser trafitto? Io non ho coltello, né pungiglione. Né son io sbirra, per gettarti in carcere, né fata, per averti compagno notte e giorno, mutato in corvo, dentro gabbietta d’oro. Ah, dall’impresa non giudicarmi eroe! Leggera è la mia mente più del fuoco, più che un riccio dei tuoi fulvi capelli. Per la mia pena, per il tuo vinto amore, con te soltanto un poco giocare io voglio come una foglia scherza con l’ombra e il sole, o una ragazza col suo gatto rosso. E poi ti dirò addio. Tu dirai: Lisa! supplicherai: Lisa! Ah, Lisa! Lisa! chiamerai. Ma io ti dirò addio.
Elsa Morante
Da: Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi (Einaudi, 1968)
ADDIO
Dal luogo illune del tuo silenzio mi riscuote ogni giorno l’urlo del mattino. O notte celeste senza resurrezione perdonami se torno ancora a queste voci. Io premo l’orecchio sulla terra a un’eco assurda dei battiti sepolti. Dietro la belva in fuga irraggiungibile mi butto sulla traccia del sangue. Voglio salvarti dalla strage che ti ruba e riportarti nel tuo lettuccio a dormire. Ma tu vergognoso delle tue ferite mascheri i cammini della tua tana. Io fingo e rido in un ballo disperato per distrarti dall’orrenda mestizia ma i tuoi occhi scolorati di sotto le palpebre non ammiccano più ai miei trucchi d’amore. Alla ricerca dei tuoi colori del tuo sorriso io corro le città lungo una pista confusa. Ogni ragazzo che passa è una morgana. Io credo di riconoscerti, per un momento. E mendicando rincorro lo sventolio di un ciufietto o una maglietta rossa che scantona… Ma tu rintanato nel tuo freddo nascondiglio disprezzi la mia commedia miserabile. Buffone inutile io deliro per le vie dove ogni fiato vivente ti rinnega. Poi, la sera, rovescio sulla soglia deserta un carniere di piume insanguinate. E chiedo una tenerezza al buio della stanza, almeno una decadenza della memoria, la senilità, l’equivoco del tempo volgare che medica ogni dolore… Ma la tua morte cresce ogni giorno. E in questa piena che monta io vado e mi riavvento in corsa dirotta, per un segno, un punto nella tua direzione. O nido irraggiungibile e caro, non c’è passo terrestre che mi porti a te. Forse fuori dai giorni e dai luoghi? La tua morte è una voce di sirena. Forse attraverso una perdizione? o vna grazia? o in quale veleno? in quale droga? forse nella ragione? forse nel sonno? La tua morte è una voce di sirena. Voglia di un sonno che pare una tua dolcezza ma è stata già l’impostura dove ti ho perso! La tua morte è una voce di sirena che vorebbe sviarmi da te nelle sue fosse. Forse, io devo accettare tutte le norme del campo: ogni degradazione, ogni pazienza. Non posso scavalcare questa rete spinata mentre al tuo grido innocente non c’è risposta. La tua morte è una luce accecante nella notte, è una risata oscena nel cielo del mattino. Io sono condannata al tempo e ai luoghi finché lo scandalo si consumi su di me. Io devo, qui, trescare e patteggiare con la belva per rubarle il segreto del mio tesoro. O pudore d’una infanzia uccisa, perdonami questa indecenza di sopravvivere. Tu sei partito credendo di giocare alla fuga. Era per fare il bravo, la tua smorfia d’addio. Al solito! Che poi ti bandisci nella tua stanzuccia minaccioso dietro le porte sbarrate come un gran capitano nel suo forte supremo. Guai per l’audace che si arrischi all’assedio! Ma ti conosco. Che invece se nessuno si arrischia ti strazi, e piangi nella tua rabbia infantile perché non c’è amore al mondo e ti lasciano solo. Ma stavolta, la tua porta fu sbattuta dagli uragani. Le piogge entrarono nel vano abbandonato e una fanghiglia come sangue ha imbrattato i muri. Quando eri vivo, la tua stanza era la stella del quartiere, ricercata da tutti. E adesso tutti ne rifuggono, come fosse appestata. Il mio piede incíampa nella tua camiciola che nessuno ha più raccolto da terra. Sul terrazzo devastato dagli inverni, le piante sono morte. Perfino i ladri hanno schifato questo tuo feudo estremo dove infatti c’era poco di valore, da rubare! Ritagliàti dalle riviste, i ritratti dei tuoi eroi adornano ancora le pareti: Gautarna il Sublime, il barbuto Fidel, Billie Holiday la suicida. In un angolo, c’è ancora la scodella della tua gatta. Una cravattina rossa pende nell’armadio. Alla partenza, ti caricasti dei tuoi beni principali: il canestro con la gatta e il fonografo a valigia. «Il resto dei bagagli, speditelo per via mare». Trecento volte quella nave ha ripercorso quel mare e i tuoi tesori sono dispersi, e io sono qui, vivente. Anche se vivo tremila anni, e se corro tutti i mari, non posso più raggiungerti per riportarti indietro. Lo so che tu credevi di giocare all’addio. Era una braveria, la tua smorfia… Ma contro una scommessa impaziente di ragazzo è un’altra lunga agonia la posta che qui si chiede. La ladra delle notti è una cammella cieca e folle che gira per Sahara incantati, fuori d’ogni pista. L’itinerario è lunatico, non c’è destinazione. Le sabbie disfanno le tracce dei suoi furti. Le sue pupille bianche fanno crescere miraggi dai corpi lacerati che lei semina per le sabbie. E i miraggi si spostano a distanze moltiplicate irraggiungibili nei loro campi solitari. Amputati dai corpi, si disperdono separati senza rimedio, eterne mutilazioni. Nessun miraggio può incontrare un altro miraggio. Non ci sono che solitudini, dopo il furto dei corpi.
…
Elsa Morante
A P. P. P.
In nessun posto
E così, tu – come si dice – hai tagliato la corda. In realtà, tu eri – come si dice – un disadattato e alla fine te ne sei persuaso anche se da sempre lo eri stato: Un disadattato. I vecchi ti compativano dietro le spalle pure se ti chiedevano la firma per i loro proclami e i “giovani” ti sputavano in faccia perché fascisti come i loro baffi: (già, tu glielo avevi detto, però avevi sbagliato in un punto: questi sono più fascisti dei loro baffi) ti sputavano in faccia, ma ovviamente anche loro ti chiedevano la propaganda per i loro volantini e i soldi per le loro squadrette.
E tu non ti negavi, sempre ti davi e ti davi E loro pigliavano e poi: “lui dà” – bisbigliavano nei loro pettegolezzi – “per amore di se stesso”. Viva, viva chi ama se stesso e gli altri ama come se stesso. Loro odiano gli altri come se stessi e in tale giustizia magari si credono di fondare una rivoluzione. Loro ti rinfacciavano la tua diversità dicendo con questo: l’omosessualità. Difatti, loro usano il corpo delle femmine come gli pare. Liberi di usarlo come gli pare. Il corpo delle femmine è carne d’uso ma il corpo dei maschi esige rispetto. E come no!
Questa è la loro morale. Se una femminella di strada avesse assassinato uno dei loro non la giustificherebbero perché immatura. Ma in verità in verità in verità quello per cui tu stesso ti credevi un diverso non era la tua vera diversità. La tua vera diversità era la poesia.
È quella l’ultima ragione del loro odio perché i poeti sono il sale della terra e loro vogliono la terra insipida. In realtà, LORO sono contro-natura. E tu sei natura: Poesia cioè natura. E così, tu adesso hai tagliato la corda. Non ti curi più dei giornali– [la] preghiera del mattino – con le crisi di governo e i cali della lira, e decretoni e decretini e leggi e leggione. Io spero che un’ultima sola grazia terrena ti resti ancora – per poco – ossia ridere e sorridere. Che tu di là dove sei– ma per poco ancora – di là, dal Nessun Posto dove ti trovi ora di passaggio – che tu sorrida e rida dei loro profitti e speculazioni e rendite accumulate e fughe dei capitali e tasse evase e delle loro carriere ecc. Che tu possa riderne e sorriderne per un attimo prima di tornartene al Paradiso.
Tu eri un povero E andavi sull’Alfa come ci vanno i poveri per farne sfoggio tra i tuoi compaesani: i poveri, nei tuoi begli abitucci da provinciale ultima moda come i bambini che ostentano di essere più ricchi degli altri per bisogno d’amore degli altri. Tu in realtà questo bramavi: di essere uguale agli altri, e invece non lo eri. DIVERSO, ma perché?
Perché eri un poeta. E questo loro non ti perdonano: d’essere un poeta. Ma tu ridi[ne]. Lasciagli i loro giornali e mezzi di massa e vattene con le tue poesie solitarie al Paradiso. Offri il tuo libro di poesie al guardiano del Paradiso e vedi come s’apre davanti a te la porta d’oro Pier Paolo, amico mio.
(1976)
Breve Biografia di ELSA MORANTE
Elsa Morante
ELSA MORANTE – nata a Roma il 18 agosto del 1912 – morì a Roma il 25 novembre 1985– la maggiore di quattro figli, figlia di Francesco Lo Monaco e Irma Poggibonsi. Elsa è cresciuta credendo che il secondo marito di sua madre, Augusto Morante, fosse suo padre. Nel 1922 a famiglia si trasferì a Monteverde Nuovo dove Elsa Morante fin da giovanissima iniziò a scrivere racconti e poesie. Dopo aver completato gli studi, lasciò la famiglia, mantenendosi dando lezioni di greco e latino. I suoi primi racconti sono stati pubblicati su riviste come Il Corriere dei Piccoli, I diritti della scuola e Oggi, alcuni di essi pubblicati con lo pseudonimo di Antonio Carrera.Grazie al pittore Capogrossi, nel 1936 conosce Alberto Moravia il grande scrittore romano, autore tra gli altri de Gli indifferenti e La noia. Il matrimonio della Morante con Alberto Moravia, oppositore del governo fascista di Mussolini, la mise in contatto con i maggiori scrittori e intellettuali italiani dell’epoca, tra cui Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini. Le sue raccolte di poesia sono Alibi (Longanesi 1958, Garzanti 1988, Einaudi 2004) e Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi (Einaudi, 1968, 2006, 2012). I suoi romanzi: Menzogna e sortilegio (1948), L’isola di Arturo (1957), La storia (1974), Aracoeli (1982). Numerosi i racconti e gli scritti vari, saggi e interventi. È uno dei maggiori narratori italiani. Menzogna e sortilegio viene pubblicato nel 1948 vincendo il premio Viareggio, con L’Isola di Arturo Elsa Morante divenne la prima donna a vincere il Premio Strega.
Ingeborg Bachmann-(Klagenfurt, 25 giugno 1926 – Roma, 17 ottobre 1973)-Poetessa, scrittrice e giornalista austriaca.
TUTTI I GIORNI
*
La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. L’inaudito
è divenuto quotidiano. L’eroe
resta lontano dai combattimenti. Il debole
è trasferito nelle zone del fuoco.
La divisa di oggi è la pazienza,
medaglia la misera stella
della speranza, appuntata sul cuore.
Viene conferita
quando non accade più nulla,
quando il fuoco tambureggiante ammutolisce,
quando il nemico è divenuto invisibile
e l’ombra d’eterno riarmo
ricopre il cielo.
Viene conferita
per diserzione dalle bandiere,
per il valore di fronte all’amico,
per il tradimento di segreti obbrobriosi
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.
Ingeborg Bachmann
Cenni biografici di Ingeborg Bachmann-(Klagenfurt, 25 giugno 1926 – Roma, 17 ottobre 1973)-Poetessa, scrittrice e giornalista austriaca. I motivi ideologici della sua formazione intellettuale (Martin Heidegger, Ludwig Wittgenstein) si incontrarono con il tema della generazione venuta dopo gli orrori della guerra nella dimensione di un linguaggio spesso tormentato e astruso, ma sempre autentico.
Figlia[1] di Olga Haas e Mathias Bachmann, Ingeborg nacque nel 1926 in Carinzia, nel cui capoluogo, Klagenfurt, trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Dopo i primi studi, negli anni del dopoguerra frequentò le università di Innsbruck, Graz e Vienna dedicandosi agli studi di giurisprudenza e successivamente in germanistica, che concluse discutendo una tesi su (o meglio, contro) Martin Heidegger, dal titolo La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger.
Suo maestro fu il filosofo e teoretico della scienza Victor Kraft[2] (1890–1975), ultimo superstite del Circolo di Vienna, da cui i membri, in conseguenza dell’assassinio di uno di loro (Moritz Schlick) da parte di un fanatico nazista e dell’ostilità in seguito dimostrata dal regime politico post Anschluss, erano dovuti fuggire. Nell’epoca dello studio ebbe modo di intrattenere contatti diretti con Paul Celan, Ilse Aichinger e Klaus Demus.[3]
Presto Bachmann divenne redattrice radiofonica[4] presso l’emittente viennese Rot-Weiss-Rot (Rosso-Bianco-Rosso), per la quale compose nel 1952 la sua prima opera radiofonica, Un negozio di sogni. Il suo debutto letterario avvenne in occasione di una lettura presso il Gruppo 47. Da allora divenne una stella luminosa della letteratura in lingua tedesca[5]. Nel 1953, all’età di 27 anni, ricevette il premio letterario del Gruppo 47[6] per la raccolta di poesieIl tempo dilazionato.
In collaborazione con il compositore Hans Werner Henze produsse il radiodrammaLe cicale e il libretto per la pantomima danzata L’idiota nel 1955 e il libretto per l’opera Il Principe di Homburg nel 1960. Nel 1956 pubblicò la raccolta di poesie Invocazione all’Orsa maggiore, conseguendo il Premio Letterario della Città di Brema (Bremer Literaturpreis) e iniziando un percorso di drammaturgia per la televisione bavarese.
Dal 1958 al 1963 Ingeborg Bachmann intrattenne una relazione con l’autore Max Frisch. Nel 1958 apparve il radiodramma Il buon Dio di Manhattan, insignito l’anno successivo del Premio Audio dei Ciechi di Guerra[7]. Del 1961 è la raccolta di raccontiIl trentesimo anno, a sua volta insignito dal Premio per la Critica della Città di Berlino. Nel 1964 le viene consegnato il Premio Georg Büchner[8] e nel 1968 il Premio nazionale austriaco per la Letteratura[9].
La produzione[5] di Ingeborg Bachmann prosegue con la pubblicazione nel 1971 del romanzo Malina, diventato un film di Werner Schroeter del 1991, interpretato da Isabelle Huppert, Mathieu Carrière e Can Togay. Il romanzo è stato concepito come la prima parte di una trilogia chiamata “Cause di morte” (Todesarten) rimasta incompiuta e di cui rimangono dei frammenti: Il libro Franza e Il libro Goldmann. Dal primo dei due frammenti, Xaver Schwarzenberger ha ricavato il film Franza (1986). Nel 1972 fu invece data alle stampe l’ultima opera prima della morte di Bachmann: la raccolta di racconti Tre sentieri per il lago[10], a cui venne attribuito il Premio Anton Wildgans[11].
Morte
La sera del 26 settembre 1973, nella sua casa romana di via Giulia, Ingeborg Bachmann incendiò accidentalmente la sua vestaglia di nylon con la brace della propria sigaretta durante un attacco di torpore, verosimilmente indotto dai barbiturici che stava assumendo come tranquillanti per superare un periodo di stress da superlavoro[12]. Benché vigile al momento del trasporto all’ospedale Sant’Eugenio, struttura specializzata nel trattamento delle ustioni, subì danni renali cui fece seguito un’intossicazione ematica che la portarono alla morte il 17 ottobre[13]. Ingeborg Bachmann fu sepolta il 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. A lei è dedicato il concorso letterario che annualmente si tiene nella città natale, in coincidenza della sua nascita, e l’istituto d’istruzione superiore di Tarvisio in Friuli Venezia Giulia.
Opere
Poesie
Invocazione all’Orsa Maggiore (Anrufung des Großen Bären), trad. e cura di Luigi Reitani, Milano, SE, 1994; Nota di Hans Höller, Collana Biblioteca n.752, Milano, Adelphi, 2023, ISBN 978-88-459-3828-3.
Poesie (Gedichte), traduzione di Maria Teresa Mandalari, Parma, Guanda, 1978.
Non conosco mondo migliore (Ich weiss keine bessere Welt), traduzione di Silvia Bortoli, Milano, Guanda, 2004.
Romanzi
Malina (Malina), traduzione di Maria Grazia Manucci, Milano, Adelphi, 1973.
Il libro Franza (Der Fall Franza), traduzione di Magda Olivetti e Luigi Reitani, Milano, Adelphi, 2009. [Comprende e amplia Il caso Franza. Requiem per Fanny Goldmann, traduzione di Magda Olivetti, Milano, Adelphi, 1988]
Racconti
Tre sentieri per il lago e altri racconti (Simultan: neue Erzählungen), traduzione di Amina Pandolfi, Milano, Adelphi, 1980.
Il trentesimo anno (Das dreißigste Jahr), traduzione di Clara Schlick, Milano, Feltrinelli, 1963; traduzione di Magda Olivetti, Milano, Adelphi, 1985.
Il sorriso della sfinge (Die Fähre, Im Himmel und auf Erden, Das Lächeln der Sphinx), traduzione di Antonella Gargano, Roma, Lucarini, 1991; Napoli, Cronopio, 2011.
Saggi
Luogo eventuale (Ein Ort für Zufälle), con tredici disegni di Günter Grass, traduzione di Bruna Bianchi, Milano, Edizioni delle donne, 1981; Milano, SE, 1992.
La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger (Die kritische Aufnahme der Existenzialphilosophie Martin Heideggers), Introduzione di Eugenio Mazzarella, traduzione di Silvia Cresti, Napoli, Guida, 1992.
Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte (Frankfurter Vorlesungen), traduzione di Vanda Perretta, Milano, Adelphi, 1993.
Il dicibile e l’indicibile. Saggi radiofonici (Der Mann ohne Eigenschaften – Sagbares und Unsagbares – Das Unglück und die Gottesliebe – Die Welt Marcel Prousts), traduzione di Barbara Agnese, Milano, Adelphi, 1998.
Prose
Il buon Dio di Manhattan (Der gute Gott von Manhattan: ein Geschäft mit Träumen), traduzione di Sergio Molinari, Milano, Il saggiatore, 1961; traduzione di Cinzia Romani, Milano, Adelphi, 1991. [contiene i radiodrammi Il buon Dio di Manhattan, Un negozio di sogni e Le cicale]
Libro del deserto (Der Tod wird kommen. Confluito ne Il libro Franza), traduzione di Anna Pensa, Napoli, Cronopio, 1999.
Quel che ho visto e udito a Roma (Was ich in Rom sah und hörte), traduzione di Kristina Pietra e Anita Raja, Macerata, Quodlibet, 2002.
Epistolari
Lettere da un’amicizia (Briefe einer Freundschaft), carteggio con Hans Werner Henze, a cura di Hans Höller, traduzione di Francesco Maione, Torino, EDT, 2008.
Lettere a Felician (Briefe an Felician), traduzione di Antonella Moscati, Roma, Nottetempo, 2008.
Troviamo le parole. Lettere 1948-1973 (Herzzeit. Der Briefwechsel), carteggio con Paul Celan, traduzione di Francesco Maione, Roma, Nottetempo, 2010 .
Diario di guerra (Kriegstagebuch. Mit Briefen von Jack Hamesh an Ingeborg Bachmann), traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia, Milano, Adelphi, 2011.
Interviste
In cerca di frasi vere (Wir müssen wahre Sätze finden), traduzione di Cinzia Romani, Bari, Laterza, 1989.
Verrà un giorno. Conversazioni romane (Ein Tag wird kommen. Gespräche in Rom), a cura di Judith Kasper, Genova, Marietti, 2009.
Film su Ingeborg Bachmann
Die Geträumten – film tedesco del 2016 diretto da Ruth Beckermann, avente per soggetto la ventennale corrispondenza fra Paul Celan e Ingeborg Bachmann[14].[15]
Ingeborg Bachmann – Journey Into the Desert (Ingeborg Bachmann – Reise in die Wüste) – film tedesco del 2023 diretto da Margarethe von Trotta, avente per soggetto la vita di Ingeborg Bachmann – che visse a Berlino, Zurigo e Roma – il suo rapporto con Max Frisch e il suo viaggio in Egitto[16]
Basilio Reale è nato a Capo d’Orlando il 22 novembre 1934-È morto a Milano il 6 febbraio 2011.
Nel 1953 si trasferisce a Milano per frequentarvi la facoltà di giurisprudenza. I suoi primi componimenti, risalgono al ’50.
Novembre
Ed è dunque tornato ancora il tempo di ritrovare le cose perdute di risentire con le fitte a un braccio il tuo umore, Novembre. Dalla mia terra bruciata di sale ho risalito tutte le contrade qui ho chiesto nebbia e pane. So cosa dite, so le querele che mi fate, amici. Voi non sapete cosa voglia dire nascere a Novembre; voi non sapete cosa voglia dire riconquistare le cose perdute.
Le due rive
Attorno ai globi rossi sulle due rive era ogni sera uno sciamare astioso di zanzare che saliva dagli argini e ronzava sopra le nostre teste.
Così cresceva il segno dell’estate, il rifiorire d’erbe e canne sul fiume la mia ansia d’intendere il fluttuare delle maree ad ogni nuova luna.
Basilio Reale
Rifugio della notte
Su questi alberi, queste siepi sempreverdi di pitosfori si è allungato il tuo oblio, e il mare tigrato là davanti è specchio fangoso, obliquo rifugio della notte.
In teoria tutto dovrebbe
In teoria tutto dovrebbe andare benissimo.
Egli è seduto a un tavolo. Sta scrivendo un libro, sta leggendo il giornale, sta guardando fuori dalla finestra.
Egli è seduto al tavolo, sta facendo parole incrociate. Una parola due parole molte parole difficili.
Quanto di me è rimasto
Quanto di me è rimasto – di quel poco che ero, di ciò che avevo – ha solo senso nel tuo ricordo, nascosto nel cuore del mio cuore, che pace per sé non chiede al Dio in cui hai creduto fino all’ultimo istante, quando dicevi, gli occhi a me rivolti: “Non ho paura, non ho più paura.”
L’AUTORE
Basilio Reale
Basilio Reale è nato a Capo d’Orlando il 22 novembre 1934-È morto a Milano il 6 febbraio 2011.
Nel 1953 si trasferisce a Milano per frequentarvi la facoltà di giurisprudenza. I suoi primi componimenti, risalgono al ’50.
Ha pubblicato: Forse il mare, Schwarz Editore, Milano 1956. Le quotidiane abitudini, Rebellato Editore, Padova 1959. La vita attiva, “Il Menabò” n. 6, Einaudi, Torino 1963. I ricambi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1968. L’esistenza amorosa, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1989. Travasare il miele, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1996. La balena dighiaccio, Nino Aragno Editore, Torino 2000. Da un ricordo di Daniele. Pulcinoelefante, Ed.788 Osnago 1994. Dove è verde l’ombra. Poesie inedite e sparse (1956-2000), L’arcolaio, Forlimpopoli 2019. Ha pubblicato anche diverse pubblicazioni di saggi.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Roberto CESCON-La poesia dov’è- Cinque poesie inedite-Rivista «Nuovi Argomenti»
Roberto Cescon le sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste tra cui «Nuovi argomenti», «Atelier» ecc. È tra i curatori della«Festa di poesia» di Pordenone e collabora all’organizzazione dei festival letterari «Pordenonelegge» e «notturnidiversi».
LA POESIA DOV’È
D’improvviso mi ha chiamato per sentire
la mia voce farsi avanti nello schermo
che ogni volta non so cosa mi aspetta
in questo spiccare bianco sempre prossimo a venire.
Ero proteso tutto in quel silenzio
finché la monetina di un messaggio
mi ha ricordato Pietro, la terapia di oggi,
e la ruspa dalla strada e le voci di operai
sono entrate nel silenzio della mia.
Allora sono uscito dalla stanza
per la lavatrice e prima un sorso d’acqua.
Mentre stendevo, è venuto il verbo
per il primo verso, che ho scritto di ritorno.
Poi lo sguardo si è posato sulla libreria,
un altro libro mi ha chiamato, di un amico, le poesie,
un brindisi a un comune altrove
con gli amici che non ci sono più.
L’ho sfogliato lasciando ancora entrare
la sua voce che conosco e ho pensato di cambiare
un connettivo, giusto per il limite di undici,
chissà perché poi la paura di varcare
quelle colonne d’Ercole, cosa mai potrà succedere?
Ho pensato ai miei amici lontani
e all’ultima volta, tutti insieme a cena
con le vite distanti e lo stare bene
nel ricordo della prossima.
Ho cancellato due versi, nessuno li vedrà
e tra poco anch’io li scorderò
o forse torneranno a ruminare
finché non troverò il modo di trovarli.
Per quanto sono state mie quelle parole?
E in quale gesto torneranno?
Adesso dovrei mettermi un maglione,
fa più freddo ma il mio corpo
è come non volesse rassegnarsi
al finire dell’estate. Resisto
davanti allo schermo, un altro verso,
una frase girata, la sposto giù
e dal forno mi arriva il profumo del plumcake
e l’avviso di una mail. Resisto ancora
anche se all’inizio, giuro, volevo fare altro,
è da ieri che devo far la spesa,
ma la mente ora chiede un corpo,
si protende con le dita al tuo silenzio
e ti chiama mentre accadono cose,
ma davvero accadono fuori?
*
Libertà, ma davvero
provi a immaginarla
nelle moltitudini che chiedono
incompiute e originali, anche tu
un tempo l’hai creduto, ma quanto te ne serve
per uscire dall’eterno
della scena che rincorri nella mente?
Magari la confondi con il desiderio
ma l’altro, le parole che pronuncia
sono per un altro, che non è qui
e forse neanche esiste, e voi, a tratti
lo intuite, siete ignoti l’una all’altro.
Tu sei questo corpo che spicca dalla terra
quando senti il profumo
di un dolce dal forno per l’indomani
magari sotto un porticato, d’estate…
ma dove vuoi andare
che qualcuno ti tira sempre giù…
Potresti dire che tutto accade
nel tempo in cui viviamo, ma è lo spazio
delle tue parole che fa diventare tempo
lo spazio tuo e degli altri.
Vorresti l’altra luce
che intuisci dal contorno dei palazzi
ma fissi i panni stesi, un oleandro
sotto il cornicione e questo muoversi
di tutti e di ciascuno
nel continuo disfarsi degli eventi.
*
Mentre parlo risuona la mia voce
nel dubbio di sentirla non più mia.
Prova a spostarti, mi dici, sono i muri
ma inciampo ancora
tra quanto dico e quanto sento…
Dicevi che a questo taglio d’esistenza
vuoi solo il meglio da una relazione
senza scorie della vita a due,
eppure ci sei stata e ti piaceva.
Ti basta quella che hai
e poi perché fallire ancora?
A me fa male invece ammettere
di entrare in una vita predelusa…
Arrivati qui (mentre torna
l’altra voce sfasata, sono io
che parlo? E tu cosa senti?), un allarme
dal buio, come inizio
qualcosa che non può iniziare?
*
Da quale parte il canto di due uccelli
lassù, chissà se due, indistinguibili
per me che non so distinguerli
tra i rami radi prima della primavera
e quei suoni nei miei passi
che seguono un futuro che proviene
da altri passi, in un tempo
come ora che mi tocca e non si muove
e l’improvviso frusciare delle foglie
per una biscia o altro che non indovino
come quest’odore nella voce
affiorano i pensieri
non così diversi da quei rami
o dai cinghiali nel bosco
invisibili e presenti
così è scritto all’imbocco del sentiero
e la mia lingua viene da lì
e lì finisce, mai del tutto
in un flusso antichissimo che dai muscoli
proviene e ci fa stare
in questi corpi, nei possibili futuri.
*
Sono i piedi nell’acqua e l’onda nuova
arriva negli occhi e non finisce
quante parti di te
nella sabbia e nel mare antichissimo
che in un tempo vasto che non vedi
avresti visto spaccato da rocce
e poi rocce spagliate dai fiumi
sfarinare in questa sabbia
e segni a non finire
nell’aria di opere e intenzioni
si parlano da un prima che verrà
adesso, altrove
mentre il sole sposta l’ombra
attorno a te esseri antichissimi
partoriti da millenni, millenni di volte,
come tutte le altre volte sono qui
quante parti di te e di loro sono state il mare
adesso, nella luce
dove trovarti
fuori dagli occhi.
Breve biografia di Roberto Cescon
Roberto CESCON
Roberto Cescon è nato nel 1978 a Pordenone, dove vive e insegna.Ha pubblicato Vicinolontano (Campanotto 2000) e il saggio Il polittico della memoria (Pieraldo 2005). Suoi racconti sono apparsi nell’antologia Scontrini (Baldini&Castoldi 2004) e sulle riviste «Tina» e «ombelicale» – di cui è stato redattore. Il suo ultimo lavoro è La gravità della soglia (Samuele editore 2010). Sue poesie sono state pubblicate su diverse riviste tra cui «Nuovi argomenti», «Atelier» ecc. È tra i curatori della«Festa di poesia» di Pordenone e collabora all’organizzazione dei festival letterari «Pordenonelegge» e «notturnidiversi». È tra gli organizzatori del Premio Teglio Poesia e del Premio Castello di Villalta. Cura il blog «ipoetisonovivi.com».
Corrado Govoni esordì giovanissimo, già nel 1903, pubblicando a sue spese due raccolte di versi intitolati Le fiale e Armonie in grigio et in silenzio, presso la casa editrice Lumachi di Firenze, nelle quali prevalgono i toni crepuscolari. Dopo la pubblicazione de Le fiale, si dedicò soprattutto all’attività di scrittore collaborando alle riviste Poesia, Lacerba, e Riviera Ligure diretta da Mario Novaro.
Punta secca-
Sei magra e lunga
eppure hai tanta forza plastica
nel corpo gentile
che se abbandoni i gomiti sul pozzo
o contro il muro
del cortile
il bel corpo rovescio
serrati gli occhi
strette le labbra sciolti i ginocchi
con quell’uncino di riccio
nel mezzo della fronte e ad un capriccio
improvviso ti distacchi
t’impenni e via saetti come da fionda
su quegli alti tuoi tacchi
di stella che nel sole
quasi non ti si vede
più tanto sei bionda;
si può giurar per certo
che tu con quel tuo premer duro
un incavo hai aperto
nel docile marmo e nel muro.
Attacchi d’ali strappate
ti palpitan le reni;
così sottile e senza seni
li hai tutti nei ginocchi.
Ma l’orchidea tu l’hai negli occhi.
Paesi-
Esplodon le simpatiche campane
d’un bianco campanile, sopra tetti
grigi: donne, con rossi fazzoletti,
cavano da un rotondo forno il pane.
Ammazzano un maiale nella neve,
tra un gruppo di bambini affascinati
dal sangue, che, con gli occhi spalancati,
aspetta la crudele agonia breve .
Gettano i galli vittoriosi squilli.
I buoi escono dai fienili neri;
si spargono su l’argine tranquilli,
scendono a bere, gravi, acqua d’argento.
Nei campi, rosei, bianchi, i cimiteri
sperano in mezzo al verde del frumento.
– Ne la corte – Tre stracci ad asciugare-
– Ne la corte – Tre stracci ad asciugare
sul muricciuolo accanto il rosmarino.
Una scala seduta. Un alveare
vedovo, su cui giuoca il mio micino.
Un orciuolo che ha sede sul pozzale
di marmo scanalato da le funi.
Dei cocci gialli. un vaso vuoto. Un fiale
che ha vomitato. Dei fogliami bruni.
– Su le finestre – Un pettine sdentato
con due capelli come dei pistilli.
Un astuccio per cipria. Uno sventrato
guancialino di seta per gli spilli.
Una scatola di belletto. Un guanto
mencio. Un grande garofano appassito.
Una cicca. Una pagina in un canto
piegata, da chissà mai quale dito!
– Per l’aria – La docile campana
d’un convento di suore di clausura.
Una lunga monotonia di zana.
Un gallo. Una leggera incrinatura
di vento. Due rosse ventarole
cifrate. Delle nubi bianche. Un treno.
Un odore acutissimo di viole.
Un odore acutissimo di fieno.
Contro corrente come bionde trote -
Contro corrente come bionde trote
fendevano la calca cittadina
due fanciulle insolenti di bellezza.
Curiosando strusciarono i musini
di maliziosa cipria qua a un acquario
di lusso di dormenti onde ravvolte
di stoffe per murene ed aragoste,
più in là a un brillante altar di calzature,
spume di cardi rossi per pianelle
di Cenerentola, lustrini e argenti
per taccuini da ballo. Scantonarono
a un tratto e una si chinò nascosta
dall’inquieta compagna ad allacciarsi
la giarrettiera a mezza coscia ignuda.
Le succhiò la corrente cittadina.
Vedo sempre la strada illuminata
da quel fulgore di carne di donna
nel marmo della pioggia settembrina.
Siepe-
All’odore crudele
che viene dalle spine della siepe
il tuo sangue amareggia l’amore,
e ti diventan gli occhi
una luce cattiva pigiata.
Sulla tua statua che cammina
aprendo una nuova strada nel vento
invano battono le mie parole
come gocce di rugiada da me scossa.
Prego l’erba dell’argine ti venga incontro
con la lampada avvelenata del gigaro
per far soffrire la tua bocca rossa.
“Bisognerà rendere giustizia al vecchio Govoni…Govoni c’incantava con la sua mercanzia venduta a buon prezzo e in una baracca suburbana. Il bambino e il vecchio trovavano sempre qualcosa che nessun altro aveva mai portato e che avevano desiderato per un anno intero. Verrà, pensavano, il signor Govoni con la sua bancarella”. (Leonardo Sinisgalli, L’età della luna)–
Corrado Govoni
Biografia di Corrado Govoni (Copparo, 29 ottobre 1884 – Lido dei Pini – Anzio, 20 ottobre 1965) è stato un poeta italiano.Dopo una prima esperienza crepuscolare aderì al futurismo, staccandosene in seguito per tentare la prosa e il teatro. Govoni nacque a Tamara, una frazione del comune di Copparo, da una famiglia di agricoltori benestanti, e senza compiere studi regolari iniziò a lavorare nell’azienda familiare. Esordì giovanissimo, già nel 1903, pubblicando a sue spese due raccolte di versi intitolati Le fiale e Armonie in grigio et in silenzio, presso la casa editrice Lumachi di Firenze, nelle quali prevalgono i toni crepuscolari. Dopo la pubblicazione de Le fiale, si dedicò soprattutto all’attività di scrittore collaborando alle riviste Poesia, Lacerba, e Riviera Ligure diretta da Mario Novaro. Le raccolte che seguirono nel 1905 e 1907, Fuochi d’artificio e Gli aborti, segnano l’inizio del suo accostarsi al futurismo. Dopo il trasferimento a Milano, capitale dell’avanguardia, strinse rapporti con Marinetti e aderì con entusiasmo al movimento. Ma non fu un’adesione vera e propria: nonostante qualche concessione al gusto futurista nelle successive raccolte, Poesie elettriche del 1911 e Rarefazioni e parole in libertà del 1915, egli stesso definì tale adesione “un gioco”, e la sua poesia restò essenzialmente ispirata alla natura e alla vita dei sensi. Nel frattempo si era sposato con una donna di nome Teresa, dalla quale avrebbe avuto tre figli: Aladino, Ariele e Mario. Ne L’inaugurazione della primavera, del 1915, il rapporto fra sensi e cose si fa particolarmente evidente, e il poeta supera anche il crepuscolarismo di maniera per attingere a un crepuscolarismo intimo, personale. Dal 1916 divenne collaboratore della rivista napoletana Diana che fu una delle prime ad aprirsi all’esperienza ermetica. Nello stesso anno, ritornato a Ferrara, fu costretto a vendere i suoi poderi e a dedicarsi ai mestieri più vari. Il primo periodo govoniano si conclude con l’antologia da lui curata e intitolata Parole scelte, pubblicata a Ferrara da Taddei nel 1920. Nel 1919 si era trasferito a Roma, dove, dopo la rivoluzione fascista, ottenne un impiego al Ministero della Cultura popolare. Per qualche anno fu vicedirettore della sezione del libro alla SIAE, poi segretario del Sindacato Nazionale Scrittori e Autori. Sono questi gli anni delle sue migliori opere narrative. Grato al fascismo per l’opportunità di lavoro, scrisse un poemetto in lode a Mussolini, ciò nonostante il figlio Aladino fu fucilato dai tedeschi alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Nacque quindi Aladino (1946): un Govoni diverso, sconvolto dalla tragedia, che esprime il suo dolore con toni duri e talora violenti. Nel dopoguerra lo scrittore si trovò in precarie condizioni economiche e dopo un periodo di disoccupazione accettò un impiego presso un ministero come protocollista, trascorrendo la sua vita tra la capitale e Marina di Tor San Lorenzo. Negli ultimi anni della sua vita Govoni diresse la rivista Il sestante letterario da Lido dei Pini, presso Roma, dove dimorava. Qui, segnato da una malattia agli occhi che lo aveva quasi condotto alla cecità, si spense nel 1965.Fonte- Wikipedia
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