Giovanni Grasso racconta la vita di Lauro De Bosis , un giovane poeta antifascista-
Giovanni Grasso -Icaro il volo su Roma di Lauro De Bosis , un giovane poeta antifascista-
Lauro De Bosis , un giovane poeta antifascista
Giovanni Grasso racconta la vita di Lauro De Bosis , un giovane poeta antifascista-Roma, 1928. Ruth Draper, attrice newyorkese, è una donna colta, indipendente, schiva. Si è votata al teatro come una vestale al tempio e non ha mai ceduto alle lusinghe dell’amore. Fino a quando, nella Città Eterna per una tournée, non incontra il giovane e fascinoso Lauro De Bosis. Dandy per eccellenza, poeta per vocazione, antifascista per scelta, aviatore per necessità, Lauro è un visionario ma è anche un uomo coraggioso capace di passare all’azione: con due amici infatti ha fondato un’organizzazione segreta che diffonde messaggi clandestini di propaganda contro il regime. Tra il giovanissimo Lauro e la matura Ruth, nonostante diciassette anni di differenza, scoppia un amore travolgente e tragico, che si cementa nella lotta al fascismo. Sullo sfondo, l’Italietta del regime, ma anche l’inquieto mondo dell’antifascismo in esilio, tra Parigi, Londra e Bruxelles e l’America divisa tra i fremiti del jazz, la cappa del Proibizionismo e la Grande depressione. Dopo Il caso Kaufmann, Giovanni Grasso torna a mescolare storia e invenzione, ricostruendo nei dettagli l’epopea e il ricco mondo di relazioni di un eroe dimenticato che fece tremare la dittatura: la sera del 2 ottobre 1931, a bordo di un piccolo monoplano, Lauro De Bosis sorvolò Roma, beffando clamorosamente il regime, prima di scomparire nel Tirreno al termine di un volo fatale compiuto in nome della libertà
Lauro De Bosis , un giovane poeta antifascista
Articolo di Riccardo Borgia-I protagonisti della storia e le loro gesta d’impatto in alcuni casi rimangono sottotraccia. Questa è la storia di un uomo, Lauro de Bosis, un giovane poeta antifascista, aviatore improvvisato che il 3 ottobre del 1931 compì un gesto forte raccontato in “Icaro, il volo su Roma” per esprimere la sua lotta all’antifascismo. Lauro, sganciò dal suo aereo su Roma quattrocentomila volantini contro Mussolini e poi nel tentativo di ritornare in Corsica si inabissò nel Tirreno. La storia di Lauro De Bosis, però parte da una prima infatuazione per il fascismo, come molti altri italiani. In seguito, però aprì gli occhi in seguito al delitto Matteotti. La sua lotta antifascista, quindi inizia con la fondazione di una società segreta, Alleanza nazionale, che operò imbucando volantini antifascisti nelle cassette delle lettere degli italiani.
Lauro De Bosis , un giovane poeta antifascista
Questa fu l’inizio della storia di uno scrittore e poeta. Icaro, il volo su Roma è il primo romanzo di Giovanni Grasso, giornalista parlamentare e saggista e racconta appunto come Lauro de Bosis. Quest’ultimo isolato dagli altri antifascisti e accusato di essere interessato alla monarchia. La motivazione era legata alla sua convinzione che Mussolini dovesse essere abbattuto convincendo il re, il Vaticano e l’esercito a togliergli il potere.
Lauro De Bosis , un giovane poeta antifascista
L’evento di presentazione di Icaro, il volo su Roma
La pubblicazione dedicato alla figura di quest’uomo impegnato nella lotta all’antifascismo è stato presentato in un luogo iconico, ovvero la Sala Rossa del Foro Italico, ex palestra proprio di Benito Mussolini e realizzato in collaborazione tra il Comitato provinciale dell’Ansmes di Roma e il Club del Panathlon di Roma. I partner, Sport e Salute e Olympialex, sono quelli delle grandi occasioni. Lo stesso autore Giovanni Grasso fa una ricostruzione precisa della vita di Lauro De Bosis. Lo stesso parte dalla dedica con il nome dato alla piazza dove è ubicato il Comitato Olimpico Nazionale Italiano.
Lauro De Bosis , un giovane poeta antifascista
“Insegante negli Stati Uniti e un antifascista che in una sua azione, l’ultima prima di morire, nell’ottobre 1931 sorvolando Roma con il suo piccolo aerea lanciò migliaia di volantini contro il fascismo. Sulla via del ritorno a Marsiglia, lui avrebbe voluto tornare a Barcellona, l’aeroplano sul quale volava è scomparso in mare, probabilmente per mancanza di carburante”. Queste alcune parole e passaggi di un libro che racconta anche il suo amore per l’attrice newyorkese Ruth Draper, più grande di lui di quasi vent’anni, che gli rimarrà accanto per tutto il resto della vita.
Questo evento ha quindi evidenziato non solo l’importanza di raccontare in una presentazione un personaggio di così elevata caratura ma l’attenzione per determinate figure. Le quali, dovrebbero avere nell’impatto sulla storia del nostro paese.
Moorehead Caroline La casa in montagna-Storia di quattro partigiane
Traduzione di Giuliana Olivero, Bianca Bertola-Bollati Boringhieri editore
DESCRIZIONE
Siamo ormai a tre generazioni di distanza dalla guerra partigiana del 1943-45, e certi eventi di quegli anni hanno perso in parte la loro carica emozionale. In questi decenni è stato compiuto (e ancora si compie) un imprescindibile lavoro di ricerca storica, che ha documentato con cura le battaglie e le vite dei protagonisti di allora, e ha analizzato nel dettaglio gli elenchi degli assassinati e dei torturati, e l’orribile computo dei drammi umani, spesso descritto con linguaggio asettico nei documenti della burocrazia. Oggi è importante che, per non dimenticare, si levi su quelle vicende anche una voce autoriale, in grado di legare i fatti storici in un filo narrativo coinvolgente e cristallino. È ciò che fa Caroline Moorehead in questo libro, un’opera completa, capace di ricreare l’atmosfera di paura e di dolore, ma anche in grado di rendere la spinta ideale provata da molte donne coraggiose, determinate ad agire e rischiare per il bene della loro comunità. Pagina dopo pagina, leggiamo senza fiato la storia delle quattro protagoniste – Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Frida Malan e Silvia Pons –, partigiane emblematiche di un intero movimento di donne altruiste, forti e motivate, che animarono azioni di ribellione collettiva, sfidando la guerra, la paura e i pregiudizi. In questo racconto, attento e delicato, troviamo testimonianze che riescono a commuovere e a ispirare, e restano impresse a lungo, grazie alla penna felice dell’autrice. Attraverso lo sguardo e l’esempio di queste protagoniste in lotta contro il nazifascismo, La casa in montagna ci restituisce una memoria unica, che oggi troppi vorrebbero dimenticare.
Recensioni
«Moorehead dipinge un quadro meravigliosamente vivido e commovente delle donne della Resistenza italiana. Un libro eccezionale».
sir Max Hastings, autore di Inferno. Il mondo in guerra 1939-1945, «The Sunday Times»
«Affascinante… La narrazione è resa con una tale verve che viene spesso la pelle d’oca».
Tobias Jones, «The Guardian»
«Una storia profondamente commovente e magnificamente raccontata».
Antifasciste e antifascisti a cura di Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura-
-Viella Libreria Editrice- Collana dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri –
Antifasciste e antifascisti a cura di Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura- -Viella Libreria Editrice-
Sinossi del libro Antifasciste e antifascisti – Collana: Collana dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri -Da alcuni decenni l’antifascismo pare aver perso la sua rilevanza nel dibattito civile e storiografico. Anche il Centenario della marcia su Roma ha lasciato sullo sfondo le storie di coloro che si opposero al fascismo sin dagli anni dello squadrismo.
Questo libro invece le recupera e le racconta, mettendo al centro il vissuto quotidiano, i percorsi coraggiosi e dolorosi, in nome della libertà, dentro e fuori l’Italia negli anni complicati della guerra civile europea. Si riflette anche sugli antifascismi come ideologie politiche, con saggi che prendono in esame i discorsi e le pratiche delle diverse culture antifasciste e talvolta il loro difficile dialogo. Infine, si aprono alcuni squarci su cosa accade all’antifascismo dopo il 1945, sulle dispute della memoria e sul suo utilizzo nelle battaglie politiche dei primi anni della Repubblica e della Guerra Fredda.
Prefazione di Giovanni Scirocco
Gianluca Fulvetti, Andrea Ventura, Introduzione
I. Storiografia
Andrea Ventura, L’antifascismo e la società italiana. Una messa a fuoco
Renato Camurri, Crossing Borders: esilio e antifascismo
II. Antifascismi
Marco Manfredi, Violenza politica, forme di lotta armata e cultura popolare fra Prima guerra mondiale e avvento del fascismo
Claudia Baldoli, La “religione antifascista” dell’Aventino: i socialisti unitari tra 1924 e 1925
Patrick Karlsen, Gli antifascismi alla frontiera alto-adriatica dalla transizione post-imperiale alla Seconda guerra mondiale
Emanuela Miniati, La Liguria antifascista in Francia tra internazionalismo e identità nazionale
Daniel Goldstein, Leo Valiani e Mario Montagnana in esilio a Città del Messico (1941-1945)
III. Antifasciste e antifascisti
Enrico Miletto, Maria Bernetič, una comunista di frontiera
Daria De Donno, Stili di antifascismo. Sulle tracce di Giorgia Boscarol
Andrea Montanari, Fortunato Nevicati, un antifascista europeo
Gianluca Fulvetti, Il dolore e la sconfitta. Antifascisti lucchesi nel Casellario politico centrale
Stefano Latino, Antifascisti e antifasciste nelle fabbriche: l’organizzazione clandestina del Partito comunista a Sesto San Giovanni (1925-1939)
Roberta Mira, Antifasciste e sovversive. Profili di donne bolognesi nei casellari di polizia del regime
Massimiliano Bacchiet, I primi comunisti. Per un dizionario biografico della provincia di Pisa (1921-1940)
Giorgio Mangini, L’anagrafe dei sovversivi bergamaschi
Roberta Mori, Sandro Delmastro, appunti per una biografia
Graziella Gaballo, L’antifascismo di Ada Della Torre
IV. Dopo il 1945
Giovanni Brunetti, L’ambiguità costituente. L’antifascismo nel Casellario politico centrale del secondo dopoguerra (1945-1956)
Francesca Picci, «Trattandosi di una donna». Le partigiane vicentine nelle carte del Ricompart
Mirco Carrattieri, Un monumento all’antifascismo. Statue e lapidi per Giacomo Matteotti
Nicola Lamri, Antifascisti e antifasciste italiane di fronte alla guerra di decolonizzazione algerina
Costanza Calabretta, L’antifascismo nelle relazioni fra Italia e Repubblica democratica tedesca fra anni Cinquanta e Sessanta
Luca Zanotta, Franco Antonicelli e l’antifascismo tra generazioni
Indice dei nomi
Autrici e autori
funerali di Carlo e Nello Rosselli (Parigi, 19 giugno 1937)
In copertina: I funerali di Carlo e Nello Rosselli (Parigi, 19 giugno 1937). Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea “Giorgio Agosti”, Archivio Fotografico Originario.
Diego Dilettoso-La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli
Editore Biblion
Descrizione-Questo saggio ripercorre gli ultimi otto anni della biografia di Carlo Rosselli (1929-1937), che il militante antifascista trascorre principalmente in Francia e, più precisamente, a Parigi. Gli anni dell’esilio non costituiscono per Rosselli soltanto un momento cruciale della lotta antifascista, con la fondazione di Giustizia e Libertà, la pubblicazione del saggio “Socialisme libéral” (Parigi, 1930), la partecipazione in prima persona ai combattimenti della guerra civile spagnola, fino al tragico assassinio, con il fratello Nello, a Bagnoles-de-l’Orne. L’esperienza d’oltralpe permette a Roselli – in misura senz’altro maggiore rispetto agli altri dirigenti dell’antifascismo in esilio – di entrare in contatto con i milieux politici ed intellettuali locali, lasciando tracce significative del suo passaggio e allargando i propri orizzonti culturali sulla Francia, paese al cuore di quella civilizzazione europea che Rosselli concepiva come naturalmente contrapposta alla barbarie fascista.
Uomo politico (Roma 1899 – Bagnoles de l’Orne 1937); antifascista, allievo di G. Salvemini; prof. (fino al 1926) all’univ. Bocconi di Milano e all’Istituto superiore di commercio di Genova, dopo il delitto Matteotti aderì al Partito Socialista Unitario. Fondatore, con G. Salvemini, E. Rossi e il fratello Nello, del foglio clandestino Non mollare!, poi (1926) con P. Nenni della rivista Il quarto stato, fu uno degli organizzatori dell’emigrazione politica antifascista clandestina; per aver aiutato l’evasione di F. Turati, fu confinato a Lipari, dove scrisse Socialismo liberale (pubbl. in Francia nel 1930), revisione teorica del marxismo in funzione di un socialismo democratico. Evaso da Lipari con F. S. Nitti e E. Lussu (1929), riparò in Francia, dove costituì il movimento Giustizia e Libertà, di cui fu la guida fino alla morte. Combattente (1936) nella guerra civile spagnola a fianco delle truppe repubblicane, venne ferito in battaglia; tornato convalescente in Francia, fu assassinato con il fratello Nello (v.) da cagoulards assoldati dal SIM. Le lettere dei due fratelli alla madre, Amelia Pincherle R. (n. 1870 – m. 1937), autrice di commedie e di libri per ragazzi, sono raccolte in Epistolario familiare. Carlo e Nello Rosselli alla madre (1914-1937), a cura di Z. Ciuffoletti (1979)
– Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
Rosa Leveroni i Valls neix a Barcelona l’1 d’abril del 1910 en el si d’una família de la mitjana burgesia. El seu pare, descendent d’una família d’armadors de vaixells de Gènova, fa de gerent d’un magatzem de metalls, i la seva mare, de mestra. Fa els primers estudis al col·legi Príncep d’Astúries i, posteriorment, fins als dotze anys, a les Dames Negres del passeig de Gràcia.
Rosa Leveroni
Als quinze anys publica els seus primers versos a la revista Patufet, i comença a tenir clara la seva vocació literària. Tot i que el seu pare la pressiona perquè es dediqui al negoci familiar, als dinou anys, coincidint amb la caiguda de la dictadura de Primo de Rivera, entra a l’Escola de Bibliotecàries, que aleshores dirigeix Jordi Rubió. Aquesta institució, fundada per Eugeni d’Ors, té com a professors alguns dels intel·lectuals catalans més brillants del moment (Carles Riba, Ferran Soldevila, Nicolau d’Olwer, Rafael de Campalans). L’estada a l’Escola de Bibliotecàries i, en especial, la coneixença de Carles Riba, és cabdal en la formació intel·lectual i personal de Leveroni.
L’any 1933 rep una beca per anar a Madrid a fer una tesina sobre literatura infantil. En tornar, entra a treballar a la biblioteca de la Universitat Autònoma de Barcelona. Durant la guerra civil fa dos cursos de la carrera de Filosofia i Lletres. L’any 1937 és finalista al premi Joaquim Folguera amb el llibre Epigrames i cançons, que publica l’any 1938, prologat per Carles Riba. La influència ribiana i, en general, de tota la generació postsimbolista és molt present en aquest volum. Els temes que hi apareixen seran els que es repetiran durant tota la seva obra: la tristesa, la desolació amorosa, la melangia…, sentiments continguts i objectivats gràcies a la disciplina del vers.
El 1939, després de la Guerra Civil, la depuració de funcionaris de la Generalitat fa que perdi la feina com a bibliotecària de la Universitat Autònoma. Durant la dècada dels quaranta, Leveroni dedica tota la seva energia a la resistència cultural catalana enfront de la repressió franquista, i es converteix en l’ànima del grup intel·lectual que Carles Riba forma al seu voltant. És ella qui distribueix clandestinament les Elegies de Bierville de Riba, qui actua de contacte entre els intel·lectuals catalans de l’interior i els de l’exili, i és una de les primeres col·laboradores de la revista Poesia (fundada el 1940) i de la revista Ariel (fundada el 1946).
Rosa Leveroni per al suple Foto: Ferran Sendra
L’any 1952 publica un segon volum de poesia, Presència i record, prologat per Salvador Espriu. La mort del seu pare, l’obliga a centrar-se en el negoci familiar. En aquesta època assisteix assíduament als congressos de literatura catalana que se celebren a Anglaterra, organitzats per la Catalan Society, entitat de la qual és membre. Durant les dècades dels seixanta i dels setanta, la seva figura es manté cada vegada més apartada i aïllada de l’escena literària catalana, fet al qual també contribueix el seu silenci poètic.
L’any 1981 publica el volum Poesia, que recull tota la seva obra poètica, amb pròleg de Maria Aurèlia Capmany i dos epílegs de Carles Riba i Salvador Espriu, escrits respectivament el 1938 i el 1950 i que havien prologat els dos reculls poètics. L’any següent, el conjunt de la seva obra és reconegut amb l’atorgament de la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Mor el 4 d’agost del 1985, poc abans que es publiqui un volum de contes que recull la seva producció narrativa. És enterrada a Port-Lligat.
Rosa Leveroni
Rosa Leveroni-Poesia”PRESENZA E RICORDO”
*
Con il grigiore di questo cielo,
l’argento dell’ulivo
deve sembrare il tocco di un pennello
dalla fine trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava l’oscurità.
Tutta la luce è rimasta
sul ramo d’ulivo.
Rosa Leveroni-(1910-1985)-Poetessa spagnola legata alla Resistenza culturale catalana nel periodo franchista. La sua poesia, influenzata dall’opera di Carles Riba, è caratterizzata dal tema amoroso e dalla riflessione sul destino umano.
(Presència i record. Barcelona: Edicions de l’Óssa Menor, 1952)
* * *
Elegies dels dies obscurs
III
Desmai de cap al tard damunt de l’aigua
adormida del port. Els núvols grisos
deixaven la tristesa de sentir-se
orfes del seu rosat botí de posta,
sobre el mirall opac. L’ala del somni
ratllava les cobertes treballades
d’un íntim cansament. Ja cap bandera
no ornava els mastelers. I les desferres
dels bots abandonats eren la muda
crida del desesper. Els nostres passos
ressonaven pel moll i les paraules
foren el lent sospir de la nostàlgia
d’un viatge mai fet… Ah! les inútils
veles del mort desig, ¿com desplegar-les
al vent que no vindrà per a portar-nos
al goig del mar obert, a l’alegria
de les ones batents, si els braços àvids
d’aquest port desolat ens retenien?
VIII
Aquest so greu de corda adolorida
que subratlla el meu cant, és la penyora
deixada per la mort perquè et recordi,
amor adolescent. És la teva ombra
que en l’alta solitud dels camins aspres,
el braç acollidor, va fer-me ofrena
d’aquest repòs segur, oh flama pura
del meu amor passat, present encara
en el somriure las d’un món que porta
el pes de tots els morts en les florides
de cada primavera renovada.
Ets el meu port tancat on de l’inútil
navegar porcel·lós veig la tristesa
i el conhortament… Ombra benigna
que m’acompanya el cant atemperant-lo
amb unes notes greus, serva’m els braços
eternament oberts…
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 105-108)
Rosa Leveroni
* * *
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen,
ignorant cap a on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el festeig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya
s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres
vetllant un rierol,
i coneixen el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres,
mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(Poesia. Barcelona: Edicions 62, 1981, p. 80-81)
* * *
Jo porto dintre meu
per fer-me companyia
la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra,
aire i sol, mar i estrella,
perquè fossis més meu,
perquè jo fos més teva.
(Epigrames i cançons. Barcelona: Gustau Gili, 1938)
Antologia
Alcune poesie
Con il grigiore di questo cielo
l’argento de l’olivera
deve sembrare il tocco di un pennello
di una raffinata trasparenza.
Un mare di piombo sullo sfondo
condensava la tenebra.
Tutta la luce è andata
al brancam de l’olivera.
(Presenza e ricordo. Barcellona: Edizioni dell’orso minore, 1952)
* * *
Elegies dels muore oscurs
III
Svenendo nel pomeriggio in acqua
sonno dal porto. Le nuvole grigie
hanno lasciato la tristezza dei sentimenti
Orfani con il loro sedere rosa,
sullo specchio opaco. L’ala del sogno
graffiato i ponti lavorati
di una stanchezza intima. Nessuna bandiera più
niente Ornava els Mastelers. I les desferres
delle barche abbandonate erano i muti
grido di disperazione. I nostri passi
risuonava attraverso il molo e le parole
Erano il lento sospiro della nostalgia
da un viaggio mai fatto… Ah! Ah! quelli inutili
candele del desiderio di morte, come aprirle
al vento che non verrà a prenderci
alla gioia del mare aperto, alla felicità
delle onde battenti, se l’avidità braccia
Ci hanno tenuti lontano da questo porto desolato?
VIII
Quel serio suono di corda dolorante
che sottolinea il mio canto, è la penyora
lasciato alla morte per ricordarti,
amore adolescenziale. È la tua ombra
che nell’alta solitudine delle strade aspre,
il braccio di accoglienza, mi ha fatto un’offerta
di questo riposo sicuro, oh fiamma pura
dal mio amore passato, presente ancora
nel sorriso quelli di un mondo che porta
il peso di tutte le morti in Florida
di ogni primavera rinnovata.
Sei il mio porto chiuso dove dell’inutilità
surf in porcellana vedo la tristezza
I el conhortament… Ombra benigna
che mi accompagna la canzone temprandola
Sul serio, servi le mie braccia
eternamente aperto…
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 105-108)
* * *
Seguite i sentieri che conducono i campi,
ignorante cappuccio a sul furgone,
amato da un profumo di terra morbida
Non posso errívol.
E prendono i colori caldi del rame
con un bacio dal sole che tramonta,
e cieli d’amore, sotto i rami,
la festa del popolo.
Seguite i sentieri per la vigna
stanno allineando la costa,
E hanno la sete e lo sguardo
un bell gotim un punt.
Per favore seguite i sentieri tra pollancre
vegliare su un torrente,
E conoscono il volo delle borse di studio,
il gioco della pioggia e del sole…
Amo tutte le strade, anche le più dure,
purché siano aperti
E hanno messo un nuovo tremore alla frutta
nei miei sensi svegli.
(Poesia. Barcellona: Edizioni 62, 1981, p. 80-81)
Rosa Leveroni
* * *
Porto dentro di me
per farmi compagnia
solo la solitudine.
La solitudine immensa
amarla infinitamente
Voglio essere la terra,
Aire i sol, mar i estrella,
perché tu eri più mio,
in modo che potessi essere più come te.
(Epigrammi e canzoni. Barcellona: Gustau Gili, 1938)
Rosa Leveroni-Poetessa spagnola
Rosa Leveroni (Barcelona, 1910-1985). Poeta i narradora. La seva poesia es troba influïda pel mestratge de Carles Riba, tant en els models formals com en el refús de la superficialitat i el barroquisme. La seva obra és breu i es troba recollida en dos volums: Poesia (1981) i Contes (1985). Conrea també l’assaig i la crítica literària (sobre Ausiàs March, especialment). Durant la postguerra desenvolupa una tasca important en la represa de la cultura i la llengua catalanes. L’any 1982 és reconeguda amb la Creu de Sant Jordi de la Generalitat de Catalunya.
Va ser una de les primeres membres i, posteriorment, sòcia d’honor de l’Associació d’Escriptors en Llengua Catalana.
Rosa Leveroni (Barcellona, 1910-1985). Il poeta e il cantastorie. La sua poesia è influenzata dalla maestria di Carles Riba, sia nei modelli formali che nel rifiuto della superficialità e del barocco. Il suo lavoro è breve ed è raccolto in due volumi: Poesia (1981) e Racconti (1985). Coltiva anche saggio e critica letteraria (soprattutto su Ausiàs March) Nel dopoguerra sviluppa un importante compito nel restauro della cultura e della lingua catalana. L’anno 1982 è riconosciuta con la Croce di San Giorgio della Generalitat di Catalogna.
POEMES DE ROSA LEVERONI
VI TARDA DE POESIA
20 D’ABRIL DE 2022
AULES DE DIFUSIÓ CULTURAL DE LA GARROTXA
POEMES DE ROSA LEVERONI
PÒRTIC
del llibre Epigrames i cançons, 1938
Jo porto dintre meu per fer-me companyia la solitud només.
La solitud immensa
de l’estimar infinit
que voldria ésser terra, aire i sol, mar i estrella, perquè fossis més meu, perquè jo fos més teva.
ELS RECORDS III
Jo fos per tu aquesta cançó tan dolça que desgrana el molí;
aquest oreig suau que t’agombola perfumant-te el matí.
Fos el flauteig dels tòtils a la tarda en la calma dels horts.
Si fos aquesta pau que t’acompanya en el repòs dels ports …
o fos la punxa de la rosa encesa d’un desig abrandat; aquell record d’una hora de follia, d’aguda voluptat.
Si fos l’enyorament d’uns braços tendres que varen ser-te amics,
o bé la revifalla rancorosa d’aquells menyspreus antics.
Si jo no fos per tu record amable, fos almenys un neguit,
un odi o un dolor, una recança … Ho fos tot, menys l’oblit.
(del llibre Presència i record, 1952)
CANÇÓ DE LES BESADES
El primer bes que florí,
te’n recordes?, jo el donava. Tu em prengueres el segon vora del riu que cantava.
I després ja començà
el rosari de besades.
Unes amb regust de sol
i neu dalt de la muntanya. Altres amb claror d’estels
i perfum de lluna clara.
Totes d’un encantament
que ens feia les hores calmes …
D’aquell rosari passat,
sols el record m’acompanya i la recança també,
amor, si tu l’oblidaves.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
ABSÈNCIA I
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis,
i sóc tan lluny de l’amat!… Sols tinc la mar per companya; ella bé prou que em somriu dins la cala arredossada.
Em somriuen els estels i la lluna niquelada,
el campanar cimejant
i la vela ben inflada,
i la gavina en ple vol,
i el peix fugint de la xarxa…
Rosa encesa del desig,
com m’esgarrinxes els llavis! Si sóc tan lluny de l’amat
res dintre meu ja no canta.
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
No vull el mirall del mar, ni l’estelada florida;
ni claror de cels novells, ni encetar cap nova via.
Vull la dolçor del teu braç abraçant la meva vida; vull la claror dels teus ulls i la teva veu amiga.
XXIII
ABSÈNCIA VII
Em pren la calma dels camps quan l’hora esdevé rogenca.
I la quietud de la mar
quan els vents dormen la sesta. I mentre vola l’ocell
l’ànima esdevé lleugera …
Saber-te lluny sense dol
em fa ressò de miracle.
Ara, però, veig el món
amb la claror que m’encanta de tenir-te dintre meu,
que fa que no em cal pensar-te.
(del llibre Epigrames i cançons, 1938)
CANÇÓ D’UN SETEMBRE
Era una coma d’oliveres
amb una casa i un camí,
al capdavall dues figueres
fent ombra fresca a un doll molt fi.
Era migdia. Reposava
la vinya negra de gotims; vora el portal un gall cantava; es feinejava porta endins.
Aquella font era tan clara, era tan net aquell cel blau … Omplia el pit la joia avara
i la llangor fou tan suau!…
Jo no sabia que l’amava
però en sos ulls em vaig mirar … Des d’aleshores l’estimava,
ja no he sabut què és oblidar.
(del llibre Presència i record, 1952)
Vull sentir-te com arrel
dins la foscor beneïda d’aquesta terra vivent
de nostra amor compartida.
(del llibre Presència i record, 1952)
Rosa Leveroni
CLAROR DAURADA
És la claror daurada de la posta d’un dia de tardor
que veig en els teus ulls i que m’ofrenen la teva tremolor.
És aquell deix cansat, com d’arribada després de tràngols forts
a l’esperat recer, on tots els somnis troben la pau dels ports.
És el somriure lleu, la veu sonora d’haver estimat ja tant,
que em prenen dolçament i se m’emporten sense saber on van…
(del llibre Presència i record, 1952)
ELS CAMINS III TEMA AMB VARIACIONS
Plau-me seguir els camins que els camps parteixen ignorant cap on van,
amarats d’un perfum de terra molla
i d’un errívol cant.
I prenen uns colors de coure càlid
d’un bes del sol ponent,
i celen amb amor, sota les branques,
el fresseig de la gent.
Plau-me seguir els camins que per la vinya s’enfilen costa amunt,
i tenen per la set i la mirada
un bell gotim a punt.
Plau-me seguir els camins entre pollancres vetllant un rierol,
i coneixent el vol de les becades,
el joc de pluja i sol…
Amo tots els camins, fins els més aspres, mentre siguin oberts
i posin tremolor de fruita nova
als meus sentits desperts.
(del llibre Presència i record, 1952)
COLOR DEL TEMPS
Clavellines als balcons,
parets blanques, fustes blaves. Esclat de llum: campanar; randes albes a les platges. Tocs de mel en la claror;
verds i blaus, joies de l’aigua …
Quin perfum primaveral ofrenaves, vila amable! …
(del llibre Presència i record, 1952)
Si jo tingués un veler sortiria a pesca d’albes. Encalçaria els estels
per posar-me’n arracades.
Si jo tingués un veler, totes les illes i platges
em serien avinents
per al somni i les besades.
Si jo tingués un veler,
en cap port faria estada. El món fóra dintre seu,
ai amor, si tu hi anaves …
(del llibre Presència i record, 1952)
TEMA AMB VARIACIONS
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges on d’aquest meu navegar pugui reposar les ales.
Tots els camins de la mar un a un se’m refusaven; sols els ports resten oberts amb l’agombol de les cases.
Les veles han desertat
tots els vents que les tibaven. L’estrella signa el retorn
al vell sofrir delectable.
Són les illes del record
les que m’ofrenen les platges …
(del llibre Poesia, 1981)
GLOSES MALLORQUINES
Si bastiment hi havia
que fadrines se’n dugués vestides de mariners,
jo la de davant seria.
Tota la mar trescaria, estimat meu, sols que us ves.
Totes les illes hauria
per a bescanvi d’un bes. Pirates i bandolers
a tots ells jo robaria,
i res no m’aturaria
si els teus braços jo trobés.
Els teus llavis jo tindria com a més segur recés. Pirates i mariners
i moros de moreria,
res ja no m’espantaria
si en els teus ulls em negués…
Rosa Leveroni
III
GLOSES MALLORQUINES VII
Vós heu robat i robeu
i vós sou la robadora;
el cor m’heu robat, senyora, i l’ànima em pledegeu.
Vós teniu tot l’amor meu,
no en voleu ser sabedora. Vós jugueu amb mi, senyora, i potser vos arrisqueu.
El cor m’heu robat, senyora, potser el vostre hi perdereu. És molt cara la penyora, mireu, senyora, el que feu!
L’enamorar enamora
i, si l’ànima em voleu, mireu-me als ulls, missenyora, que dins ells la trobareu.
El cor m’heu robat, senyora. Ara el vostre me’l deveu.
(del llibre Presència i record, 1952)
Tota la mar trescaria
si prop meu sempre et tingués!
(del llibre Presència i record, 1952)
VOLDRIA QUE EL MEU CANT FOS COM UNA ALBA
Voldria que el meu cant fos com una alba secreta per a tots,
i només un de sol capís els signes
dels inefables mots.
Voldria que el meu cant fos com l’alosa o com el dia clar,
que posen en el cel la seva joia
sense res esperar.
Voldria que el meu cant fos com un himne de gràcies per la sort
de trobar dintre meu tot el misteri
de la vida i la mort.
(del llibre Poesia, 1981)
TESTAMENT
Quan l’hora del repòs hagi vingut per a mi vull tan sols el mantell d’un tros de cel marí. Vull el silenci dolç del vol de la gavina dibuixant el contorn d’una cala ben fina; l’olivera d’argent, un xiprer més ardit
i la rosa florint al bell punt de la nit;
la bandera d’oblit d’una vela ben blanca
fent més neta i ardent la blancor de la tanca. I saber-me que sóc, en el redós suau,
un bri d’herba només de la divina pau.
(del llibre Poesia, 1981)
Donem les gràcies a totes les persones que han fet possible aquesta VI Tarda de Poesia:
ALS QUI HAN LLEGIT TEXTOS EN PROSA:
Reflexions i records de Rosa Leveroni Carta de Salvador Espriu
A LES LECTORES I LECTORS DE POEMES:
Pòrtic
Els records
Cançó de les besades
Rosa encesa del desig …
No vull el mirall del mar …
Els camins
Color del temps
Claror daurada
Si jo tingués un veler …
Glosses mallorquines: Si bastiment hi havia … Voldria que el meu cant fos com una alba Testament
A L’ÀNGEL GIRONA, MÚSIC VERSIONADOR I INTÈRPRET:
Em pren la calma dels camps
Cançó d’un setembre
Glosses mallorquines: Vós heu robat i robeu … Són les illes del record …
A L’EDITOR DEL POWER POINT:
Glòria Llinàs Francesc Bragulat
Maria Biarnés Montse Delgà Conxita Ayats Margarida Arau Tura Tarrús Roser Melià Montse Trubat M. Teresa Roura Pilar Gurt
Descrizione del libro di Lorenzo Tibaldo-Nato in una famiglia di minatori di tradizioni repubblicane e antifascista convinto, Jacopo Lombardini (Gragnana, 1892-Mauthausen, 1945) ha dedicato la sua vita alla causa della libertà, rappresentando la parte migliore della storia dell’Italia, quella democratica e repubblicana che si esprime nella Costituzione. Alimentate dalla fede evangelica, cui Lombardini si converte nel 1924, le sue idee –– che trovano la loro radice in Mazzini, Garibaldi e nell’epopea risorgimentale – si riaffermano in seguito nella lotta partigiana contro il nazifascismo. Una coerenza di scelte di vita che lo porta alla morte nel campo di sterminio di Mauthausen, dove viene gasato il 24 aprile 1945, alla vigilia della Liberazione.
Il libro in pillole
La cultura come madre della responsabilità e del senso del dovere
L’anelito verso la libertà e la giustizia
Il rapporto tra coscienza religiosa e libertà politica
Biografia dell’autore
Lorenzo Tibaldo
studioso di storia dell’Ottocento e Novecento, in particolare delle organizzazioni del movimento dei lavoratori e della Resistenza. Per Claudiana ha pubblicato Quando suonò la campana. Willy Jervis (1901-1944), (Torino, 2005); Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (Torino, 2008).Lorenzo Tibaldo ci propone questo suo secondo libro su un martire evangelico della Resistenza1 in un momento particolar- mente difficile della vita nazionale: da una parte il Paese attra- versa una fase di crisi economica, politica, morale (e spirituale), dall’altra parte molti italiani sono ben disposti a celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia anche se qualcuno contesta il Risorgi- mento, e soprattutto quel secondo Risorgimento che è stata la Resistenza.
Prefazione di Giorgio Bouchard
Orbene, la bella e tragica vicenda di Jacopo Lombardini ci presenta un prezioso filo conduttore tra i due Risorgimenti; e questo filo è la fede evangelica: una fede scoperta a trent’anni e poi collaudata in mezzo alle più orride vicende del «secolo della menzogna», il Novecento.
1 Il primo è stato Lorenzo Tibaldo, Quando suonò la campana. Willy Jervis (1901-1944), Torino, Claudiana, 2005. È invece dedicato a due «martiri laici» il volume L. Tibaldo, Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacro e Bartolomeo Vanzetti, Torino, Claudiana, 2008.
Ma andiamo con ordine: Lombardini, per così dire, «nasce mazziniano»: figlio di poverissimi cavatori delle Apuane, non milita nelle file degli anarchici così numerosi (e perseguitati) a Carrara e dintorni, ma appunto nelle file dei repubblicani. Il motivo di questa scelta sta in un fatto molto semplice: suo padre è stato garibaldino, e costituisce per lui una sorta di “cordone ombelicale” con la stagione del Risorgimento: fin da ragazzo, Jacopo si trova così perfettamente a suo agio con le idee di Giu- seppe Mazzini, con la sua passione democratica e con il suo af- flato morale, anzi, spirituale: giustamente, Tibaldo, sulla scorta di studi recenti, mette in rilievo il versante religioso del messag- gio mazziniano2: un messaggio che spinge alla lotta politica ma non preclude nessuno sviluppo interiore e spirituale.
Così, Jacopo sarà un militante politico per tutta la vita, ma non sarà mai vittima di quelle tentazioni immanentistiche che hanno compromesso e indebolito la causa per cui lottavano tan- ti generosi rivoluzionari del Novecento.
Con la consueta discrezione, Tibaldo ci suggerisce una pista di riflessione che ci permette di capire la personalità poliedri- ca di Lombardini: povero maestro licenziato (e bastonato), ri- dotto a vivere di lezioni private, Jacopo è in realtà soprattutto uno scrittore, alla pari di quel Ceccardo Roccatagliata Ceccardi che gli fu tanto amico: torniamo così a rileggere con emozione quei romanzi che avevamo scoperto settant’anni fa nelle aule del Collegio valdese, ma soprattutto leggiamo per la prima vol- ta i suoi brevi articoli pubblicati su “La Luce” e su “L’Eco delle Valli Valdesi” a cui si affiancano le indimenticabili predicazioni dell’epoca partigiana.
In questi libri, articoli, sermoni – visibilmente scritti e pen- sati da un toscano – affiorano costantemente due temi: la fede e la storia. La fede è arrivata nella vita di Jacopo, molto pro-
2 Vedi in part. M. Viroli, Come se Dio ci fosse. Religione e libertà nella storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2009. A parte il titolo francamente infelice (ma quan- do smetteremo di mimare quel grande intellettuale liberal-protestante che fu Ugo Grozio?), si tratta di un saggio pieno di idee che ci stimolano e ci costrin- gono a una risposta.
testanticamente, attraverso la predicazione: un sermone del pastore valdese Seiffredo Colucci casualmente (casualmente?) ascoltato nella chiesa metodista di Carrara3. Di questa chiesa Lombardini sarà membro per quasi vent’anni: «predicatore lo- cale», evangelizzatore instancabile, fratello sereno e disponibile, porterà con sé per tutta la vita la tipica spiritualità del Risveglio metodista: la meditazione, la preghiera, l’apertura indiscrimi- nata verso chiunque sia nel bisogno, l’attenzione costante ai problemi sociali.
La storia, in cui pure Jacopo fu sempre politicamente impe- gnato, gli arrivò invece dalla scoperta delle Valli valdesi. Tibaldo riporta due testi in cui Lombardini esprime il suo amore stu- pefatto per quelle Valli4. Idealizza un po’ quei tenaci montana- ri, ma nella sostanza non sbaglia: di lì effettivamente è passata molta storia della testimonianza evangelica in Italia e ha lasciato tracce indelebili. Quando scrive quelle righe commosse, Jacopo non sa che toccherà proprio a lui scrivere una nuova pagina di quella storia, e la scriverà con i suoi sermoni, con la sua cultura, e infine con il dono della sua vita: un dono sereno e generoso, com’era lui.
Un grosso merito di questo libro è che Tibaldo fa spesso parlare i testimoni oculari: valorosi partigiani che a diciott’an- ni proprio da Jacopo furono spinti alla militanza; compagni di sventura a Mauthausen; semplici conoscenti.
In qualche caso si tratta di documenti scritti dai protagonisti, ma in altri casi si tratta di apposite interviste: a dire il vero, esse sono i testi che leggiamo con maggiore emozione.
3 Seiffredo Colucci ha dialogato con Lombardini nei momenti cruciali della sua vita: la conversione e la Resistenza. Le testimonianze scritte del pastore Co- lucci sono di grande valore per una piena comprensione dell’animus di Jacopo.
4 Questo amore traspare anche in alcuni romanzi di Lombardini: soprat- tutto ne La croce ugonotta (Torre Pellice, 1943). Ma chi è stato suo allievo non dimenticherà mai il “tono” con cui Jacopo accompagnava gli studenti a visitare i «luoghi storici valdesi»: Pradeltorno, Chanforan, la Ghieisa d’la tana, la Gia- navella, Sibaud.
Il libro di Tibaldo ha però anche un altro versante: inqua- dra la vicenda di Lombardini nel contesto del valdismo «anni Trenta», esponendo ampiamente le tesi del Viallet5. Apparten- go al gruppo di responsabili che ha approvato la pubblicazione di questo libro, e non me ne pento. A distanza di 25 anni mi permetto tuttavia qualche nota marginale, che aggiungo alle ri- serve critiche espresse da Tibaldo: è vero, i valdesi (e gli altri evangelici) non sono stati proprio coraggiosi come gli amici di Daniele nella fornace ardente6, ma vivevano in un momento in cui autorevoli osservatori dichiaravano che quella fornace non era poi tanto calda, oppure la trovavano addirittura interessan- te: tali erano per esempio Bernard Shaw, secondo il quale «l’one- sta dittatura fascista è meglio dell’ipocrita democrazia inglese», ed Emmanuel Mounier che tornava entusiasta da un congresso di giovani fascisti tenuto a Roma. A questi sublimi ingegni mi permetto di contrapporre Enrico Tron, pastore di San Germano Chisone e membro della Tavola valdese: Pietro Arca “appunta- to” dei carabinieri, aveva l’incarico di chiacchierare spesso con il pastore per farlo “cantare”. Tron aveva infatti fama di antifasci- sta filoinglese e aveva tenuto ostinatamente chiusa la sua chie- sa il giorno della proclamazione dell’impero fascista (9 maggio 1936). In paese c’era però un’altra chiesa, che aveva accolto il corteo dei labari fascisti… sfavillante di luci. Ma il pastore non “cantò” e invece l’appuntato Arca sposò un’evangelica e divenne poi, con la sua famiglia, membro fedele della chiesa valdese di Ivrea. La storia, come la vita, è infatti piena di imprevisti che non è il caso di trascurare.
Condivido invece una tesi che Viallet riprende da Mastro- giovanni ed è l’aperto antifascismo del giovane teologo Vittorio Subilia: il suo coraggio è stato confermato da recenti pubblica-
5 J.P. VialleT, La chiesa valdese di fronte allo Stato fascista, Torino, Claudiana, 1985.
6 Daniele 3,1-30.
zioni7 e rimane un monito per noi che viviamo in tempi quasi egualmente difficili.
Quest’anno corre il centesimo anniversario della nascita di Subilia: quando ricorderemo la sua (fondamentale) attività di pastore e di teologo, cercheremo di ricordarci anche del suo co- raggio civile.
Ringraziamenti
Si ringraziano Giorgio Bouchard, Sergio Coalova, Donatella Gay Rochat e Giulio Giordano per i suggerimenti dati alla stesura del libro.
Per la documentazione iconografica il nostro ringraziamento va a Sergio Benecchio, Marcella Gay, Anna Pennisi della Biblioteca comu- nale di Carrara, e Letizia Tomassone, pastora della Chiesa evangelica di Carrara.
INDICE
Prefazione di Giorgio Bouchard 7
La pietra della miseria 17
Con Garibaldi e Mazzini 33
L’immensità della fede 51
Una fede concreta 61
Le Valli della libertà 83
La fragilità dell’anima 99
Uno sperone roccioso 115
La collina della morte 137
La memoria dei giusti 155
Bibliografia essenziale 175
Indice dei nomi 179
SCHEDA. Jacopo Lombardini (1892-1945)
Di Agenzia NEV
Lorenzo Tibaldo il viandante della liberta-
Jacopo Lombardini nasce il 13 dicembre 1892 a Gragnana, frazione di Carrara, e viene ucciso nel campo di concentramento di Mauthausen il 25 aprile 1945, in una camera a gas, insieme ad altri giovani deportati, partigiani ed ebrei.
Figlio di Francesco Lombardini e Assunta Mussetti, Jacopo cresce in una famiglia poverissima di cavatori di marmo. Finite le elementari, Lombardini vuole continuare gli studi, che poi è costretto a interrompere, riuscendo tuttavia a ottenere la licenza magistrale. Studia inoltre per alcuni anni alla Facoltà di teologia di Roma, che abbandona nel 1924.
Dotato di una memoria prodigiosa, Lombardini è il maestro per antonomasia. La sua passione di educatore lo accompagnerà sempre, insieme alla sua straordinaria preparazione letteraria e storica. Il suo primo volume in rime esce quando Lombardini ha 16 anni, è quindi letterato, poeta, predicatore, scrittore. Scrive Giorgio Bouchard nella prefazione alla biografia “Il viandante della libertà“, curata da Lorenzo Tibaldo per Claudiana: “In questi libri, articoli, sermoni – visibilmente scritti e pensati da un toscano – affiorano costantemente due temi: la fede e la storia”.
La fede, anzi la “conversione” come da lui stesso definita, è arrivata nella vita di Lombardini con un sermone ascoltato nella chiesa metodista di Carrara. Di questa chiesa Lombardini sarà membro per quasi vent’anni. Il sermone è del pastore valdese Seiffredo Colucci, che quel giorno sostituisce il pastore titolare.
Del metodismo, prosegue Bouchard, il Lombardini “predicatore locale, evangelizzatore instancabile, fratello sereno e disponibile, porterà con sé per tutta la vita la tipica spiritualità del Risveglio metodista: la meditazione, la preghiera, l’apertura indiscriminata verso chiunque sia nel bisogno, l’attenzione costante ai problemi sociali. La storia, in cui pure Jacopo fu sempre politicamente impegnato, gli arrivò invece dalla scoperta delle Valli valdesi”.
La sua figura “rimane nel nostro cuore – come in quello di centinaia di partigiani, lavoratori, di studenti – come la parabola di una dialettica coniugazione tra fede evangelica e responsabilità politica, tra pietà e razionalità, tra fragilità dell’uomo e forza delle idee, tra sconfitta personale ed efficacia storica, in una parola: una vita vissuta unicamente per grazia, la vita di un discepolo di Gesù Cristo” scrive, sempre Bouchard, nella prefazione al volume “Un protestante nella resistenza: Jacopo Lombardini” di Salvatore Mastrogiovanni (Claudiana). In questo libro, ormai fuori catalogo, sono raccolte anche le trascrizioni di parti dei “Quaderni” di Lombardini. Tre “diari”, uno probabilmente affidato al defunto professore Samuele Tron, pubblicato dopo la guerra. Il secondo, rimasto sepolto sotto terra per molti mesi, poi restaurato dalla Biblioteca nazionale di Torino. Il terzo trovato addosso a Lombardini il giorno della cattura, usato dai suoi aguzzini per gli interrogatori e poi ritrovato a Pinerolo dai partigiani della divisione Val Chisone dopo la Liberazione. I Quaderni presentano e raccontano la Banda partigiana, gli aforismi, le storie, gli attacchi, le spedizioni, i bombardamenti, i compagni e le compagne di lotta.
9 aprile 1928, Bocca di Magra. Jacopo Lombardini fra i soci dell’Associazione Cristiana dei Giovani (ACDG), il corrispettivo italiano della Young Men’s Christian Association (YMCA). Immagine tratta dal libro “Un protestante nella resistenza: Jacopo Lombardini” di Salvatore Mastrogiovanni (Ed. Claudiana).
Nel 1915 Lombardini si iscrive al Partito repubblicano. Mazziniano convinto (in casa si affianca la croce al ritratto di Mazzini), scoppiata la Prima guerra mondiale, Lombardini inizialmente si dichiara interventista. Pronto ad affrontare anche la morte, viene riformato più volte e poi arruolato in fanteria. A giugno 1918, in virtù delle sue doti intellettuali, viene nominato propagandista e trattenuto al comando, praticamente senza mai entrare in trincea. A seguito della morte improvvisa del padre, rientra a Carrara poco prima della fine della guerra. Gli anni ’20 sono per Lombardini gli anni della conversione, ma anche quelli in cui il fascismo lo estromette dall’insegnamento per via delle sue opinioni politiche. Nel 1940 si trasferisce a Torino, diventa membro della Chiesa valdese e viene assunto come maestro nel Convitto valdese. Nel 1943 aderisce al Partito d’Azione e si unisce poi alla lotta partigiana. Partigiano disarmato, con il nome in codice di “Professore”, la sua lotta di Resistenza si esprime come commissario politico, continuando sia la predicazione evangelica sia la contro-informazione antifascista. Viene catturato nel rastrellamento del 24 marzo 1944 in Val Germanasca, dalle SS tedesche e da fascisti italiani. Lombardini è brutalmente torturato insieme a Giancarlo Levi, Emanuele Artom, Silvio Rivoir, Mariano Palmery e altri. Da Bobbio Pellice viene trasferito al carcere di Torino, poi a Fossoli, a Bolzano e il 5 agosto viene deportato al Campo di concentramento di Mauthausen, dove sopravvive per diversi mesi. Viene ucciso il 25 aprile 1945, proprio nel giorno della Liberazione.
Nel dopoguerra viene conferita la Medaglia d’argento alla memoria di Jacopo Lombardini, “Uomo di cultura e patriota di sicura fede fu, subito dopo l’armistizio, animatore infaticabile della lotta di liberazione in Val Pellice e in Val Germanasca, conosciuto ed amato dai giovani che andava ammaestrando nella fede alla Libertà ed alla Patria. Caduto in mani tedesche nel corso di un duro rastrellamento e crudelmente seviziato, manteneva contegno elevato ed esemplare affrontando sempre con cristiana serenità il duro calvario dei campi di concentramento. Barbaramente suppliziato chiudeva l’esistenza nel servizio dei più nobili ideali.”
Il 21 aprile 2023, su iniziativa di una classe del Liceo valdese di Torre Pellice e in collaborazione con altre realtà e istituzioni, viene scoperta una pietra d’inciampo in sua memoria.
A Lombardini sono state intitolate, fra l’altro, una scuola e il Centro Jacopo Lombardini di Cinisello Balsamo, prima “comune“, poi centro promotore di attività educative, culturali e di integrazione.
Quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31
La sera del 14 maggio 1931 a Bologna è in programma al Teatro Comunale un concerto, diretto da Arturo Toscanini, in memoria di Giuseppe Martucci, direttore emerito dell’orchestra bolognese alla fine dell’800.
Lo schiaffo a Toscanini Bologna
Il maestro si rifiuta di dirigere l’inno fascista Giovinezza e l’Inno reale al cospetto del ministro Ciano e di Arpinati. Viene aggredito e schiaffeggiato da alcune camicie nere presso un ingresso laterale del teatro. Tra gli squadristi c’è il giovane Leo Longanesi (secondo I. Montanelli, ma per altri questa è “una leggenda senza conferma”).
Rinunciando al concerto, Toscanini si rifugia all’hotel Brun. Il Federale Mario Ghinelli, con un seguito di facinorosi, lo raggiunge all’albergo e gli intima di lasciare subito la città, se vuole garantita l’incolumità.
Il compositore Ottorino Respighi, media con i gerarchi e ottiene di accompagnare il direttore al treno la sera stessa.
Il 19 maggio l’assemblea regionale dei professionisti e artisti deplorerà “il contegno assurdo e antipatriottico” del maestro parmigiano. Sull’ “Assalto” Longanesi scriverà: “Ogni protesta, da quella del primo violino a quella del suonatore di piatti, ci lascia indifferenti”.
Toscanini dal canto suo scriverà una feroce lettera a Mussolini, già suo compagno di lista a Milano nelle elezioni politiche del 1919. Dal “fattaccio” di Bologna maturerà la sua decisione di lasciare l’Italia, dove tornerà a dirigere solo nel dopoguerra.
Il concerto in onore di Martucci sarà rifatto al Comunale sessanta anni dopo, il 14 maggio 1991, sotto la direzione di Riccardo Chailly.
Approfondimenti
TOSCANINI, LA VERITA’ SUL FAMOSO SCHIAFFO -Archivio “la Repubblica”
BOLOGNA Due giorni di relazioni e concerti hanno infine riparato, a sessant’ anni dagli eventi, a quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31, ad opera di squadristi, per essersi rifiutato di dirigere al Teatro Comunale gli inni nazionali. Ch’ erano allora Giovinezza e Marcia Reale. Nel gesto riparatore si sono unite le due città di Bologna e di Parma. La prima ha ospitato martedì il convegno internazionale dedicato a Bologna per Toscanini, la seconda, nella giornata di ieri, una tavola rotonda. Entrambe, nei teatri Comunale e Regio, hanno ospitato il concerto che, diretto da Riccardo Chailly, ha visto Raina Kabaivanska e l’ Orchestra dell’ ente lirico bolognese interpretare quelle pagine di Giuseppe Martucci che Toscanini non poté eseguire. Punto di partenza dell’ indagine di storici e musicologi, alla quale si sono aggiunte le testimonianze di Walfredo Toscanini e Gottfried Wagner, è stato dunque l’ offesa al maestro. Luciano Bergonzini, che alla ricostruzione di quell’ ingiuria ha dedicato un saggio, pubblicato in questi giorni dal Mulino (Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’ inizio degli anni Trenta), ha esposto la sua tesi, che è sostanzialmente nuova. In sintesi, non furono i gerarchi del regime, primi fra tutti Leandro Arpinati, all’ epoca vicinissimo a Mussolini, e Mario Ghinelli, federale a Bologna, i promotori dell’ azione. Arpinati, piuttosto, tentò fino all’ ultimo di giungere ad una soluzione che sventasse lo scontro diretto, a un compromesso che permettesse il regolare svolgimento del concerto in memoria di Giuseppe Martucci, ben sapendo che Toscanini non avrebbe mai eseguito né la Marcia Reale, né Giovinezza, come prevedeva il protocollo. Di fatto, egli prese la decisione più semplice: Costanzo Ciano e lui non si sarebbero recati al Teatro Comunale. La serata avrebbe perso così il carattere ufficiale, liberando Toscanini da ogni obbligo. Inoltre, nonostante non sia tutt’ oggi facile giungere ad una conclusione definitiva sull’ argomento, tra gli aggressori non ci furono personalità di spicco del fascismo bolognese. Non c’ era certamente Ghinelli; assente probabilmente pure Leo Longanesi, che pure in seguito si sarebbe vantato d’ esser stato lui a colpire il musicista. Il suo ruolo, sempre secondo Bergonzini, sarebbe stato soltanto quello dell’ ispiratore attraverso articoli di giornale e discorsi. Rimane, invece, il sospetto che tutto abbia avuto origine all’ interno delle faide che andavano dividendo le gerarchie fasciste, e delle quali del resto sarà vittima lo stesso Arpinati. Se la proposta dello studioso bolognese fosse la ricostruzione più verosimile, allora lo schiaffo, la progettazione e l’ esecuzione dell’ aggressione sarebbero nate proprio da quel consenso al regime, che aveva trovato fertile terreno non solo nelle classi medie, ma anche in quelle subalterne urbane. Toscanini sarebbe loro apparso un vessillo da abbattere, incuranti di quanto si andava decidendo nelle sfere alte del regime. Constatazione questa che riaprirebbe una querelle mai risolta: quella del ruolo degli intellettuali, da un lato, e del sostegno che il fascismo seppe trovare, se pur distribuito in maniera disomogenea, nei più diversi strati della società italiana. Sul versante opposto, giustamente l’ accento è stato spostato dall’ offesa in sé, atto sempre vile, al gesto di Toscanini, a quel rifiuto del direttore d’ orchesta che costituisce, come ha sottolineato Harvey Sachs nel suo intervento conclusivo, un esempio raro, certamente poco imitato in quegli anni, di coraggio. Umanità della musica, definizione questa con la quale Sachs bene ha riassunto la forte componente etica dell’ arte toscaniniana, una componente che coniugava esigenze artistiche e convinzioni morali. Infine, l’ attenzione è tornata a volgersi alle pagine di Giuseppe Martucci, interpretate a Bologna e a Parma da Riccardo Chailly, sul podio dell’ Orchestra del Teatro Comunale, affidate alla voce di Raina Kabaivanska, La canzone dei ricordi. Pagine di un sinfonismo italiano ormai obliato che, Fiamma Nicolodi lo ha evidenziato tratteggiando l’ itinerario musicale del compositore, avvicina la tradizione tedesca romantica e tardo-romantica a quella francese, a Saint-Saens e a Franck. Difficile valutarne gli esiti. Nel ricostruire la storia dell’ Italia musicale non se ne può prescindere, però, giocando Martucci, e con lui gli Sgambati, i Mancinelli, i Bossi, un ruolo tutt’ altro che secondario.
Luciano Bergonzini, Bologna 14 maggio 1931: l’offesa al Maestro, in Toscanini. Atti del Convegno Bologna per Toscanini, 14 maggio 1991, a cura di L. Bergonzini, Bologna, CLUEB, 1992, p. 13 sgg.
Luciano Bergonzini, Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’inizio degli anni Trenta, Bologna, Il mulino, 1991
Dino Biondi, Il Resto del Carlino 1885-1985. Un giornale nella storia d’Italia, Bologna, Poligrafici Editoriale, 1985, p. 224
Bologna Caput Mundi. I grandi e la città da Dante ai giorni nostri, Bologna, L’inchiostroblu, stampa 2011, pp. 196-199
Pietrangelo Buttafuoco, Il Longanesi animato. Lacerti di un’Odissea borghese, in: Il mio Leo Longanesi, a cura di P. Buttafuoco, Milano, Longanesi, 2016, p. 24
Tiziano Costa, Bologna ‘900. Vita di un secolo, 2. ed., Bologna, Costa, 2008, pp. 104-105
Davide Daghia, Bologna insolita e segreta, Versailles, Jonglez, 2017, p. 229
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Viene considerato uno dei maggiori direttori d’orchestra di sempre, per l’omogeneità e la brillante intensità del suono, la grande cura dei dettagli, il perfezionismo e l’abitudine di dirigere senza partitura grazie a un’eccezionale memoria fotografica.[1][2] Viene ritenuto in particolare uno dei più autorevoli interpreti di Verdi, Beethoven, Brahms e Wagner.
Fu uno dei più acclamati musicisti della fine del XIX e della prima metà del XX secolo, acquisendo fama internazionale anche grazie alle trasmissioni radiofoniche e televisive e alle numerose incisioni come direttore musicale della NBC Symphony Orchestra. Refrattario in vita all’idea di ricevere premi e decorazioni di sorta (tanto da rifiutare la nomina a senatore a vita propostagli da Luigi Einaudi, vd. infra), a trent’anni dalla morte fu insignito del Grammy Lifetime Achievement Award.
Arturo Toscanini nacque a Parma, nel quartiereOltretorrente, il 25 marzo del 1867, figlio del sarto e garibaldinoClaudio Toscanini, originario di Cortemaggiore (in provincia di Piacenza), e della sarta parmense Paola Montani; il padre era un grande appassionato di arie d’opera, che intonava in casa con amici dopo averle apprese al Teatro Regio, che frequentava spesso da spettatore. Questa passione contagiò anche il piccolo Arturo; del suo talento si accorse non il padre, ma una delle sue maestre, una certa signora Vernoni, che, notando che memorizzava le poesie dopo una singola lettura senza mai più dimenticarle, gli diede gratuitamente le prime lezioni di solfeggio e pianoforte. Arturo dimostrò nuovamente memoria eccezionale, riuscendo a riprodurre al pianoforte musiche che aveva sentito anche soltanto canticchiare; la maestra Vernoni suggerì ai genitori l’iscrizione del figlio alla Regia Scuola di Musica, il futuro conservatorio di Parma.[2][4][5]
A nove anni Arturo Toscanini vi si iscrisse vincendo una borsa di studio non nell’adorato pianoforte, bensì in violoncello (divenendo allievo di Leandro Carini) e composizione (allievo di Giusto Dacci). Nel 1880, studente tredicenne, gli venne concesso per un anno di essere violoncellista nell’orchestra del Teatro Regio. Si diplomò nel 1885 con lode distinta e premio di 137,50 lire.[4][6][7][8][9][10]
Nel 1886 si unì come violoncellista e secondo maestro del coro a una compagnia operistica per una tournée in Sudamerica. In Brasile il direttore d’orchestra, il locale Leopoldo Miguez, in aperto contrasto con gli orchestrali abbandonò la compagnia dopo una sola opera (il Faust di Charles Gounod), con una dichiarazione pubblica ai giornali (che avevano criticato la sua direzione) nella quale imputava tutto al comportamento degli orchestrali italiani. Il 30 giugno 1886 la compagnia doveva rappresentare al Teatro Lirico di Rio de Janeiro l’Aida di Giuseppe Verdi con un direttore sostituto, il piacentinoCarlo Superti; Superti fu però pesantemente contestato dal pubblico e non riuscì neanche a dare l’attacco all’orchestra. Nel caos più totale Toscanini, incitato da alcuni colleghi strumentisti per la sua grande conoscenza dell’opera, prese la bacchetta, chiuse la partitura e incominciò a dirigere l’orchestra a memoria. Ottenne un grandissimo successo, iniziando così la carriera di direttore a soli 19 anni, continuando a dirigere nella tournée. Al ritorno in Italia, su consiglio e mediazione del tenore russo Nikolaj Figner, si presentò a Milano dall’editrice musicale Giovannina Strazza, vedova di Francesco Lucca, e venne scelto da Alfredo Catalani in persona per la direzione al Teatro Carignano di Torino per la sua opera Edmea, andata in scena il 4 novembre dello stesso 1886, ottenendo un trionfo e critiche entusiaste.[2][5][6][11]
Successivamente riprese per un breve periodo la carriera di violoncellista; fu secondo violoncello alla prima di Otello, diretta al Teatro alla Scala da Franco Faccio il 5 febbraio 1887, e per l’occasione ebbe modo di entrare in contatto con Giuseppe Verdi.[2][12][13]
Arturo Toscanini
Nel frattempo, prima di intraprendere a pieno ritmo la carriera di direttore d’orchestra, tra il 1884 e il 1888 Toscanini si era dedicato alla composizione di alcune liriche per voce e pianoforte. Si ricordano Spes ultima dea, Son gelosa, Fior di siepe, Desolazione, Nevrosi, Canto di Mignon, Autunno, V’amo, Berceuse per pianoforte.
Nel 1895, nel nome di Wagner, avvenne l’esordio da direttore al Teatro Regio di Torino, con il quale collaborò fino al 1898 e di cui, il 26 dicembre 1905, inaugurò la nuova sala con Sigfrido. Nel giugno 1898 iniziò a dirigere al Teatro alla Scala (fino al 1903 e nel 1906/1907), con il duca Guido Visconti di Modrone come direttore stabile, il librettista e compositore Arrigo Boito vice-direttore e Giulio Gatti Casazza amministratore. Toscanini divenne il direttore artistico del teatro milanese e, sulla scia delle innovazioni portate dal suo idolo Richard Wagner, si adoperò per riformare il modo di rappresentare l’opera, ottenendo nel 1901 quello che ai tempi era il sistema di illuminazione scenica più moderno e nel 1907 la fossa per l’orchestra;[15] pretese inoltre che le luci in sala venissero spente e che le signore togliessero i cappelli durante la rappresentazione, proibì l’ingresso agli spettatori ritardatari e rifiutò di concedere i bis; ciò creò non poco scompiglio, dato che i più consideravano il teatro d’opera anche come un luogo di ritrovo, per chiacchiere e far mostra di sé.[2][7] Come scrisse il suo biografo Harvey Sachs, “egli credeva che una rappresentazione non potesse essere artisticamente riuscita finché non si fosse stabilita un’unità di intenti tra tutti i componenti: cantanti, orchestra, coro, messa in scena, ambientazione e costumi”. Il 26 febbraio 1901, in occasione della traslazione delle salme di Giuseppe Verdi e di Giuseppina Strepponi dal Cimitero Monumentale di Milano a Casa Verdi, diresse 120 strumentisti e circa 900 voci nel Va, pensiero che non veniva eseguito alla Scala da vent’anni. Nel 1908 si dimise dalla Scala e dal 7 febbraio fu invitato a dirigere presso il teatro Metropolitan di New York, venendo molto contestato per la sua decisione di abbandonare l’Italia. Proprio durante tale esperienza Toscanini comincerà a considerare gli Stati Uniti d’America come la sua seconda patria.[7]
Schierato per l’interventismo, rientrò in patria nel 1915, all’ingresso dell’Italia in guerra, e si esibì esclusivamente in concerti di propaganda e beneficenza; dal 25 al 29 agosto 1917, per allietare gli animi dei combattenti, diresse una banda sul Monte Santo appena conquistato durante la battaglia dell’Isonzo; per tale atto venne decorato con una Medaglia d’argento al valor civile[16]. Subito dopo la fine della guerra, nel giro di pochissimi anni s’impegnò nella riorganizzazione dell’orchestra scaligera (con la quale era tornato a collaborare), che trasformò in ente autonomo.
Ancora per spirito patriottico, nel 1920 si recò a Fiume per dirigere un concerto e incontrare l’amico Gabriele D’Annunzio, che con i suoi legionari aveva occupato la città contesa dagli slavi e dal governo italiano[17].
Di idee socialiste, dopo un’iniziale condivisione del programma fascista, che lo aveva portato nel novembre 1919 a candidarsi alle elezioni politiche nel collegio di Milano nella lista dei fasci di combattimento con Benito Mussolini e Filippo Tommaso Marinetti senza venire eletto,[20] se ne allontanò a causa del progressivo spostamento verso l’estrema destra di Mussolini, divenendone un forte oppositore già da prima della marcia su Roma. Voce fermamente critica e stonata nella cultura omologata al regime, riuscì, grazie all’enorme prestigio internazionale, a mantenere l’Orchestra del Teatro alla Scala sostanzialmente autonoma nel periodo 1921-1929; al riguardo annunciò anche che si sarebbe rifiutato di dirigere la prima di Turandot dell’amico Giacomo Puccini se Mussolini fosse stato presente in sala (che invece poi diresse, in quanto il duce non si recò alla rappresentazione).
Per questi atteggiamenti di aperta ostilità al regime subì una campagna di stampa avversa sul piano artistico e personale, mentre le autorità disposero provvedimenti, come lo spionaggio su telefonate e corrispondenza e il ritiro temporaneo del passaporto a lui e famiglia; tutto ciò contribuì a mettere in pericolo la sua carriera e la sua stessa incolumità, come accadrà a Bologna.[21]
Il 14 maggio 1931, infatti, trovandosi nella città felsinea per dirigere al Teatro Comunale un concerto della locale orchestra in commemorazione di Giuseppe Martucci, Toscanini si rifiutò in partenza di far eseguire come introduzione gli inniGiovinezza e Marcia Reale al cospetto di Leandro Arpinati, Costanzo Ciano e vari altri gerarchi. Dopo lunghe negoziazioni, che il Maestro non volle accettare, si arrivò alla defezione di Arpinati e Ciano, alla perdita di ufficialità del concerto e, di conseguenza, alla non necessità di esecuzione degli inni. Toscanini, al suo arrivo in auto al teatro in compagnia della figlia Wally, in ritardo a causa delle negoziazioni, appena sceso, fu assalito da un folto gruppo di fascisti, venendo schiaffeggiato sulla guancia sinistra, si presume dalla camicia nera Guglielmo Montani, e colpito da una serie di pugni a viso e collo; fu messo in salvo dal suo autista, che lo spinse in macchina, affrontò brevemente gli aggressori e poi ripartì. Il gruppo di fascisti giunse poi all’albergo dove era alloggiato il Maestro e gli intimò di andarsene immediatamente; verso le ore 2 della notte, dopo aver dettato un durissimo telegramma di protesta a Mussolini in persona in cui denunciava di essere stato aggredito da “una masnada inqualificabile” (telegramma che non avrà risposta), avendo persino rifiutato di farsi visitare da un medico, partì in auto da Bologna diretto a Milano, mentre gli organi fascisti si preoccupavano che la stampa, sia italiana sia estera, non informasse dell’accaduto. Da quel momento Toscanini visse principalmente a New York; per qualche anno tornò regolarmente a dirigere in Europa, ma non in Italia, dove tornò in maniera saltuaria solamente dopo la seconda guerra mondiale, a seguito del ripristino di un governo democratico. Nondimeno, i dischi da lui incisi con orchestre statunitensi e inglesi per la casa discografica La voce del padrone non furono sottoposti a censura da parte del regime di Mussolini e rimasero regolarmente in catalogo fino al 1942 e oltre. [21][22][23][24][25]
Arturo Toscanini
Nel 1933 infranse i rapporti anche con la Germania nazista, rispondendo con un rifiuto duro e diretto a un invito personale di Adolf Hitler a quello che sarebbe stato il suo terzo Festival di Bayreuth.[26] Le sue idee avverse al nazismo e all’antisemitismo che esso perseguiva lo portarono fino in Palestina, dove il 26 dicembre 1936 fu chiamato a Tel Aviv per il concerto inaugurale dell’Orchestra Filarmonica di Palestina (ora Orchestra Filarmonica d’Israele), destinata ad accogliere e a dare lavoro ai musicisti ebrei europei in fuga dal nazismo, che diresse gratuitamente.[27] Nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania, abbandonò anche il Festival di Salisburgo, nonostante fosse stato caldamente invitato a rimanere. Nello stesso anno inaugurò il Festival di Lucerna (per l’occasione molti, soprattutto antifascisti, vi andarono dall’Italia per seguire i suoi concerti); inoltre, quando anche il governo italiano, in linea con l’alleato tedesco, adottò una politica antisemita promulgando le leggi razziali del 1938, Toscanini fece infuriare ulteriormente Mussolini definendo tali provvedimenti, in un’intercettazione telefonica che gli causò un nuovo temporaneo ritiro del passaporto, “roba da Medioevo“. Ribadì inoltre in una lettera all’amante, la pianistaAda Colleoni: “maledetti siano l’asse Roma-Berlino e la pestilenziale atmosfera mussoliniana”.[21][28]
L’anno successivo, anche a seguito della sempre più dilagante persecuzione razziale, abbandonò totalmente l’Europa, spostandosi negli Stati Uniti d’America.
Dagli States continuò a servirsi della musica per lottare contro il fascismo e il nazismo e si adoperò per cercare casa e lavoro a ebrei, politici e oppositori perseguitati e fuoriusciti dai regimi;[27] l’Università di Georgetown, a Washington, gli conferì una laurea honoris causa. Per lui, inoltre, nel 1937 era stata appositamente creata la NBC Symphony Orchestra, formata da alcuni fra i migliori strumentisti presenti negli Stati Uniti, che diresse regolarmente fino al 1954 su radio e televisioni nazionali, divenendo il primo direttore d’orchestra ad assurgere al ruolo di stella dei mass media.
«(…) sento la necessità di dirle quanto l’ammiri e la onori. Lei non è soltanto un impareggiabile interprete della letteratura musicale mondiale (…). Anche nella lotta contro i criminali fascisti lei ha mostrato di essere un uomo di grandissima dignità. Sento pure la più profonda gratitudine per quanto avete fatto sperare con la vostra opera di promozione di valori, inestimabile, per la nuova Orchestra di Palestina di prossima costituzione. Il fatto che esista un simile uomo nel mio tempo compensa molte delle delusioni che si è continuamente costretti a subire”[29]»
Durante la seconda guerra mondiale diresse esclusivamente concerti di beneficenza a favore delle forze armate statunitensi e della Croce Rossa, riuscendo a raccogliere ingenti somme di denaro. Si adoperò anche per la realizzazione di un filmato propagandistico nel quale dirigeva due composizioni di Giuseppe Verdi dall’alto valore simbolico: l’ouverture della Forza del destino e l’Inno delle Nazioni, da lui modificato variando in chiave antifascista l’Inno di Garibaldi e inserendovi l’inno nazionale statunitense e L’Internazionale. Nel 1943 il Teatro alla Scala, sui cui muri esterni erano state scritte frasi come “Lunga vita a Toscanini” e “Ritorni Toscanini“, venne parzialmente distrutto durante un violento bombardamento da parte di aereialleati; la ricostruzione avvenne in tempi rapidi, grazie anche alle notevoli donazioni versate dal Maestro.
Il 13 settembre 1943 la rivista statunitense Life pubblicò un lungo articolo di Arturo Toscanini dal titolo Appello al Popolo d’America. L’articolo era in precedenza un’accorata lettera privata di Toscanini al presidente americanoFranklin Delano Roosevelt.
«Le assicuro, caro presidente, – scrive Toscanini – che persevero nella causa della libertà la cosa più bella cui aspira l’umanità (…) chiediamo agli Alleati di consentire ai nostri volontari di combattere contro gli odiati nazisti sotto la bandiera italiana e in condizioni sostanzialmente simili a quelle dei Free French. Solo in questo modo noi italiani possiamo concepire la resa incondizionata delle nostre forze armate senza ledere il nostro senso dell’onore. (…)»
Toscanini non aveva in simpatia la posizione ambivalente di Richard Strauss durante la seconda guerra mondiale e dichiarò al riguardo: “Di fronte allo Strauss compositore mi tolgo il cappello; di fronte all’uomo Strauss lo reindosso”.[30]
Il ritorno
Arturo Toscanini
L’11 maggio 1946 il settantanovenne Toscanini ritornò in Italia, per la prima volta dopo quindici anni, per dirigere lo storico concerto di riapertura del Teatro alla Scala, ricordato come il concerto della liberazione, dedicato in gran parte all’opera italiana, e probabilmente per votare a favore della Repubblica. Quella sera il teatro si riempì fino all’impossibile: il programma vide l’ouverture de La gazza ladra di Rossini, il coro dell’Imeneo di Händel, il Pas de six e la Marcia dei Soldati dal Guglielmo Tell e la preghiera dal Mosè in Egitto di Rossini, l’ouverture e il coro degli ebrei del Nabucco, l’ouverture de I vespri siciliani e il Te Deum di Verdi, l’intermezzo e alcuni estratti dall’atto III di Manon Lescaut di Puccini, il prologo e alcune arie dal Mefistofele di Boito. In quell’occasione esordì alla Scala il soprano Renata Tebaldi, definita da Toscanini “voce d’angelo”.
Alla Scala fu direttore di altri tre spettacoli: il concerto commemorativo di Arrigo Boito, comprendente la Nona sinfonia di Beethoven, nel 1948, la Messa di requiem di Verdi nel 1950 ed infine un concerto dedicato a Wagner nel settembre 1952.
Il 5 dicembre 1949 venne nominato senatore a vita dal Presidente della RepubblicaLuigi Einaudi per alti meriti artistici, ma decise di rinunciare alla carica il giorno successivo, inviando da New York il seguente telegramma di rinuncia:
«È un vecchio artista italiano, turbatissimo dal suo inaspettato telegramma che si rivolge a Lei e la prega di comprendere come questa annunciata nomina a senatore a vita sia in profondo contrasto con il suo sentire e come egli sia costretto con grande rammarico a rifiutare questo onore. Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa. Grato e lieto della riconoscenza espressami a nome del mio paese pronto a servirlo ancora qualunque sia l’evenienza, la prego di non voler interpretare questo mio desiderio come atto scortese o superbo, ma bensì nello spirito di semplicità e modestia che lo ispira… accolga il mio deferente saluto e rispettoso omaggio.»
Addio alle scene e morte
Toscanini si ritirò a 87 anni, ponendo fine a una straordinaria carriera duratane 68;[4] rese tuttavia nota la sua volontà di lasciare il podio solo a familiari e amici, volendo evitare di ricevere eccessive celebrazioni pubbliche.[31]
Per il suo ultimo concerto, interamente dedicato a Wagner, compositore sempre molto amato, diresse la NBC Symphony Orchestra il 4 aprile 1954 alla Carnegie Hall di New York, in diretta radiofonica. Proprio in occasione di quell’ultima esibizione il Maestro, celebre anche, come già accennato, per la sua straordinaria memoria ed il suo perfezionismo maniacale (caratteristiche che, insieme al suo carattere irascibile ed impulsivo, lo portavano regolarmente ad infuriarsi quando l’esecuzione non risultava esattamente come lui voleva), mentre dirigeva il brano dell’opera Tannhäuser, per la prima volta perse la concentrazione e smise di battere il tempo.
Ritratto di Arturo Toscanini, direttore d’orchestra (1867-1957). Foto di Leone Ricci, Milano.
Toscanini rimase immobile per ben 14 secondi ed i tecnici radiofonici fecero immediatamente scattare un dispositivo di sicurezza che trasmise musica di Brahms[31], una reazione a posteriori giudicata eccessiva e forse dettata dal panico, laddove l’orchestra in realtà non aveva mai smesso di suonare. Il Maestro si ricompose e riprese a dirigere normalmente fino alla fine del concerto, dopodiché si ritirò rapidamente nel proprio camerino, mentre in teatro gli applausi sembravano non smettere più.[32]
Nel dicembre del 1956, debilitato da problemi di salute legati all’età, espresse il desiderio di trascorrere il Capodanno con tutta la famiglia. Il figlio Walter organizzò quindi una grande festa a New York con figli, nipoti, vari parenti e amici; a mezzanotte il Maestro, insolitamente allegro ed energico, volle abbracciare tutti uno per uno, poi intorno alle due andò a letto. Al mattino di Capodanno del 1957, alzatosi attorno alle 7, si recò in bagno e quando ne uscì stramazzò al suolo, colpito da una trombosi cerebrale.[31]
Toscanini rimase in agonia per 16 giorni e morì alle soglie dei 90 anni, nella sua casa newyorkese di Riverdale, il 16 gennaio 1957; la salma ritornò il giorno dopo in Italia con un volo diretto all’Aeroporto di Ciampino, a Roma, e venne accolta all’arrivo da una folla di persone. Da lì fu traslata a Milano: la camera ardente e il funerale furono allestiti presso il Teatro alla Scala e la gente salì anche sui tetti degli edifici circostanti per poter vedere qualcosa.
Composto da una marea di persone, il corteo funebre si avviò verso il Cimitero Monumentale di Milano, dove il Maestro venne tumulato nell’Edicola 184 del Riparto VII, la tomba di famiglia precedentemente edificata alla morte del figlioletto Giorgio dall’architetto Mario Labò e dallo scultore Leonardo Bistolfi, con tematiche rappresentanti l’infanzia e il viaggio per mare (Giorgio era morto di una difterite fulminante a Buenos Aires mentre seguiva il padre in tournée ed era ritornato a Milano defunto in nave).[33][34][35][36][37] Nella stessa cappella hanno ricevuto sepoltura il padre del Maestro, Claudio, la sorella Zina, gli altri tre figli del Maestro (Walter, Wanda, Wally), la moglie Carla, l’insigne pianista Vladimir Horowitz (1903-1989), marito di Wanda, la loro figlia Sophie Horowitz (1934-1975), la ballerina Cia Fornaroli (1888-1954), moglie del figlio Walter, e il nipote Walfredo Toscanini (1929-2011), figlio di Walter e della Fornaroli e ultimo discendente diretto maschio del Maestro.
Il nome di Arturo Toscanini si è successivamente meritato l’iscrizione al Famedio del medesimo cimitero.[38]
Vita privata
Arturo era il primogenito e dopo di lui i genitori ebbero tre figlie: Narcisa (1868-1878), Ada (1875-1955) e Zina (1877-1900).[39][40]
Arturo Toscanini con la figlia Wally, 1955
Toscanini sposò la milanese Carla De Martini (nata nel 1877) a Conegliano il 21 giugno 1897; la moglie diverrà sua manager.[2][31] Ebbero quattro figli: Walter, nato il 19 marzo 1898 e morto il 30 luglio 1971, storico e studioso del balletto, che sposò la celebre prima ballerinaCia Fornaroli;[41][42] Wally, nata il 16 gennaio del 1900, chiamata come la protagonista dell’ultima opera dell’amico scomparso Alfredo Catalani, La Wally[43], nel corso della seconda guerra mondiale elemento importante della Resistenza italiana e successivamente fondatrice di un’associazione per la ricostruzione del Teatro alla Scala distrutto dai bombardamenti alleati, nonché moglie del conte Emanuele di Castelbarco e celebre animatrice del jet set internazionale,[43][44][45] morta l’8 maggio 1991; il predetto Giorgio, nato nel settembre 1901 e morto di difterite il 10 giugno 1906; Wanda Giorgina, nata il 7 dicembre del 1907, diventata celebre per avere sposato il pianistarusso e amico di famiglia Vladimir Horowitz, morta il 21 agosto 1998.[31][37][46][47]
Il 23 giugno 1951 la moglie morì a Milano e Toscanini rimase vedovo.[48]
Toscanini ebbe varie relazioni extraconiugali, ad esempio con il soprano Rosina Storchio, dalla quale nel 1903 ebbe il figlio Giovanni Storchio, nato cerebroleso e morto sedicenne il 22 marzo 1919,[49][50] e con il soprano Geraldine Farrar, che avrebbe voluto imporgli di lasciare moglie e figli per sposarla; il Maestro non gradì l’ultimatum e, per tale motivo, nel 1915 si dimise da direttore d’orchestra principale del Metropolitan e ritornò in Italia. Ebbe anche una relazione durata sette anni (dal 1933 al 1940) con la pianista Ada Colleoni, amica delle figlie e divenuta moglie del violoncellista Enrico Mainardi; tra i due, nonostante vi fossero trent’anni di differenza, nacque un profondo legame, come risulta da una raccolta di circa 600 lettere e 300 telegrammi che il Maestro le inviò.[51][52][53]
Era un appassionato intenditore e collezionista d’arte, nonché conoscente o amico di molti pittori; secondo il nipote Walfredo, la sua collezione nella casa milanese di via Durini arrivava a contare fino a 200 quadri[31].
Critica
Toscanini fu pressoché idolatrato dalla critica finché fu in vita; la RCA Victor, che l’aveva sotto contratto, non si faceva problemi a definirlo il miglior direttore d’orchestra mai esistito. Tra i suoi sostenitori non vi erano solo i critici musicali, ma anche musicisti e compositori: un parere d’eccezione viene da Aaron Copland.[54]
Tra le critiche che gli furono mosse spicca quella “revisionista”, secondo la quale l’impatto di Toscanini sulla musica americana è da giudicare in definitiva più negativo che positivo, poiché il Maestro prediligeva la musica classica europea a quella a lui contemporanea. Tale bacchettata venne dal compositore Virgil Thomson, il quale deprecò la poca attenzione di Toscanini per la musica “contemporanea”. Va tuttavia sottolineato come Toscanini abbia speso parole d’ammirazione per compositori a lui senz’altro contemporanei, quali Richard Strauss e Claude Debussy, di cui diresse e incise la musica. Altri compositori attivi nel XX secolo i cui brani furono eseguiti sotto la direzione di Toscanini furono Paul Dukas (L’apprendista stregone), Igor’ Stravinskij (Le rossignol e la Suite da Petruška), Dmitrij Shostakovich (sinfonie numero 1 e 7) e George Gershwin, del quale diresse i tre lavori maggiori (Rapsodia in Blu, Un americano a Parigi e il Concerto in Fa).
Un’altra critica spesso mossa a Toscanini è quella di essere troppo “metronomico”, cioè di battere il tempo fin troppo rigidamente, senza mai distaccarsi dalle partiture. Questa sua caratteristica gli valse la rivalità di Wilhelm Furtwängler, caratterizzato da un modo di dirigere totalmente opposto a quello del Maestro italiano; i due si detestarono per anni e non ne fecero mistero.
Nota è l’aspra discussione sorta fra Toscanini e Maurice Ravel in relazione ai tempi della partitura del celebre Boléro del compositore francese.[55] Alla prima esecuzione a New York, il 4 maggio 1930, infatti, il direttore affrettò il tempo, dirigendo due volte più velocemente di quanto indicato, per poi allargarlo nel finale. Ravel gli ricordò che il brano andava eseguito con un unico tempo, dall’inizio alla fine, e che nessuno poteva prendersi certe libertà (lo stesso compositore, dopo la prima esecuzione, aveva anche fatto preparare un avviso che imponeva di eseguire il Boléro in modo tale che durasse esattamente diciassette minuti), e Toscanini gli rispose: “Se non la suono a modo mio, sarà senza effetto”, risposta che Ravel commentò dicendo: “i virtuosi sono incorreggibili, sprofondati nelle loro chimere come se i compositori non esistessero”.[56]
Francobollo emesso nel 2007 nel 50º anniversario della morte Francobollo della Repubblica di San Marino che celebra Arturo Toscanini, sempre per il 50° dalla morte
Toscanini registrò 191 dischi, specialmente verso la fine della carriera, molti dei quali sono ancora ristampati. Inoltre sono conservate molte registrazioni di esibizioni televisive e radiofoniche. Particolarmente apprezzate sono quelle dedicate a Beethoven, Brahms, Wagner, Richard Strauss, Debussy tra gli stranieri, Rossini, Verdi, Boito e Puccini tra gli italiani.
I beni che documentano la vita di Toscanini sono stati dati dai suoi eredi a istituzioni pubbliche italiane e statunitensi. A New York presso la New York Public Library si conservano molte delle partiture annotate e la rassegna stampa degli eventi che videro protagonista il Maestro; alcuni documenti sono invece conservati presso la Fondazione Arturo Toscanini di Parma; a Milano si trovano documenti presso l’archivio del Museo Teatrale alla Scala, l’Archivio di Stato e il Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi”; il 19 dicembre 2012 vi fu un’asta su lotti di lettere e spartiti del Maestro: tutto ciò rischiava di andare disperso, ma 60 lotti su 73 andarono all’Archivio di Stato[61].
^ D’Annunzio gli aveva scritto: “Venga a Fiume d’Italia, se può. È qui oggi la più risonante aria del mondo e l’anima del popolo è sinfonia come la sua orchestra”.
^ Comune di Milano, App di ricerca defunti Not 2 4get (i suoi resti attualmente riposano al Cimitero Maggiore di Milano nella celletta 729 del Riparto 211).
^ Enzo Restagno, Ravel e l’anima delle cose, Il Saggiatore, Milano, 2009, pag.34
^ Da un’intervista di Dimitri Calvocoressi a Ravel per il Daily Telegraph dell’11 luglio 1931, in Maurice Ravel. Lettres, écrits, entretiens Ed. Flammarion, Parigi, 1989
^ Un singolare aneddoto è legato alla prima di quest’opera, che esordì incompleta e postuma alla morte di Puccini. Toscanini interruppe infatti l’esecuzione a metà del terzo atto, all’ultima pagina completata dall’autore; alcuni testimoni riportano che, voltatosi verso il pubblico, il direttore affermò: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». Toscanini non diresse mai più la Turandot, tanto meno nella versione completata da Franco Alfano (di cui egli fu, peraltro, promotore, nonché recensore avendone bocciata una prima versione, presso l’editore Ricordi di Milano). Vd. Julian Budden, Puccini, traduzione di Gabriella Biagi Ravenni, Roma, Carocci Editore, 2005, ISBN 88-430-3522-3, pp. 458s.
Marco Capra (a cura di), Toscanini. la vita e il mito di un Maestro immortale, Milano, Rizzoli, 2017
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(EN) Harvey Sachs, Reflections on Toscanini, Prima Publishing, 1993.
Arturo Toscanini, Lettere (The Letters of Arturo Toscanini. Compiled, edited and selected by Harvey Sachs, Knopf, 2002), traduzione di Maria Cristina Reinhart, a cura di Harvey Sachs, Milano, Il Saggiatore, 2017 [col titolo Nel mio cuore troppo d’assoluto: le lettere di Arturo Toscanini, Saggi Garzanti, 2003], ISBN978-88-428-2344-5.
Howard Taubman, The Maestro. The Life of Arturo Toscanini, Westport, Greenwood Press, 1977.
(EN) Joseph Horowitz, Understanding Toscanini. A Social History of American Concert Life, Berkeley, University of California Press, 1994.
(EN) Tina Piasio, “Arturo Toscanini”, in Italian Americans of the Twentieth Century, ed. George Carpetto and Diane M. Evanac, Tampa, FL, Loggia Press, 1999, pp. 376-377.
(EN) William E. Studwell, “Arturo Toscanini.” In The Italian American Experience: An Encyclopedia, ed. S.J. LaGumina, et al., New York, Garland, 2000, pp. 637-638.
Marco Mondini- Roma 1922 -Il fascismo e la guerra mai finita
Editore Il Mulino
Descrizione del libro di Marco Mondini-Roma 1922 -Il fascismo e la guerra mai finita «I fascisti erano ossessionati dal potere, e dalla possibilità di redimere la nazione e di trasformare gli italiani, anche a costo di eliminare tutti quelli che non erano d’accordo con loro. […] Le armi non sarebbero state deposte, fino al compimento di questa missione.» L’ascesa al potere del fascismo e il suo atto culminante, la cosiddetta marcia su Roma, possono essere capiti solo all’interno di un quadro più vasto, quello di un’Europa incapace di chiudere i conti con la Grande guerra. E se furono soprattutto i paesi sconfitti a scoprire che uscire dalla cultura dell’odio e della violenza quotidiana non era facile, frustrazione, scontento e desiderio di rivalsa si impossessarono anche degli italiani che pure – almeno formalmente – la guerra l’avevano vinta. Marco Mondini compone la storia corale e implacabile di un’Italia in cui la lotta politica si trasforma in guerra civile e che scivola via via verso il lungo ventennio della dittatura fascista.
Breve biografia di Marco Mondini-Storico
Marco Mondini al Giffoni Film Festival 2024
Si è laureato all’Università di Pisa in storia militare nel marzo 1998, e nel novembre dello stesso anno si è diplomato alla Scuola Normale Superiore in discipline storiche. Ha conseguito il perfezionamento (dottorato) in storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore nel 2003[1]. Tra 1999 e 2000 ha prestato servizio nell’Esercito Italiano come ufficiale di complemento, prima alla Brigata “Tridentina” e poi, come ufficiale incaricato della pubblica informazione, presso il Comando Truppe Alpine.
Dal 2003 al 2005 è stato borsista di post-doc all’Università di Padova. Nel 2006 è stato borsista della Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Dal 2006 al 2010 assegnista di ricerca in Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore. Dal 2011 al 2017 è stato ricercatore all’Istituto storico italo Germanico-FBK di Trento, dove ha diretto il gruppo di ricerca “1914-1918” (FBK – Università di Trento), e dove dal 2017 è affiliated fellow.[2] Negli stessi anni è stato anche visiting fellow all’ENS di Parigi, all’università di Lille “Charles De Gaulle”, all’università di Paris 7 “Diderot”, all’Oberlin College (USA) e allo US Army War College di Carlisle (Pennsylvania, USA) ed è stato nominato chercheur associé al CNRS e all’Università di Paris-Sorbonne[3]. Dal 2017 è diventato prima ricercatore e poi professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università di Padova, dove insegna History of conflicts e Storia contemporanea e dove, dal 2023, è Delegato alla comunicazione e alla terza missione [3]. Dal 2019 è membro del Comité directeur del Centre International de Recherche dell’Historial de la Grande Guerre di Péronne.
Durante il Centenario della Grande Guerra, ha fatto parte come consulente della Struttura di missione anniversari nazionali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.[4] Collabora con Il Corriere della Sera, con Il Foglio e con Rai Storia, per la quale ha scritto e condotto diversi documentari e le trasmissioni “Archivi. Miniere di Storia” (2018-2019) e dal 2020 al 2024, quando il rapporto tra i due si è interrotto, insieme a Michela Ponzani, “Storie Contemporanee”.[5] Dalla sua prima stagione, è ripetutamente ospite della trasmissione Passato e Presente condotto da Paolo Mieli (Rai 3 – Rai Storia) [6]Nella stagione 2023/2024 e 2024/2025 ha collaborato con Aldo Cazzullo per alcune puntate della trasmissione Una giornata particolare(La7).[7] Nel 2023 ha partecipato al documentario “La caduta”, condotto da Ezio Mauro per La7, sul 25 luglio 1943.[8] Nel 2024 è consulente e tra le voci narranti del documentario “I survived the Holocaust” diretto da Sanela Prašović Gadžo, presentato al Sarajevo Film Festival e allo Stockolm Film Festival.[9]
Gli sono stati attribuiti diversi riconoscimenti tra cui il premio nazionale “Friuli Storia” (2017) per la biografia di Luigi CadornaIl Capo, e il premio “Acqui Storia. Storico in TV” (2022) per il documentario L’ultimo eroe. Viaggio nell’Italia del Milite Ignoto (RAI Storia[10]), scritto e condotto insieme a Nicola Maranesi e Fabrizio Marini.
Opere
Veneto in armi. Tra mito della nazione e piccola patria 1866-1918, Collana Le guerre, Gorizia, LEG, 2002, ISBN 978-88-869-2853-3.
Armi e potere. Militari e politica nel primo Dopoguerra, Quaderni della Fondazione Luigi Salvator, Roma, Aracne, 2006, ISBN978-88-548-0745-7.
La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito italiano nell’avvento del fascismo, Collana Quadrante, Roma-Bari, Laterza, 2006, ISBN 978-88-420-7804-3.
Dalla guerra alla pace. Retoriche e pratiche della smobilitazione nell’Italia del Novecento, con Guri Schwarz, Collana Nord-Est. Nuova serie, Verona, Cierre, 2008, ISBN 978-88-831-4439-4.
Alpini. Parole e immagini di un mito guerriero, Collana Percorsi, Roma-Bari, Laterza, 2008, ISBN 978-88-420-8652-9.
Venezia, Treviso e Padova nella grande guerra, con Lisa Bregantin e Livio Fantina, Collana 900 Veneto. La Grande Guerra, Istresco, 2008, ISBN978-88-888-8039-6.
Fiume! Scene, volti, parole di una rivoluzione immaginata 1919-1920, con Alessio Quercioli e Fabrizio Rasera, Museo Storico Italiano della Guerra, 2010, ISBN 978-88-322-6612-2.
Generazioni intellettuali. Storia sociale degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa nel Novecento (1918-1946), Edizioni della Normale, Pisa, 2011, ISBN 978-88-764-2405-2.
La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare 1914-1918, Collana Biblioteca storica, Bologna, Il Mulino, 2014, ISBN 978-88-152-51633.
De Gasperi e la Prima guerra mondiale, con Maurizio Cau, FBK Press, 2015, ISBN978-88-989-8923-2.
Andare per i luoghi della grande guerra, Collana Ritrovare l’Italia, Bologna, Il Mulino, 2015, ISBN 978-88-152-5794-9.
Il capo. La Grande Guerra del generale Luigi Cadorna, Biblioteca Storica, Bologna, Il Mulino, 2017, ISBN 978-88-152-7284-3. [Audiolibro letto da Ezio Bianchi, Feltre, Centro Internazionale del Libro Parlato, 2017], traduzione in tedesco: Der Feldherr. Luigi Cadorna im Grossen Krieg 1915-1918, Berlino / Boston, De Gruyter 2022 ISBN 978-3-11-069342-3
Fiume 1919. Una guerra civile italiana, Collana Aculei, Roma, Salerno Editrice, 2019, ISBN978-88-697-3364-2. – Collana Itinerari nella storia n.24, Milano, RCS MediaGroup, 2024.
Tutti giovani sui vent’anni. Una storia di alpini dal 1872 a oggi, Collezione Le Scie. Nuova serie, Milano, Mondadori, 2019, ISBN 978-88-047-1224-4.
Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita, Biblioteca storica, Bologna, Il Mulino, 2022, ISBN 978-88-152-9927-7.
Il ritorno della guerra, Collana Biblioteca storica, Bologna, Il Mulino, 2024, ISBN978-88-153-8810-0.
Curatele
Armi e politica. Esercito e società nell’Europa contemporanea, con J.F. Chanet, D. Ceschin, H. Kuprian, C. Jahr, A. Argenio, numero monografico di “Memoria e Ricerca”, 2008, 28.
Narrating War. Early Modern and Contemporary Perspectives, con M. Rospocher, Duncker&Humblot – Il Mulino, Berlino-Bologna, 2013.
Andrea Pozzetta-Lui solo non si tolse il cappello-Editore Interlinea
Descrizione del libro di Andrea Pozzetta-Lui solo non si tolse il cappello-Vita e impegno politico di Ettore Tibaldi, protagonista della Repubblica dell’Ossola-Tra la provincia di Pavia e la val d’Ossola, passando per la Svizzera e per il più vasto continente europeo, la vita avventurosa di Ettore Tibaldi (1887-1968)si dipana in una biografia che per la prima volta ne ricostruisce il lungo e tortuoso percorso politico e civile. Medico, scienziato, docente, militante socialista, repubblicano, interventista durante gli anni della prima guerra mondiale, organizzatore degli ex combattenti e reduci, antifascista, dirigente della Resistenza, ideatore e presidente del governo della Repubblica partigiana dell’Ossola, esule, protagonista della vita politica del secondo dopoguerra fino al raggiungimento della carica di vicepresidente del Senato: questi sono solo alcuni dei principali risvolti di un’esistenza vissuta lungo una precisa linea di condotta etica e morale, fondata sulla lotta per la democrazia e la giustizia sociale. In nome dei suoi ideali Ettore Tibaldi fu perseguitato dal regime fascista, perse il lavoro di docente universitario, fu allontanato dalla famiglia, ma seppe anche resistere e offrire un esempio di azione, come durante le settimane di libertà della Repubblica dell’Ossola. La storia di Ettore Tibaldi è la storia di un uomo che ha dato tutto di se stesso per un’idea di civiltà e di democrazia.
Ettore Tibaldi(1887-1968)
Titolo
Lui solo non si tolse il cappello
Sottotitolo
Vita e impegno politico di Ettore Tibaldi, protagonista della Repubblica dell’Ossola
Da “la Provincia“, Roberto Lodigiani su Lui solo non si tolse il cappellodi Andrea Pozzetta
«A questa figura di medico e antifascista militante, ancora oggi molto conosciuta in Val d’Ossola, relativamente poco a Pavia, ha dedicato una dettagliata biografia Andrea Pozzetta, ricercatore storico e docente delle superiori: “Lui solo non si tolse il cappello. Vita e impegno politico di Ettore Tibaldi, protagonista della Repubblica dell’Ossola” (Interlinea) verrà presentato domani nel Salone Teresiano della Biblioteca Universitaria (ore 17); dialogheranno con l’autore Elisa Signori e Marina Tesoro».
Andrea Pozzetta
Da “La Stampa Novara“, su Lui solo non si tolse il cappello di Andrea Pozzetta
«“Lui solo non si tolse il cappello” è il libro dedicato a Ettore Tibaldi che viene presentato oggi alle 17,30 a Casa Ceretti a Intra. Il volume, opera di Andrea Pozzetta, è edito da Interlinea e l’autore, proprio per questo libro, ha di recente vinto il premio “Repubblica partigiana dell’Ossola” assegnato dal Comune di Domodossola.»
Andrea Pozzetta
Andrea Pozzetta
Andrea Pozzetta
Andrea Pozzetta, dottore di ricerca in Storia, è insegnante, ricercatore e direttore scientifico presso la Casa della Resistenza di Verbania. Collabora in particolare con le attività del Centro di documentazione.
Nelle sue ricerche si è occupato di storia politica dell’Italia repubblicana, di storia culturale della prima guerra mondiale, di storia delle culture politiche, di antifascismo e Resistenza.
POZZETTA Andrea
Casa della Resistenza, Centro di documentazione, via Turati 9, 28924 Verbania (VB)
BIOGRAFIA
Studi e formazione
Dottorato di ricerca in Storia (XXIX ciclo) presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia. Tesi: «Tutto il partito è una scuola». Le scuole di partito del Pci e la formazione dei quadri (1945-1981) (tutor prof. Pietro Angelo Lombardi).
Laurea specialistica in Storia dell’Europa moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Pavia, anno accademico 201o/2011. Tesi in storia contemporanea: Essere comunista tra Italia e Unione Sovietica. Luigi Longo 1922-1969, relatore professoressa Marina Tesoro.
Diploma di master universitario di primo livello in Professioni e prodotti dell’editoria, anno accademico 2011/2012, presso Collegio Santa Caterina da Siena-Università degli Studi di Pavia.
Laurea triennale in Scienze Politiche (curriculum storico-politico), anno accademico 2007/2008, all’Università di Pavia.
PUBBLICAZIONI
Monografie
Passaggi di speranza. Contrabbandieri, passatori, fuggiaschi e partigiani in Ossola e Verbano, Verbania, Tararà 2024.
Lui solo non si tolse il cappello. Vita e impegno politico di Ettore Tibaldi, protagonista della Repubblica dell’Ossola, Novara, Interlinea 2021.
«Tutto il Partito è una scuola». Cultura, passioni e formazione nei quadri e funzionari del Pci (1945-1981), presentazione di Albertina Vittoria, Milano, Unicopli, 2019.
Industriarsi per vincere. Le aziende e la Grande Guerra, presentazione di Alessandro Barbero, Interlinea, Novara 2018.
Curatele
Leopoldo Bruno Carabelli, Memorie di un ribelle, a cura di Andrea Pozzetta, Interlinea, Novara 2018.
Articoli
«Morire stroncati dal piombo era preferibile». Lettere di rifugiati ossolani in Svizzera (1944-1945), in «I sentieri della ricerca», 2018.
«Tutto il Partito è una scuola». Esperienze formative nelle scuole di partito del Pci degli anni Settanta, in «Contemporanea», n. 3 (2016)
Un medico sovversivo: Ettore Tibaldi tra garibaldinismo e antifascismo, in «I sentieri della ricerca. Rivista di storia contemporanea», n. 19/20 (2014/2015).
Luigi Longo e la costruzione del “nuovo internazionalismo”: 1964-1969 in «Storia e Futuro», n. 35, Giugno 2014.
Contributi e capitoli in opere collettanee
«Nel collettivo apprendo un metodo di lavoro». Pratiche di formazione delle scuole di partito del Pci tra secondo dopoguerra e anni Settanta, in Maestri e pratiche educative dall’Ottocento a oggi. Contributi per una storia della didattica, a cura di Monica Ferrari e Matteo Morandi, Scholé, Brescia 2020
La prima guerra della modernità. Esperienze tra economia e società nel Piemonte Orientale, in La città di Novara e il Novarese nella prima guerra mondiale,a cura di Cristina Vernizzi, Interlinea, Novara 2018.
Tra «eroi capovolti» e «custodi del disordine». Curzio Malaparte interprete della storia europea (1921-1931), in “Chroniques italiennes web” 35 (1/2018) Curzio Malaparte Esperienza e scrittura a cura di Maria Pia De Paulis-Dalembert.
Un «luogo venerato, che virtù d’avi consacrava al sapere». Momenti celebrativi e autorappresentazioni nell’Università di Pavia, in Almum Studium Papiense. Storia dell’Università di Pavia, vol 2, tomo II, a cura di Dario Mantovani, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario, Milano 2017.
Schede: Il Circolo di studi sociali: Carlo Bianchi e le origini del socialismo pavese e Le reti di sociabilità di studenti e professori, in ibidem.
«Ci sono veramente delle canaglie fra i soldati!» Curzio Malaparte: da Viva Caporetto! a La rivolta dei santi maledetti, in Inchiostro proibito, Libri censurati nell’Italia contemporanea, presentazione di Roberto Cicala, Edizioni Santa Caterina, Pavia 2012.
In difesa del “Buon costume”. A proposito delle forme di censura nell’Italia contemporanea, in Inchiostro proibito, Libri censurati nell’Italia contemporanea, presentazione di Roberto Cicala, Edizioni Santa Caterina, Pavia 2012.
Curatele di mostre
Mostra documentaria e fotografica Ettore Tibaldi: medico sovversivo. Da Certosa di Pavia alla Repubblica dell’Ossola (Comune di Domodossola, sala esposizioni, 2-26 ottobre 2019).
Mostra documentaria e fotografica Mino Milani: una città, la guerra, la giovinezza (Musei civici del Castello Visconteo di Pavia 30 ottobre-11 novembre 2018).
Giuseppe Bartoli –Militare antifascista, Partigiano, Autore del libro il libro
-Edizioni Zero Lire-
25 aprile
. 25 APRILE
L’importante è non rompere lo stelo
della ginestra che protende
oltre la siepe dei giorni il suo fiore.
C’é un fremito antico in noi
che credemmo nella voce del cuore
piantando alberi della libertà
sulle pietre arse e sulle croci.
Oggi non osiamo alzare bandiere
alziamo solo stinti medaglieri
ricamati di timide stelle dorate
come il pudore delle primule:
noi che viviamo ancora di leggende
incise sulla pelle umiliata
dalla vigliaccheria degli immemori
Quando fummo nel sole
e la giovinezza fioriva
come il seme nella zolla
sfidammo cantando l’infinito
con un senso dell’Eterno
e con mani colme di storia
consapevoli del prezzo pagato
Sentivamo il domani sulle ferite
e un sogno impalpabile di pace
immenso come il profumo del pane
E sui monti che videro il nostro passo
colmo di lacrime e fatica
non resti dissecato
quel fiore che si nutrì di sangue
e di rugiada in un aprile stupendo
quando il mondo trattenne il respiro
davanti al vento della libertà
portato dai figli della Resistenza.
Giuseppe “Pino” Bartoli- “Il fiore della libertà”
AD UN PARTIGIANO CADUTO
E’ un fiume di ricordi ormai amico
la strada che conduce
a quei giorni lontani di smeraldo
dove sostammo come creduli ragazzi
a creare coi sogni nelle vene
fantasie di speranze e di parole
fra pugni di “canaglie in armi”
Forse potrei dimenticare il giogo
che mi lega all’arco dei rimpianti
se soltanto le voci dei compagni
tornassero a cantare
come quando la vita dilagava
e tu portavi alla gioia di tutti
il tuo sorriso di fanciullo
e la forza serena dei tuoi occhi
Ma anche se il tempo non ricama
che fili d’ombra sulla memoria
e il tormento di quell’assurdo giorno
quando attoniti restammo
davanti alla pietà della tua forca
è pur sempre l’ora della tua lotta
del tuo caldo vento di libertà
immenso come grembi di colombe
in volo fra fiori d’acquadiluna
Tu solo amico adesso
puoi scegliere i ritorni
e dirci ancora
col battito delle tue ali
le bellezze della vita
e le dolci innocenze della morte.
NOI CHE CADEMMO
Fummo una zolla qualunque
al taglio del vecchio aratro
che il nuovo trattore ferisce
inpianto, sudore e lavoro
Ora ascoltiamo i sospiri
di neri e snelli cipressi
dipinti da soffi di sole
in chicchi di riso azzurrino
che l’acre piovasco flagella
Viviamo in bellezze di morte
fra pioppi inclinati sul rio
E siamo la gialla pannocchia
che nutre la fame del povero
che accende la fede nell’uomo
Siamo promessa di pace
che tesse tovaglie d’altare
e bianchi lini di sposa
per alta promessa di vita
…………………………………….
noi che cademmo a vent’anni
nel sogno sublime dei liberi.
CA’ DI MALANCA
Se non sai leggere
negli occhi rossi
delle ginestre
nate dal sangue
della libertà
la muta preghiera
che scuote le catene
dei tiranni . . . .
Se non t’inginocchi
sulla brace
della carne accesa . . . .
Se non piangi
sui muri di corallo
delle case arse
e se non baci
la paglia insanguinata
dalle vene di tuo fratello
sei solo un fardello inutile
che non paga
il giusto prezzo ai Morti
Solo quando capirai
tutto questo . . . .
Solo quando ricorderai
come mordevi con dente di lupo
l’ultimo pane
nel cavo della mano contadina
potrai rivivere
quella primavera colma di rosso
per il primo fiore della Libertà
Giuseppe “Pino” Bartoli
I MORTI ASPETTANO UN RAGAZZO DAGLI OCCHI DI SOLE LA MÖRT ED CURBERA LA MORTE DI CORBARA I DISCORSI D’ALLORA A CRESPINO LA DISFATTA UN BARATTOLO DI LATTA UNA FARFALLA DI CENERE
INTRODUZIONE
Udimmo il tonfo delle rane
negli alti silenzi dei meriggi
e il respiro lieve dei cavalli
nelle estese vele delle notti
gonfie di lucciole e di fremiti
Sulle nostre tavole di fieno
abbiamo mangiato
lacrime e canti
fra grappoli di rondini
in giostra nel cielo
Udimmo la scure abbattersi
sui letti deserti dei boschi
mentre carri di ricordi
si trascinavano lenti
Poi arrivò l’alba
d’una rossa primavera
con brezze di mandorli avvolte
nell’immemore pianto della terra
Tornammo dalle nostre madri
dopo una lunga notte insonne
intonando canti senza dolore
Le culle delle foglie
che ci furono compagne
raccolsero il vagito
della rinata libertà
e sui crateri di sangue
– scavati –
dalla nostra lotta
mani nude di orfani
sfidarono il cielo
Dal buio delle fosse
vergini di croci
gli occhi spalancati
dei partigiani caduti
si chiuderanno solo
se la loro speranza
diventerà la nostra.
Sono tornato dove un ragazzo
dai grandi occhi di sole
ha maturato le sue radici
Sono tornato dove abbiamo
sepolto la nostra giovinezza
e dove il nome di battaglia
nasceva tra bagliori di fuoco
Ed ho ritrovato la mia estate
L’estate dei ramarri sui muri
la fionda dall’elastico rosso
i piedi scalzi color di terra
e tutta la luce del giorno
a tingerci d’ambra le mani
Qui “giocavamo” alla guerra
fra siepi di rovi e di more
dietro lo scudo delle foglie
povera “canaglia” della libertà
inerme come grembi di colombe
Raccogliemmo morte e mirtilli
e tra cappotti di lune rosse
rubammo l’oro alle lucciole
Quando tua madre ingobbita
come la collina che ti colse
soffocò l’urlo e i singhiozzi
nella “tana” d’uno scialle nero
per te cantarono le cicale
e si schiusero nidi di viole
C’era un profumo di ginestre
nel cielo della tua ultima estate
Ora ti guardo senza piangere
compagno dagli occhi di sole
e mi chiedo se non fu fortuna
quel tuo andartene allora
col freddo sudore di morte
sul tenerume delle labbra
ancora ebbre di latte materno
Te ne andasti e forse fu meglio
perchè adesso solo le pietre
urlano come monumenti nudi
e perchè ragazzo senza nome
siamo ormai pochi a ricordare
il “sorriso” delle tue tenere vene
che si svuotavano come calici
per l’ultimo brindisi alla vita.
I s’arbuteva coma spig’d grân Si rovesciavano come spighe di grano
cun del biastèm che pareva preghir con delle bestemmie che sembravano preghiere
e vers e’ zêl e verso il cielo
pal’d s-cióp spudedi fra i dént palle di schioppo sputate tra i denti
l’andeva e’nom’d Maria e chietar sént andava il nome di Maria e degli altri santi
E prèm a caschê e fo Curbera Il primo a cadere fu Corbari
e par la bòta e per il tonfo
o tremê la tëra e o fo sobit sera tremò la terra e fu subito sera
A lé stuglé, ribèl senza pio’ él Lì disteso, ribelle senza più ali
u raspeva da e’ mêl raspava dal male
cun cla manaza grânda e cuntadéna con quella manaccia grande e contadina
……. bôna l’era la tëra ……….. ……………… buona era la terra
grasa e féna ……………. grassa e fine
Raspa Curbera, raspa stvò truvé Raspa Corbari, raspa se vuoi trovare
l’eteran cunzem dla libartê: l’eterno concime della libertà:
e’ sangue rumagnöl il sangue romagnolo
cla imbariaghê ogni côr che ha ubriacato ogni cuore
Strèca, strèca la tëra Stringi, stringi la terra
l’è sèmpar cl’udôr è sempre quel profumo
l’è sèmpar l’amôr dla stesa mâma è sempre l’amore della stessa mamma
cut fa da lët pövar fiol’d Rumâgna che ti fa da letto povero figlio di Romagna
Strèca ed elza la tësta, so canàja! Stringi ed alza la testa, su “canaglia”!
L’as drèza la camisa sanguneda Si alza la camicia insanguinata
la pê ôn lôm a Mérz, lôm’d premavera sembra un lume a marzo, lume di primavera
l’è bèl finì e’ su dé par na bangera è bello finire la vita per una bandiera
E cvànd che la prema sfója’d sôl E quando la prima sfoglia di sole
la spôrbia d’ôr tota la campagna spolvera d’oro tutta la campagna
e’partigiân e mör il partigiano muore
Bsén a lô ôn pòpul’d cuntadén Vicino a lui un popolo di contadini
o prega e o biastèma a tësta basa prega e bestemmia a testa bassa
Sôra a lô na bânda d’asasén Sopra di lui una banda d’assassini
la rid cun la vargôgna in faza ride con la vergogna in faccia
E’ sôl c’nas e dà vita a la brèza Il sole che nasce da vita alla brezza
nud coma Crèst, inciudê tna trèza nudo come Cristo inchiodato in una treggia
e pasa per l’amiga campâgna passa per l’amica campagna
l’ultum re dla muntâgna l’ultimo re della montagna
Brigant dla libartê e preputént Brigante della libertà e prepotente
ma s-cét com l’è s-cét la su zént ma schietto come è schietta la sua gente
s-cét coma i nost dê pasê bsén el stël schietto come i nostri giorni passati vicini alle stelle
fra e’ piânt’d mâma e cvèl de parabël tra il pianto di mamma e quello del parabello
(1) Silvio Corbari, medaglia d’oro della Resistenza.
Parlavamo di noi
quando la sera maturava
la stanchezza del giorno
e le contadine velate di nero
raccontavano al cielo
i guasti della pioggia
del vento e della guerra
Parlavamo di noi
all’acqua vergine di fonte
mescolando al grattare del mitra
la ragione di crederci uomini
e il diritto di lasciare
alle bestie da soma
il vanto pesante del basto
Parlavamo d’idee
mescolando bestemmie
ai rosari di pietra
per lasciare lontano l’inverno
che marciva nei solchi
e la fame
che uccideva le ultime favole
negli occhi dei bambini
Parlavamo di noi
cercando nei boschi la vita
e nei sentieri di piombo
le nostre radici di uomo
Parlavamo di noi
quando albe di fuoco
scoprivano i nostri fantasmi
già stanchi al primo mattino
già vecchi a soli vent’anni
Parlavamo del nostro domani
davanti alla salma nuda
d’un compagno caduto
e ad un ventre di terra
– che ingoiava –
le noste tenere radici
lasciandoci in bocca
la voglia rabbiosa
d’un tempo migliore
in cui ancora sperare
Giuseppe “Pino” Bartoli
Vennero i giorni della primavera
La terra si coprì d’allegria
cantò tutti i colori del cielo
andò a piangere sui seminati
Nell’antica valle del Lamone
fiorì il natale sacro dei ciliegi
e le spighe in curva preghiera
baciarono il rosso dei papaveri
I campi non furono più tristi
quando sopra sbocciarono gentili
le rose selvatiche del maggio
Nessuno parlava di morte
fra le spine dei rossi lamponi
Ma la morte era in ogni pietra
nel filo dell’erbe e delle foglie
La morte vagava lungo il fiume
negli occhi delle bestie inquiete
nel taglio affilato della scure
E venne il giorno del martirio
sull’inerme cuore contadino
sulle mani rotte dal lavoro
sulla vanga ancora impastata
di buona terra e sacro sudore
Quando i barbari furono pronti
tacque il mormorio dell’acque
e una nube scura salì al cielo
a nascondere la rosa del sole
Le mani strinsero altre mani
Le parole e un pianto disperato
narraron sogni e favole smarrite
e negli occhi grandi delle madri
si posò il bacio dei figli
E l’ultimo pensiero andò lontano
ai fuochi spenti alla terra arata
all’oro reciso delle spighe
e ai giorni senza più domani
ai canti che si spegnevano
a loro che salivano il Calvario
e a noi, a noi, che siamo rimasti
a cogliere i frutti d’una stagione
nata da vittime innocenti
Era l’intera valle delle Scalelle
e dei castagni sacri a Campana
che consumava l’ultima ora
Non li chiamavano per nome
per non spaccare la cesta dell’odio
Un cenno, una spinta, un urlo
e la morte li coglieva sul petto
unendo il gemito di chi andava
all’angoscia di chi attendeva
Il campo diventò bara immensa
nel tiepido meriggio estivo
Noch ein! Noch ein! Noch ein!
Ancora uno! Ancora uno! Ancora uno!
E un colpo dopo l’altro
rompeva il grido della carne viva
e il sangue si fondeva in grumi
nel rosario dei ceppi delle mani
nella coppa umida della terra
Quando il silenzio raccolse dai pendii
l’ultimo colpo e l’ultimo grido
– lontano –
oltre la malinconia dei roveti
un requiem di coralli accesi
si scaldava al lume delle case
e noi,, noi, quelli ancora vivi
attendevamo un “nuovo” mattino
P.S. Questa poesia intende ricordare l’eccidio di 42 inermi contadini vittime della barbaria nazista a Crespino sul Lamone – Luglio 1944.
Questa poesia intende ricordare l’eccidio di 42 inermi contadini vittime della barbaria nazista a Crespino sul Lamone – Luglio 1944.
Io non ho perso la guerra quando combattevo
nella nuda terra africana
seppellito come un pidocchio
dentro una gabbana
fatta di sabbia e di sete
mangiando cavallette
Io non ho sporcato
l’argento delle mie stellette
nella steppa russa
mordendo con dente di lupo
le ossa condite di ghiaccio
dei miei fratelli caduti
Io perdo ancora la guerra
tutte le volte che penso
a me e agli altri ragazzi
che col fucile in mano
tenevamo Anna Frank
sepolta in una soffitta
E fra l’occhio spento del cielo
e l’odio assassino della terra
l’ebrea costruiva col sangue
quel monumento di pace
che schiaccia ancora adesso
l’anima di tutti i boia
Quella si che fu la vera disfatta
il marchio d’una sconfitta
che mi urla sempre addosso
con una bocca larga
come una camera a gas
La stella dalla coda
aveva appena perso
l’ultimo filaccio
ancora pregno di sangue
Adesso il mondo
poteva piangere
rannicchiato
fra gli spigoli
delle case arse
Ma un bambino
aveva tanta
tanta voglia di vivere
di correre sulla rugiada
che non appassiva più
sulla terra dischiusa
Cercava un barattolo
per giocare a palla
per capire dal suono
di quel giocattolo
che rideva fra i sassi
che il macello era finito
Ma nessuna luna d’argento
– rotolava –
sul grembo della terra
e allora spense
i suoi piedi nudi
fra spine di pietra
e diventò subito un uomo
Sarà festa grande
al taglio del maggese
per coriandoli di farfalle innamorate
libere dalle culle
dell’amore agreste
Voleranno
verso la vela
tenera del cielo
tra grida pulite
di bambini
frammenti ansiosi
d’albe serene
nati dalla brace
della carne accesa
E tornerà puntuale
il ricordo
della bimba di Bologna
che sognava
una farfalla di fiordaliso
da chiudere
nella gabbia del cuore
Vedo la sua immagine
dibattersi prigioniera
fra i rovi delle schegge
come rosa di macchia
nella siepe
Ogni anno
– per non dimenticare –
un filo di calendule d’oro
illuminerà
il sentiero di cenere
grigio
come la dolcezza
d’un settembre
Angela
non rivedrà più
gronde di luna
né si scalderà
all’abbaino del sole
con occhi
di passero sperduto
Di lei resta solo
un volo immenso
di cenere
che si posò leggero
sui suoi capelli
“come solinga
lampada di tomba”
Giuseppe “Pino” Bartoli
Qualcuno di fronte a questa pubblicazione potrebbe intanto giustamente chiedersi a cosa serve la poesia. Rispondo con una frase dello scrittore americano William Carlos Williams laddove afferma che «niente di utile si trova nella poesia, ma l’umanità sta morendo miseramente ogni giorno per mancanza di ciò che si trova nella poesia». Pur ritenendo valido questo concetto si potrebbe pensare che la poesia possiede uno status specifico che la destina, lo si voglia o no, ad un pubblico di elite, a ristrette minoranze.
Ma così non è.
Abbiamo intanto un ricco patrimonio di versi dia-lettali che affonda le sue radici proprio nell’animo più popolare della nostra gente. E’ sufficiente ricorrere al lirismo di Aldo Spallicci o alla satira di Olindo Guerrini, alias Stecchetti, che esaltano la sensibilità più riposta e il diapason spirituale dei romagnoli, per capire l’importanza e il valore di immagini espressive che si richiamano alla fatica e al dolore dell’uomo, all’amore per la propria terra e le proprie tradizioni, concetti questi ancora profondamente radicati nell’animo più schietto del popolo.
La poesia è anche pensiero e fantasia, immagine e sentimento e lo sarà sempre fino a quando il sole risplenderà sulle sciagure umane.
Ed è proprio partendo dalla grande tragedia dell’ultima guerra che intendo dipanare il filo delle mie parole evidenziando, in particolare, l’olocausto di milioni di persone che assieme all’antifascismo, va visto come il substrato della Resistenza.
Ho avut o modo di leggere poesie scritte da bambini che hanno vissuto, prima di essere polverizzati nei lager tedeschi, momenti dilaganti di morte e disperazione. Si può cogliere in questi scritti una testi-monianza d’amore, un grido di condanna, un canto di speranza, un anelito di libertà che trascende la ricerca stessa della vendetta. Sono versi che diven-tano humus e linfa vitale offrendosi ad un’epoca in cui l’uomo barcolla alla ricerca di una luce che rischiari sentieri futuri per non morire per sempre.
Sentite cosa ha scritto, prima di entrare nei forni crematori, un ragazzo di quattordici anni: “Prova, amico, ad aprire il tuo cuore alla bellezza quando cammini tra la natura per intrecciare ghirlande con i tuoi ricordi e anche se le lacrime ti cadono lungo la strada vedrai che è bello vivere”
E non va dimenticato neanche il monito del piccolo ebreo Hanus “gasato” ad Auschwitz quando dice “che l’uomo non deve più lasciarsi riprendere dal sonno”. E il sonno in questo caso significa accettare supinamente le libertà perdute.
Ed Alena Synkova sogna orizzonti di pace, pur sapendo di dover morire, lasciandoci questi versi: “Vorrei andare sola dove c’è altra gente migliore in qualche posto sconosciuto dove nessuno uccide” Ho voluto di proposito far precedere alle mie poesie le stupende parole di alcuni dei tanti ragazzi che con il tappeto delle loro ceneri innocenti prepararono la Resistenza di tutta Europa. C’è una poesia che per il suo alto contenuto va inclusa in questa breve documentazione. Non è mia, ma del poeta siciliano Ottavio Profeta. “Se la mia voce morirà sulla croce di pietra cittadina portatela sulla cima del mio monte che s’alza nel vento e si corica nella nebbia Se la mia voce morirà nella mia pianura cercatela nel canneto nella conchiglie del mare e nell’acqua del fiume Se la mia voce morirà ridatemela viva fra gli alberi del bosco dove ogni sera canta un usignolo” –
Disegni di Terezin: l’Olocausto visto dai bambini
Tornando ai bambini di Terezin e degli altri campi di sterminio, è sorprendente constatare la consonanza della poesia con la natura del fanciullo, il gusto estetico essenzialmente contenutistico, che non disdegna l’aspetto formale, le continue trasfigurazioni in immagini semplici e profonde. L’età evolutiva rivaluta il suo copioso scrigno di sogni. di intuizioni, di amore. Nel caso dei ragazzi di Terezin, il realismo è esaltato dalla virtù della speranza. Di fronte al bivio del “day after”, la storia e la poesia ripropongono la missione millenaria dell’umanità che si può sintetizzare in pochi versi: “…..e la speranza libera dalla gabbia colorerà la nebbia delle ore”. Questa pubblicazione, voluta dalla Comunità Montana nell’ampio quadro delle celebrazioni del cinquantenario della Resistenza, è indirizzata, in particolare, verso i ragazzi affinchè il ricordo dei loro coetanei che si aggiravano come passere bianche tra i fili spinati dei campi di prigionia, non sia dimenticato. Siamo di fronte alla tragedia di una adolescenza senza dimensione che va vista come un bozzolo di sole spento da uomini in delirio. L’olocausto dei ragazzi polverizzati nelle camere a gas, fu forse segno d’incantesimo, di cenere che s’innalzò come un vortice sulla notte di una civiltà calpestata. Ognuno di noi deve finalmente capire che l’innocente battito d’ali e il solco di terra che “annegava” tenerezza di ossa, appartiene all’umanità tutta come un monito tremendo.
«…..non è più tempo amico di trascinare uomini col giogo sui «Golgota» affamati di croci Non è più tempo delle gioie né di rimembranze serene se capisci che affondi i piedi sul sangue degli innocenti Resta coi bambini di Terezin e vedrai che dopo la lunga notte i licheni tenaci della libertà chiuderanno le crepe profonde delle nostre coscienze stanche» –
Giuseppe “Pino” Bartoli
Breve biografia di Giuseppe “Pino” Bartoli, nato a Brisighella il 18/07/1920 e deceduto il 20/06/2004. Ex Ufficiale di Stato Civile ed ufficiale della formazione partigiana “Silvio Corbari”, grado riconosciutogli dal Ministero della Difesa, ha ricoperto, nel comune di Brisighella, tutti gli incarichi pubblici: Sindaco, Presidente della Comunità Montana, della Pro Loco, delle Opere Pie e del Museo del Lavoro Contadino. Poeta in lingua e vernacolo nonché prosatore, si è affermato in oltre 500 concorsi letterari, molti dei quali di livello nazionale ed internazionale. Cavaliere della Comunità Poetica Europea e Commendatore dell’Ordine Militare di S.Andrea, socio di 10 Accademie di lettere, arti e scienze, ha conseguito per due volte l’Oscar di Letteratura “Romagna”.
In sua memoria, si tiene annualmente un concorso di poesia, elaborati, disegni, ceramiche, ecc. riservato agli
Giuseppe “Pino” Bartoli
quei giovani in cui Giuseppe riponeva la sua speranza per il futuro e che credeva fossero la gioia più bella del mondo.
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