Borgo Velino -La bella storia di Giovanni, Ersilia e David
Borgo Velino (Rieti)-La bella storia di Giovanni, Ersilia e David
Borgo Velino (Rieti)-La bella storia di Giovanni, Ersilia e DavidLa storia di Giovanni, di sua figlia Ersilia e di suo figlio David, inizia ben prima de “L’Infisso”, un’azienda che produce, ovviamente, infissi ma anche serramenti e mobili.
Giovanni, che oggi è in pensione, ma è ancora amministratore dell’azienda e ha sempre l’occhio vigile su ciò che accade, si diploma perito elettrotecnico nel 1959 a L’ Aquila. Di quegli anni ricorda gli inverni gelidi “senza cappotto” e al ritorno a casa ad Antrodoco, dopo la scuola, già il lavoro. Appena diplomato, “con diecimila lire in tasca”, come ripeterà in tutti i momenti di difficoltà della vita, parte per la Germania. Qui lavora per un anno come filatore e poi in una azienda di motori elettrici.
Per Giovanni l’emigrazione è una scelta di vita oltre che di lavoro, infatti l’anno dopo torna, si sposa, e sua moglie Rosa lo segue; in Germania nasce Ersilia.
Ma per una giovane coppia non è facile ambientarsi in un Paese straniero, perciò dopo quattro anni, appena si presenta l’occasione, tornano in Italia.
E l’occasione è l’apertura dell’azienda “Bosi”. All’inizio Giovanni viene chiamato “più come interprete”, dice lui, per il montaggio dei macchinari tedeschi destinati alla produzione di truciolato. Intanto si fa apprezzare, così, finito il montaggio, lo “destinano alla manutenzione degli impianti” e poi gli “affidano lo stabilimento”.
Alla “Bosi” rimane dieci anni, ma intanto riprende a vivere ad Antrodoco, nasce l’altro figlio, David, fa anche l’amministratore comunale e poi decide di diventare imprenditore: prima una impresa edile, poi una rivendita di materiali edili, nella quale è impegnata anche Rosa, come sempre al suo fianco, e nella quale inizia la prima produzione di infissi.
È a questo punto che acquista un terreno nella zona artigianale di Borgo Velino, per edificare il capannone dove “L’Infisso”, che nasce nel 1982, dopo altre iniziative, è ancora oggi.
In questi anni anche tanti problemi da risolvere per far crescere l’azienda e soprattutto per innovare costantemente e tener testa così alla concorrenza: “introduzione del legno lamellare che nei primi tempi era prodotto da noi”, racconta Giovanni, “la marcatura CE ben prima che la legge la rendesse obbligatoria, dal 1985 l’esclusivo utilizzo di vernici ad acqua”, aggiunge Ersilia, mentre David si affaccia, saluta e lascia a padre e sorella, il racconto della storia.
Ersilia e David entrano in azienda subito dopo la fine delle scuole medie superiori, liceo classico lei, geometri lui, e pian piano, lei in ufficio e lui in produzione, condividono con Giovanni l’onere della gestione aziendale.
Nel tempo anche altri tentativi, anche di diversificazione: “un impianto per la produzione di energia da olii vegetali, oggi fermato per il costo della materia prima, e un impianto per la produzione di pellet che utilizza legno vergine da scarti di produzione e un po’ di legno di castagno” del quale la zona è ricca.
La ricerca di nuove opportunità produttive è costante. In questi giorni sta per entrare in funzione un impianto fotovoltaico istallato negli scorsi mesi e un nuovo macchinario appena arrivato che consente una maggiore e migliore produzione di infissi. Insieme ai 18 dipendenti e ai collaboratori esterni, posatori e commerciali, si affaccia la terza generazione, per il momento Annalisa e Leonardo, figli di Ersilia e Domenico, anche lui in azienda, poi forse arriverà anche Francesco, uno dei due figli di David, che ora sta completando gli studi.
Una lunga storia, di persone che hanno attraversato le diverse intemperie che da metà del secolo scorso ad oggi si sono succedute!
Nella speranza che il futuro sia più clemente, auguri!
Fonte – Cna Rieti-@cnarieti · Servizi per le aziende
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Ascoli Piceno- Palazzo dei Capitani del Popolo la Mostra: Luce nel silenzio Andrea Benetti e Dario Binetti-
Fino al 27 aprile 2025, lo storico Palazzo dei Capitani del Popolo di Ascoli Piceno ospiterà la mostra “Luce nel silenzio”, un’esperienza artistica e sensoriale unica, firmata da Andrea Benetti e Dario Binetti, con la curatela del prof. Stefano Papetti.
L’esposizione si articola in un dialogo tra la luce e l’oscurità, tra il visibile e l’invisibile, attraverso 21 opere che fondono bassorilievo e fotografia, immergendo lo spettatore in un’atmosfera evocativa e mistica. La mostra si ispira alle profondità delle Grotte di Castellana, luogo iconico di silenzi millenari, e porta in superficie suggestioni ancestrali e archetipi visivi che parlano direttamente all’anima.
Andrea Benetti, artista e ideatore del Manifesto dell’Arte Neorupestre, e il fotografo Dario Binetti hanno creato un percorso espositivo in cui le ombre e i bagliori si fondono, restituendo immagini che sembrano emergere da un tempo remoto, in un richiamo alla spiritualità primitiva e alla ricerca di significati nascosti.
Ascoli Piceno- Palazzo dei Capitani del Popolo la Mostra: Luce nel silenzio Andrea Benetti e Dario Binetti
La mostra è promossa da Italian Art Promotion e Alchemical Shadows, con il patrocinio del Comune di Ascoli Piceno e la collaborazione delle Grotte di Castellana, il cui fascino ha ispirato il progetto artistico.
Un ringraziamento speciale al Comune di Ascoli Piceno ed al Comune di Castellana e alla Dirigenza delle Grotte di Castellana per il supporto al progetto.
Aspetti della pittura barocca, in Amatrice. By Massimo Francucci
Descrizione del libro di Massimo Francucci–Piazze spaziose, alcuni bei palazzi e chiese gli danno aspetto di città. Tra queste è notevole la chiesa di San Francesco romanica, con un bel portale ogivale e una grande rosa, con l’interno ad una navata, con abside poligonale, deturpato da aggiunte di altari barocchi”. Declinata secondo i gusti del tempo, ancora incapaci di inserire il Barocco in un sistema critico coerente, questa descrizione di Amatrice inserita da Roberto Almagià nella voce dedicata alla cittadina nell’Enciclopedia Treccani (1929) esplicita inconsapevolmente la difficoltà di confrontarsi con la produzione pittorica amatriciana tra Seicento e Settecento. I problemi politici che nel secolo precedente erano culminati nel saccheggio da parte delle truppe imperiali nel 1528 e dieci anni più tardi nell’affidamento del feudo da parte di Carlo V al suo consigliere di guerra Alessandro Vitelli, si intensificarono ulteriormente nel Seicento, che vide il principe Alessandro Maria Orsini rinchiuso in Castel Sant’Angelo fino al 1683 con l’accusa di aver ucciso nel 1648 la moglie Anna Maria Caffarelli. Ai problemi politici vanno aggiunti i disastri naturali, quali i devastanti terremoti che colpiranno la zona e renderanno travagliata l’esistenza agli abitanti della cittadina laziale: il più terribile si verificò il 7 ottobre 1639 e produsse “la morte compassionevole di molte persone, la perdita di bestiami d’ogni sorta” 1 . In seguito l’evento sarebbe stato collegato alla maledizione lanciata contro Latino Orsini, signore della città, amante di spettacoli teatrali licenziosi, da San Giuseppe di Leonessa, il cui corpo venne trafugato dai suoi concittadini, approfittando proprio dell’assenza degli abitanti, che erano sfollati in seguito al sisma 2 . Non sorprenderà a questo punto che i dipinti di maggior pregio e interesse tra le opere seicentesche conservate precedano quel terremoto, di cui si sarebbero peraltro registrate repliche importanti nel 1672, nel 1703 e nel 1730. Ci si riferisce in particolare allo stupefacente San Lorenzo che adora la Trinità della chiesa di Sant’Agostino ( , un dipinto che sorprende per iconografia e composizione non propriamente canoniche e spicca per qualità pittorica. In basso a destra, con la dalmatica rossa, Lorenzo, inginocchiato al fianco della graticola, è colto nell’atto devoto di baciare il piede di Cristo, secondo un gesto che sembra richiamare il cerimoniale pontificio. A sinistra è raffigurato un desco con un libro aperto, penna e calamaio. Nella parte superiore si assiste a un aggrovigliarsi di figure che vede emergere come protagonista Cristo, volto a scrutare direttamente lo spettatore con sguardo fermo ma comprensivo, mentre con la destra benedice e con la sinistra sorregge un tomo con l’alfa e l’omega. Nelle pieghe dell’ampio manto rosso si 82. Paolo Guidotti, il “Cavalier Borghese”, San Lorenzo che adora la Trinità. Amatrice, chiesa di Sant’Agostino
Aspetti della pittura barocca, in Amatrice. Forme e immagini del territorio, a cura di A. Imponente, R. Torlontano. Milano, 2015, p. 132-143. By Massimo Francucci
Aspetti della pittura barocca, in Amatrice. By Massimo FrancucciAspetti della pittura barocca, in Amatrice. By Massimo FrancucciAspetti della pittura barocca, in Amatrice. By Massimo FrancucciAspetti della pittura barocca, in Amatrice. By Massimo FrancucciAspetti della pittura barocca, in Amatrice. By Massimo FrancucciAspetti della pittura barocca, in Amatrice. By Massimo Francucci
Allegate n.5 foto relative alla Processione del 1992.
Filetta , località sita a 5km. dal capoluogo Amatrice, dove il 22 maggio 1472 ,dalla pastorella Chiara Valente, fu trovata una piccola immagine incisa su di un cammeo , che fu venerata dal popolo.
AMATRICE-Santuario di Filetta del sec. XV:
Nello stesso anno(1472), nel luogo in cui avvenne il rinvenimento dell’Immagine , fu eretta la chiesa di Santa Maria dell’Ascensione.
Il Santuario, nella facciata principale , presenta un portale ad arco acuto, un campanile a doppia vela e, lateralmente, un secondo ingresso.
L’interno della chiesa è ad una sola navata, il soffitto è a carena. I dipinti, di notevole interesse, sono opera degli Artisti Dioniso Cappelli, Pier Paolo da Fermo e di altri pittori minori locali.
Ogni anno, la domenica dopo l’Ascensione, il reliquiario, contenente la Sacra immagine, è portato in processione , dalla chiesa di San Francesco di Amatrice sino al Santuario di Filetta.
La Processione, prima di avviarsi verso Filetta, sosta nella chiesa del Crocifisso in Amatrice, dove il reliquiario viene preso in consegna, dopo una piccola cerimonia, dal Parroco di S.S. Lorenzo a Flaviano, il quale ha la giurisdizione ecclesiastica su Filetta.
La processione dei fedeli riprende il cammino e giunta al torrente Mareta si congiunge con i cortei delle Confraternite di S.S. Lorenzo a Flaviano, che hanno il privilegio di accompagnare la Madonna del Santuario di Filetta, restando, come indica il cerimoniere, in prima fila. Questa processione , come è sopra descritta, si rinnova da secoli rispettando ogni parte del vecchio cerimoniale.
Le foto allegate al post:
A) Madonna di Filetta;
B) Santuario di Filetta del sec. XV:
C) Filetta di Amatrice – la casa della pastorella Chiara Valente, la quale, il 22 maggio del 1472, trovò la Sacra Immagine della Madonna;
D) Amatrice-Chiesa di San Francesco (sec.XIII)-Altare ligneo con fregi, capitelli e pregiati lavori d’intaglio. Al centro, la Sacra Immagine della Madonna di Filetta, custodita nell’artistico e prezioso reliquiario- Particolare :le famose 7 chiavi con cui viene chiusa.
E) Seguono n.5 foto relative alla Processione del 1992.
AMATRICE- Festa della Madonna della Filetta.AMATRICE-Santuario di Filetta del sec. XV:Filetta di Amatrice – la casa della pastorella Chiara Valente, la quale, il 22 maggio del 1472, trovò la Sacra Immagine della Madonna;AMATRICE-Sacra Immagine della Madonna di FilettaAMATRICE-foto relative alla Processione del 1992.AMATRICE-foto relative alla Processione del 1992.AMATRICE-foto relative alla Processione del 1992.AMATRICE-foto relative alla Processione del 1992.
In questo momento di difficoltà e di tristezza delle nostre terre.Da ogni angolo del mondo si è sempre collegato il nome di questa gloriosa cittadina all’arte culinaria. Ma, Amatrice, più che per gli spaghetti, merita di essere citata, ricordata e visitata per i tesori artistici che accoglie. Con la speranza che tali capolavori possano tornare, insieme al territorio oggi martoriato, quanto prima a risplendere.
AMATRICE omaggio alle sue Opere d’ArteAMATRICE omaggio alle sue Opere d’ArteAMATRICE omaggio alle sue Opere d’ArteAMATRICE omaggio alle sue Opere d’ArteAMATRICE omaggio alle sue Opere d’ArteAMATRICE omaggio alle sue Opere d’ArteAMATRICE omaggio alle sue Opere d’Arte
Testi di Giovanna Alvino, Gianfranco Formichetti e Tersilio Leggio-
DESCRIZIONE
Aspra e boscosa contrada montana, sublime, la Sabina rimase sempre appartata; la sua caratteristica peculiare si potrebbe definire la vocazione all’isolamento.
Medioevale è ancor oggi il volto della capitale della Sabina, Rieti, e dei principali centri: Amatrice e Antrodoco con le loro chiese romanico-gotiche, la francescana Greccio in cui nacque il presepe, Leonessa con i suoi affreschi trecenteschi, Cittaducale di fondazione angioina e la grande abbazia di Farfa.
Anno1993 / 228 PAGINE- Edizione bilingue: Italiano/Inglese
Poeta pastore di PIEDELPOGGIO frazione di LEONESSA (Rieti)
“…In questa villa deliziosa e amena
che sembra in tutto l’isola cumana
vidi del dì la luce alma e serena….”
Come documenti di quell’antica rustica musa, trascriviamo alcune ottave di Angelo Felice Maccheroni, di Piedelpoggio (1801-1882) e due lettere in ottave scritte agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso da un pastore della frazione di Villa Massi.
Dalla “Pastoral Siringa” del Maccheroni:
Quando poi giunge di Settembre il fine, Che ogni giorno dal ciel la pioggia viene, Vedendo nevicar per le colline, Dice il pastor: Quà non si stà più bene; D’uopo è fuggir dalle pendici alpine, Ed in Maremma ritornar conviene; Per cui Paolo, Francesco e Giovannone, L’uno e l’altro a partir già si dispone.
ANGELO FELICE MACCHERONI Poeta pastore di LEONESSA Frazione PIEDELPOGGIO
Secondo l’antica tradizione, la partenza e il ritorno dalla transumanza avvenivano in concomitanza con le due feste di S. Michele Arcangelo la prima delle quali era celebrata il 29 settembre, giorno che commemora la dedicazione della prima chiesa dedicatagli a Roma, nell’anno 530, da papa Bonifacio II. La seconda, l’otto di maggio, celebrava l’apparizione avvenuta, nel 663, alla vigilia della battaglia di Siponto combattuta dai Longobardi del ducato di Benevento contro i Saraceni. In quel giorno l’Arcangelo annunciò all’esercito cristiano la vittoria. Per quanto riguarda Leonessa, forse per le condizioni climatiche, il ritorno ‒ fin dove giunge la memoria degli ex-pastori ‒ avveniva in prossimità della festa di S. Giovanni Battista, da cui il detto: «sangiovanni: ‘rriano li panni» riferito ai panni sporchi di quanti, dopo giorni di cammino, tornavano a casa. La coincidenza delle date della transumanza con le due feste dell’Arcangelo – ancora vigente in alcune regioni d’Italia, come ad esempio in Valle d’Aosta ‒ è dovuta al ruolo di protettore attribuito all’Arcangelo. Il medesimo ruolo, nell’antichità, spettava a Ercole come dimostra il culto dedicato al semidio nel tempio italico-romano di San Silvestro, sul cammino delle transumanze che dall’altopiano leonessano raggiungevano Norcia e l’imbocco dell’antica via diretta a Spoleto, e viceversa in estate. Il lungo cammino attraversava luoghi inospiti infestati da potenziali nemici visibili e invisibili. Il suo protettore non poteva non essere un eroe distruttore di mostri, come Ercole ‒ che tra un’eroica impresa e l’altra allevava bovini ‒ o un Arcangelo guerriero capace di tenere a bada l’angelo ribelle da cui ogni male, disgrazia, incidente e malattia provengono.
ANGELO FELICE MACCHERONI Poeta pastore di LEONESSA Frazione PIEDELPOGGIO
Quando poi di partir prossima è l’ora Giovanni mette il basto alla somara, Pietro dice alla figlia: Addio, Leonora, Vòlto alla sposa: Addio, consorte cara; Ed ella, ch’il partir di lui l’accora Di accompagnarlo non si mostra avara, Nel distaccarsi poi gli fa premura Che le scriva sovente, e si abbia cura.
ANGELO FELICE MACCHERONI Poeta pastore di LEONESSA Frazione PIEDELPOGGIO
Lu colle sparticore
Uno dei luoghi deputati agli addii era un colle poco lontano dalla frazione di Albaneto, che aveva meritato il nome di “Sparticore”: dove il cuore “se spartisce”, si spezza. Dalla cima del colle, nel trapestio delle greggi e il concitato abbaiare dei cani, spose, figli e parenti salutavano i loro cari che avrebbero rivisto dopo otto mesi quando sui monti indugiano gli ultimi lembi di neve e nei boschi già canta il cuculo. Tornati a casa dopo l’addio, per giorni, fino a quando la transumanza non fosse giunta a destinazione, si evitava con cura di spazzar casa, altrimenti i cari assenti non avrebbero fatto ritorno, o ritardi e disgrazie lo avrebbero reso penoso. Dalla sera della partenza, i nomi dei congiunti lontani sarebbero stati ricordati nel rosario quotidiano, intonato dal più anziano della famiglia riunita attorno al focolare. Un autorevole studioso, George Dumézil, ha formulato l’ipotesi che la sabina Vacuna, la Madre Terra vacua ormai di frutti ‒ cui dopo gli ultimi raccolti erano dedicati i rituali fuochi d’autunno (“uacunales foci”) e tavole imbandite ‒ fosse anche protettrice degli assenti durante la loro vacanza e ne propiziasse il ritorno.
Da quei villaggi, in questo tempo ogni anno Parte col padre il figlio, il zio col nonno, Restano appena quei che più non hanno Lena e vigor qual pria, per cui non ponno; Costoro in guardia delle donne stanno, Gli altri, conforme i lor bisogni vonno, Uomini adulti e giovani di senno, Vanno per quella via ch’ora vi accenno.
Il cammino seguito dalle greggi che si recavano nella campagna romana, da Leonessa, percorrendo la Vallonina, attraversata Valpagana, valicava il Monte Corno scendendo verso Poggio Bustone e Cantalice. Attraversata la pianura reatina, percorrendo la Salaria, le transumanze si dirigevano a Nerola. Da lì, passando per Monterotondo, raggiungevano la campagna romana. Un percorso alternativo, seguendo il corso del Rio Fuscello che nasce ai piedi del Monte Tilia, raggiungeva Polino attraverso l’antica via che univa il borgo medievale fortificato del Fuscello al castello di Polino.
Secondo un’antica tradizione abruzzese (Leonessa rimase aquilana fino al 1928) il bordone che accompagnava i transumanti doveva essere di nocciolo, legno dotato del potere di mettere in fuga i serpenti. Il greco Dioscoride raccomandava di portare nocciole nella cintura per allontanare gli scorpioni e una leggenda germanica raccolta dai fratelli Grimm narra che la Vergine, assalita da una vipera mentre era intenta a coglier fragole per il suo Bambino, trovò rifugio tra i rami di un nocciolo. Riconoscente, benedì l’umile alberello che, da allora, fu dotato del potere di tener lontane le serpi.
Su gli aridi finocchi ove ha già spasa Doppia pelle, il pastor dorme e riposa, E con la mente di pensieri invasa Sogna la prole sua, sogna la sposa; Si desta e pensa serio alla sua casa, Che lasciolla del tutto bisognosa, E quest’è quel che il cor gli affligge in guisa Che pargli aver da sen l’alma divisa.
Il giaciglio dei pastori ‒ la “rapazzola” ‒ era composto da un graticcio di rami poggiato su “forcine” di legno infisse nel terreno. Sul pagliericcio di fieno o erbe silvestri, qui preparato con rami di finocchio selvatico, venivano stese (“spase”) pelli di pecora. A volte, il pensiero della famiglia lontana impegnata nella quotidiana impresa del sopravvivere, interrompeva il meritato sonno del pastore e questi, a lume di candela o nelle brevi pause concesse dal lavoro, affidava alle lettere i suoi pensieri:
Dar notizia di me ti posso intanto; Sino al presente dì bene mi sento Solo mercè del Nume unico e santo, Che adorno fè di stelle il firmamento; Ma rivolgendo il piè per ogni canto Passo li giorni miei, fra pena e stento, E quel che mi rende il cor consunto, La nostra dura lontananza appunto.
Il lavoro diventa più faticoso se il cuore è oppresso dalla pena: nel caso del pastore, dalla nostalgia del borgo natale, dal vuoto creato dalla lontananza dei cari. Per quanto riguarda gli stenti, l’alimentazione del personale di servizio, oltre alla razione giornaliera di pane e ricotta, pasta, sale, legumi, comprendeva un po’ di carne nei giorni di festa, o quando un capo di bestiame moriva, secondo il detto: «Acquacotta, ricotta e pecora morta». “Acquacotta” dichiara che il principale ingrediente del pasto serale era l’acqua calda con l’aggiunta di qualche erba di campo, versata sul pane raffermo e condita (nelle versioni di lusso) con una spolverata di cacio pecorino. «Quannu lu bufurghittu fa baldoria, / bròdu de remolaccia e de cicoria». Il ramolaccio è il Raphanus raphanistrum L.; la cicoria è il tarassaco, o dente di leone. In ogni caso, per via della quantità di pane ammollo, la frugale zuppa riempiva la pancia: «Acquacotta, pane spreca e trippa abbotta».
Se vuoi disacerbar, diletta sposa Quella pena crudel ch’ho in petto chiusa, Alla lettera mia rispondi in prosa Senza punto indugiar conforme si usa, Dammi nuova di te se qualche cosa Ti occorre mai, non dei restar confusa, Al tuo consorte il tuo voler palesa, Che non guarda per te veruna spesa.
Il pastore chiede alla sposa di rispondere alla sua lettera, non in ottave, certo, ma nella prosa stentata di chi appena sa scrivere. Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, spose e fidanzate chiedevano al “vetturale” incaricato di consegnare la corrispondenza, o al parroco, di trasformare la loro voce in segni. Il compenso consisteva, in genere, in quattro uova e un timido “grazie” balbettato con la vergogna d’essere ignoranti e di aver dovuto affidare a terzi i propri sentimenti e le questioni di famiglia. D’altro canto, neanche i pastori compositori di ottave, spesso, sapevano scrivere ed erano costretti a dettare i loro versi a qualcuno che sapesse tenere in mano la penna. Le ariosteggianti ottave di Angelo Felice Maccheroni furono dettate a un “vergaro” che, verso per verso, le trascrisse. Un’impietosa, vecchia strofetta, si burlava della verve letteraria dei pastori: «Lu pecoraru quanno va ‘n maremma / se crede d’esse’ giudice e notaru: / la cóva (coda) de la pecora è la penna, / lu sicchiu de lu latte è ‘l calamaru», o, in modo più diretto: «la groppa de la pecora è la carta, / ce scrive ‘n accidenti che lu spacca».
Rispetta i cenni miei, vivi lontana Dai Proci, qual Penelope in persona Guardati conversar con gente strana Ancorché avesse in mano la corona, Per la casa propensa, ai figli umana Mostrati ognor, qual madre ottima e buona, Vivi i giorni così di gioja piena, Di me non ti pigliar veruna pena.
Dei saluti del prete ti ringrazio, Meglio sarìa non me ne dessi indizio, Non ci parlar neppur per breve spazio Che potrebbe recarti un pregiudizio; il prete, moglie mia lo scrive Orazio Dice addrizzar gli affari a Cajo, a Tizio; Va nelle case altrui quando stà in ozio Per addrizzare il proprio suo negozio.
Nel caso si fosse lasciata a casa una moglie giovane o una fidanzata, tra le pene suscitate dalla lontananza vi era la gelosia che pungeva più delle pulci sotto i rustici panni. Se l’antico detto «Lontano dagli occhi, lontano dal cuore» rispondeva a verità, otto mesi di forzata separazione avrebbero offerto ai malintenzionati una ghiotta opportunità, e obbligato l’amante o lo sposo lontano a percorrere un lungo sentiero irto di rovi. Devoto cristiano, ma imbevuto di anticlericalismo garibaldino, Maccheroni punta i suoi strali contro il prete del villaggio. Ma il poeta-pastore non è l’unico: un antico “dispetto” cantato dai mietitori ‒ molti provenienti dalle Marche ‒ recitava: «Mo ch’è vinuta l’ora de lu mète / povera bella mia, chi sse la gode? / e se lla gode quel boia de lu prete», a volte con la chiusa «oppuramente quarghe sbirru o frate».
Ai crucci del marito, la moglie risponde lamentando la scarsezza di grano per il pane e la pasta; la mancanza di farro e lenticchie; la penuria di legna: ormai è primavera, nei campi il grano germoglia ma i monti sono ancora coperti di neve. E fa freddo. Ma ciò non fa meraviglia, del clima locale si diceva: «Leonessa: undici mesi de friddu e unu de friscu». Tra le buone notizie: il peso del porcello, il parto della pecora e l’inizio d’una nuova gestazione della sposa fedele. Il maiale, nel lungo periodo invernale, offriva preziose proteine animali. Si usava dire: «Nengua, nengua s’ha da ninguà, so ‘ccisu lu pórcu, so fattu lu pa’, Nevichi pure, se deve nevicare, ho ucciso il maiale e ho fatto il pane». Il gregge domestico, composto da qualche pecora e un paio di capre, d’inverno rimaneva nella stalla, a primavera ruzzava sui prati. Non c’era bisogno di portarlo a svernare nella campagna romana, o in maremma, come bisognava fare con le sterminate greggi dei Torlonia, dei Massimo, o di altre famiglie della nobiltà romana d’antico blasone. Per quanto riguarda l’arrivo d’un nascituro, la notizia in sé era lieta ‒ in campagna c’è sempre bisogno di braccia ‒ ma con l’incognita del sesso: se fosse nato un maschietto, l’evento sarebbe stato celebrato con suonatori d’organetto e poeti a braccio, vino, pane e prosciutto offerti ai passanti fuori dell’uscio di casa. Se fosse nata una femmina, il prosciutto sarebbe stato sostituito da una “spalletta” di minor pregio, senza suonatori né poeti. Nelle famiglie dedite alla pastorizia, i figli nascevano in maggior parte tra marzo e maggio: prima di giugno non c’era modo di fare l’amore e, appena tornati a casa, l’amore era la prima cosa che si faceva. Un detto recita: «Chi nasce de gennaru / n’è fiju a ‘n pecoraru».
Coi figli insieme anch’io vivo contenta, Mercè l’alta Bontà Divina e Santa, Solo il continuo freddo mi tormenta, Che di neve ogni colle ancor si ammanta; A germogliar comincia la sementa; il porchetto pesò libre quaranta, La pecora ha figliato, io sono incinta Sol per opera tua, che non son finta.
Devi saper di più che la provista Del grano, altri due mesi non mi basta, Se un altro rubbio* o due, non se ne acquista Non avrò certo con che far la pasta; Ho terminato il farro, e ciò mi attrista, Son di lenticchie ancor priva rimasta, Li figli senza scarpe, io sono vesta**, E l’esattor sovente mi molesta.
Dunque marito mio sia tua la cura Di provveder la tua famiglia cara, Intanto io ti saluto, e son sicura Che non avrai per me la voglia avara, Ti salutano i figli, e con premura La tua Benedizion chieggono a gara E ti saluta il buon curato ancora; Addio, che altro da dir non ho per ora.
ANGELO FELICE MACCHERONI Poeta pastore di LEONESSA Frazione PIEDELPOGGIO
Dal generale naufragio della rustica musa d’un tempo, quando nell’amore la cortesia era d’obbligo e la ricerca di bellezza spingeva a imitare i grandi poeti con versi a volte maldestri scritti negli stazzi o nelle capannucce fumose, si è salvato molto poco o nulla. Da parte nostra, abbiamo avuto la sorte di salvare dall’oblio due lettere in ottave conservate nella memoria di un vecchio pastore di Villa Massi (Ca’ Massu) una frazione di Leonessa. Un tempo erano scritte a matita in un quaderno, assieme alle minute di altre lettere inviate dalla campagna romana a una ragazza del borgo con la quale il pastore pensava di costruire un onesto futuro. Le cose andarono diversamente e il nostro finì con lo sposare un’altra donna. Quel quaderno, conservato tra i ricordi personali, finì nel fuoco. Così la consorte intese distruggere il ricordo d’una donna colpevole d’aver fatto cantare il cuore del suo uomo prima che lei entrasse nella sua vita. Rammento che l’anziano pastore, mentre attendevo con ansia che i led del registratore iniziassero a palpitare, chiuse gli occhi. Un’espressione di sofferenza gli si dipinse sul viso. Iniziò a balbettare frammenti di versi. «No me llu recordo!… No me lli recordu!…». Poi, il volto si distese e i versi proruppero, uno dietro l’altro, formando le ottave tra qualche lacrima serena.
1. Signorina, vi giuro, il mio pensiero il mio ideale è sempre fisso a lei, certo, mi creda, quel ch’io dico è vero io non riposo più solo per lei. La tua persona mi tormenta e credo che vivere più a lungo non potrei se la tua persona impertinente del mio gran male non si sente niente.
Io lo prego quel Dio, l’Onnipotente, che possa restaurar la vita mia, quello che porge aiuto a ogni dolente quel che fa nascer tanta simpatia. Il mio cuor l’ha fatto prepotente e va cercando la persona tua credi ragazza che ti pongo il cuore: la mia vita ha bisogno del tuo amore.
Se sei una donna che sai ripensare al mio voler non devi contraddire ché giorno e notte sempre sto a pensare dal gran pensiero mi sento morire. Perciò ho voluto questo a lei svelare: se la fortuna non mi vuol mentire io vorrei mischiar la nostra razza, vorrei sposare a te, bella ragazza.
Io nel mondo ne vidi abbastanza belle ragazze e di tanta delizia ma no’ la vidi con quella tal grazia la quale è lei e di tanta mestizia. Lei sola è la persona che mi sazia lei sola è la gran donna di letizia lei sola è la più bella tra le belle somiglia alla maggiore delle stelle.
Scrivo ‘sto foglio con una speranza d’essere al mondo il più felice nato se contraria la trovo ora, ragazza, credi sarei il più sventurato più con ragazze non farei alleanza con altre donne non sarei sposato soltanto lei, dolce leggiadria, farà felice la persona mia.
Voi siete al mondo la gran donna pia che fece nascer Dio sol per amare amerai dunque la persona mia perché io ti amo con perfetto amore. Per te sento il mio cuore scappar via dentro il mio petto più non vuole stare soltanto per il tuo viso tanto bello ch’è tanto tempo che io penso a quello.
Per te sento il mio cuore meschinello e vincere non posso il grave affanno attendo sempre quel mesetto bello di rivederti già mi par mill’anno. Io son nato tra gli altri poverello per questo riconosco il grave danno ché la tua persona e leggiadria attende uno d’alta signoria.
Quella sarebbe la rovina mia come ti ho scritto nel foglio passato se sei contraria alla domanda mia meglio sarebbe che io non fossi nato. Or la saluto perché conveniva, il suo diletto uomo innamorato s’affida a lei e il nome ora le dice si chiama, certo, Antonio De Felice.
2. Son tanti mesi che io lontano vivo con la speranza di dimenticarti ma sappi, bella, che quando di te son privo somiglio a un giocatore senza carte e se col gioco si rimane privo delle grandi ricchezze e dei miliardi un vero giocator che al gioco tiene privo di carte vive in aspre pene.
Così succede a me che ti vuol bene tutta la mia passion verso di tene la volsi quando ti conobbi bene ché mi accendesti il sangue nelle vene ma visto che il tuo cuore non contiene altro che crudeltà verso di mene io me ne allontanai contro mia voglia e ancora vivo fra tormenti e doglia.
Ancora il mio cuore trema come foglia da quando ti lasciai, o Maddalena, sento che si consuma e mi fa noia saperti bella e mi volti la schiena. Spero che l’hai cambiata la tua voglia che ora mi accetti con faccia serena perciò ti mando questa letterina per dirti la mia idea, o signorina.
A li miei occhi sei la più carina che in tutto il mondo non ha paragone ti vorrei assomigliare a una regina soltanto che ci manca il seggiolone*. Di altri ornamenti la tua personcina è già dotata da nostro Signore ora io penso che ci vuol marito perciò mi offro per tuo amante fido.
In questo mondo mi trovo smarrito e cerco una persona in compagnia che mi vuol bene e che mi porge aiuto che mi accompagni in una retta via. Perciò da quando io ti ho conosciuto ho scelto te come persona pia che possa soddisfare la mia voglia: rispondi presto e levami ‘sta noia.
Vedo ogni pianta rinnovar la foglia così rinnoverai il tuo pensiero se prima il mio parlar ti facea noia ora spero mi accetti volentieri spero che non sei dura come soglia altrimenti mi mandi al cimitero perché a ‘sto mondo do’ c’è forza e pace nulla gli manca a chi il lavoro piace.
Io già mi sento di essere capace di provvedere tutto il necessario, se la fortuna poi sarà fallace Iddio comanda il condottier per mare. Ora ti dico fai come ti piace e ti saluto perché è necessario or chi ti ama il nome qui ti dice si chiama certo Antonio De Felice.
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*seggiolone: il trono
Pasqua di sangue sul Monte Tancia in Sabina (aprile 1944)
Articolo di Rosario Bentivegna- (da Patria Indipendente, aprile 2000)
Nel 79° anniversario della “Pasqua di Sangue” che ha percosso la Sabina nell’aprile del 1944, da Poggio Mirteto a Poggio Bustone, a Leonessa, ad Amatrice, alle Fosse Reatine, e in particolare nell’anniversario della battaglia del Monte Tancia che aprì quel terribile periodo, voglio ricordare anzitutto la fermezza e il coraggio di un grande Presule, che protestò apertamente contro le stragi terroristiche e contro la “guerra ai civili” condotta dai nazisti: S.E. Benigno Luciano Migliorini, Vescovo di Rieti. Egli allora non seguì l’esempio di altri Vescovi – da Roma a Zagabria – che risposero con il “silenzio” della “prudenza” e della “paterna imparzialità” ai delitti dei nazisti, o addirittura appoggiarono e consacrarono regimi e milizie criminali che osavano definirsi “cattolici”, e che quelle stragi commettevano, talvolta perfino nel nome di Cristo: al Pontificale di Pasqua Mons. Migliorini alzò invece, e fieramente, la sua protesta contro i crimini commessi dai tedeschi e dai fascisti, e il 14 aprile del 1944 espresse il suo sdegno con una terribile lettera di condanna, inviata al prefetto repubblichino e letta nelle domeniche successive da molti dei suoi parroci nelle chiese della Sabina.
In quella lettera il Vescovo di Rieti diceva tra l’altro:
“Per parte mia vi pongo tre domande:
“1. – Perché nelle esecuzioni capitali i condannati non possono avere il Sacerdote cattolico?
“2. – Perché i bimbi furono uccisi alla stessa stregua delle persone adulte? Che forse la loro innocenza doveva esse punita?
“3. – Perché le salme di coloro che furono sottoposti alla pena capitale non possono essere sepolte nel Camposanto, secondo il rito cattolico, mentre da tutti i popoli è ammesso che “oltre il rogo non vale ira nemica”?
“Tengo poi sepolta nel cuore, versando tutte le mie lacrime innanzi l’altare di Dio, un’altra cosa che voi ben potete immaginare.”
Solo qualche settimana più tardi, verso i primi di maggio, quelle salme potranno essere inumate sulla cima della montagna, e solo dopo la Liberazione troveranno pace in una tomba. Ma di chi erano quelle salme? La “battaglia del venerdì santo” del 1944 – era il sette aprile – cominciò alle prime luci dell’alba. Il comando tedesco aveva schierato durante la notte, intorno al massiccio del Tancia, nella Bassa Sabina, 60 km. a nord di Roma, reparti delle divisioni “Goering” e “Sardinia” e un battaglione di “Camicie nere”. I nemici cominciarono a salire sulla montagna che era ancora buio, in silenzio, guidati da spie repubblichine: speravano di cogliere nel sonno quei trecento ragazzi che dormivano sulla cima, nel Capannone di Tancia e nelle altre attestazioni di Rocco Piano, Crocette, Casale Ferri e Cerreta.
Le pattuglie partigiane che vigilavano le mulattiere e le gole si accorsero dell’insidia solo quando la cima fu scossa dalle granate dei mortai, ma attaccarono subito, cogliendo a loro volta di sorpresa il nemico impegnato nell’arrampicata. Altri compagni li raggiunsero, da ogni parte della montagna si cominciò a sparare. La brigata era numerosa, era stata ben armata e addestrata dagli ufficiali dell’Esercito italiano che la guidavano e che avevano saputo preparare ottime postazioni difensive sui fianchi del Tancia. Ne facevano parte soldati sbandati e giovani dei paesi sabini che avevano rifiutato i bandi fascisti. Si era formata subito dopo l’8 settembre; l’avevano organizzata a Poggio Mirteto i comunisti appena usciti dalla clandestinità e ufficiali dell’esercito che presidiavano la zona con i loro reparti, reduci dagli scontri avvenuti a Monterotondo il 9 e il 10 settembre, contro la Divisione Paracadutisti Student, nella battaglia per la difesa di Roma.
I partigiani Monici, Michiorri e Masci si incontrarono così con gli ufficiali D’Ercole, Toschi, Piccirilli, Giorgio Labò, che diverrà più tardi l’artificiere dei gap romani e per questo sarà fucilato nel marzo a Forte Bravetta, e Giuseppe Felici, che era stato ferito nella battaglia per Roma e che con Labò porterà a termine le prime azioni di guerriglia. Felici, ferito nuovamente nella battaglia del Tancia, sarà fatto prigioniero e passato per le armi. Tutti e due sono stati insigniti della medaglia d’oro al valor militare alla memoria. La brigata aveva assunto il doppio nome “D’Ercole-Stalin”, a significare l’incontro tra gli ufficiali e i soldati dell’Esercito, guidati dal Maggiore D’Ercole, e i partigiani comunisti di Poggio Mirteto, guidati da Redento Masci. Poche settimane prima la formazione partigiana era stata rinforzata da un nutrito gruppo di partigiani superstiti dell’8° zona garibaldina di Roma, guidati da Nino Franchillucci e Luigi Forcella, che, in seguito ai rovesci subiti dalla loro formazione nei primi giorni di marzo nelle borgate di Centocelle e Torpignattara, erano stati trasferiti in montagna.
I ragazzi della brigata quella mattina del 7 aprile, e per tutta la giornata fino a sera, impegnarono il nemico in scontri durissimi e inflissero pesanti perdite agli assalitori. Ma il nemico era troppo forte, bene armato e ben equipaggiato, e i partigiani, stanchi, affamati, a corto di munizioni, dovettero cedere. Tentarono con successo di sfondare l’accerchiamento verso Poggio Catino, Roccantica e Casperia (che allora si chiamava Aspra): una squadra partigiana, che si era attestata sul Monte Arcucciola, una delle cime del massiccio, con la sua mitragliatrice tenne aperta la strada della ritirata agli altri compagni. Attraverso quel varco riuscì a passare anche Anna Mei, che era lì con il marito e i suoi quattro figli (il più piccolo aveva quattro anni) e che fungeva da staffetta, da assistente sociale, da infermiera e da vivandiera.
Quando il gruppo dell’Arcucciola tentò a sua volta di sganciarsi, uno dei ragazzi fu ferito. Gli altri cercarono di trasportarlo via, ma quel ritardo fu fatale e furono irrimediabilmente accerchiati. Resistettero ancora; esaurite le munizioni si difesero usando i fucili come clave. A sera furono finiti.
Bruno Bruni, morente, fu coperto con il cappotto da Libero Aspromonti, che, unico e ultimo sopravvissuto, riuscì a sfuggire – era ormai notte fonda – strisciando nella macchia verso Poggio Catino. Bruno Bruni, di 21 anni, medaglia d’oro alla memoria,è rimasto lassù, insieme a Franco, suo fratello, di tre anni più giovane, Giordano Sangallo, di 16 anni, che aveva già combattuto in Roma con i Gap Centrali e nell’8° zona garibaldina a Centocelle e Torpignattara, Nello Donini, di 18 anni, Domenico del Bufalo, di 20 anni, Giacomo Donati, di 36 anni, Alberto di Battista, di 22 anni.
I tedeschi e i fascisti presero quella cima dopo un’intera giornata di durissimi scontri: le armi dei partigiani, ben attestate e ben usate, avevano falciato lungo le pendici del Tancia centinaia di nemici. Il conto non gli tornava, e così, tanto per pareggiarlo, quel conto, la mattina del giorno successivo, all’alba, i soldati della Wermacht, da quei “volenterosi carnefici di Hitler” che erano, bruciarono le casupole sparse sulla montagna e massacrarono tutti i civili che trovarono sul massiccio: otto donne dai 19 ai 66 anni; quattro vecchi dai 70 ai 78 anni e sette bambini dai 2 agli 11 anni.
Sul Tancia niente rimase vivo: anche gli animali che non poterono essere asportati ebbero la stessa sorte dei bambini, delle donne, dei vecchi, dei sei partigiani dell’Arcucciola. A maggior gloria di Hittler e di Mussolini.
Il rastrellamento continuò. Il nemico, scovati altri partigiani feriti nelle macchie e per le strade lungo le pendici della montagna, li finirono sul posto o li trascinarono a Rieti e li fucilarono: tra questi Giuseppe Felici e uno studente milanese di quindici anni, Giannantonio Pellegrini Gislaghi, che qualche settimana prima era fuggito di casa per andare con i partigiani.
Intanto a Poggio Mirteto tedeschi e fascisti rastrellavano spietatamente la cittadina. Le case dei partigiani individuati dalle spie furono date alle fiamme. Trenta poggiani, tra cui il “podestà” repubblichino Giuseppe De Vito, che, pur avendo accettato quell’incarico, si era sempre rifiutato di fare il delatore, furono anche loro portati a Rieti. Il “podestà” De Vito fu torturato dai suoi “camerati”, ma non gli strapparono un nome. Fu fucilato la mattina di Pasqua, alle Fosse Reatine, insieme ai partigiani della sua città catturati sul Tancia. Solo alcuni riuscirono a fuggire corrompendo i loro aguzzini.
Ma il nemico non si sentì ancora appagato e ordinò che quei poveri corpi che erano rimasti sul monte non fossero sotterrati, pena la morte. Dovevano restare esposti ai corvi e alle intemperie, dovevano disfarsi all’aria, non trovare pace in una tomba.
È’ a questo punto che parte la straordinaria iniziativa del Vescovo di Rieti, S.E. Benigno Luciano Migliorini, che non si nascose nel silenzio ma denunciò pubblicamente e con coraggiosa fermezza l’infamia dei nazisti, i quali non osarono violare la sacralità della sua funzione. Poggio Mirteto non si fece pacificare, e i suoi partigiani, insieme a quelli dei paesi vicini, continuarono la lotta. E così la città fu punita ancora.
Il 10 giugno – gli Alleati erano ormai alle porte – una motocarrozzetta tedesca passò per le strade deserte annunciando la ritirata dell’esercito germanico e invitando la popolazione a prendersi le derrate alimentari abbandonate. La gente era affamata, uscì all’aperto, sulla piazza, ma era una trappola, e fu centrata dai mortai dei nazisti armati di granate anti-uomo. Così accadrà anche negli anni ’90, al mercato di Sarajevo: le “tecniche” della pulizia etnica, benedette nel 1944 da Mons. Aljzjie Stepinac, arcivescovo di Zagabria, di recente elevato agli onori degli altari, sono sempre le stesse.
(da Patria Indipendente, aprile 2000)
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