DESCRIZIONE del libro di Simone Pétrement-“La vita di Simone Weil”-Goffredo Fofi:”La Weil fu un personaggio singolare non solo nelle idee, fuori dai conformismi lo fu anche nella vita, o meglio nella rigorosa tensione a far coincidere vita e pensiero, a confrontare e legare il pensiero e l’esperienza. Dice la sua biografia: ‘Aveva il dono di irritare molti e a volte fino al furore, e… continua a irritare ancora’. Simone Pétrement fu sua amica, e ha pagato il debito all’amicizia, al ‘miracolo dell’amicizia’ così caro all’altra Simone, scrivendone una biografia bellissima, esemplare per onestà e precisione, per partecipe interrogazione sul senso e il mistero di una esperienza eccezionale” (Goffredo Fofi).
Simone Weil
Biografia di Simone Weil (1909-1943) occupe une place tout à fait singulière dans l’histoire de la philosophie française contemporaine. Sans doute son acharnement à vivre en conformité absolue avec ses principes y est-il pour beaucoup et l’image de cette femme atteinte de tuberculose se laissant mourir, à Londres, en 1943, des privations qu’elle s’est imposées parce qu’elle n’est plus en état de combattre, illustre mieux qu’aucun autre de ses actes la nature de son engagement (physique autant que moral et intellectuel) du côté des pauvres, des démunis, des humiliés, des vaincus. Vérité et justice, tel est l’idéal qu’elle poursuit en véritable croisé. Elle le nourrira d’un travail intellectuel acharné et d’un engagement résolu dans tous les grands combats politiques de son temps : disciple d’Alain, agrégée de philosophie (1931), pénétrée des traditions chrétienne, grecque et hindoue, mais lectrice tout aussi éclairée des découvertes de la science moderne, elle s’établit comme ouvrière chez Alsthom puis Renault (1934-1935), s’engage aux côtés des combattants antifranquistes pendant la guerre d’Espagne (1936), se fait ouvrière agricole en 1941, avant de rejoindre la France libre en 1942-1943. Le destin exceptionnel de cette femme en quête d’absolu est ici raconté avec minutie et souci d’exactitude par quelqu’un qui l’a aimée et ne s’en cache guère. Son travail fait aujourd’hui référence.
Poesie di Stig Dagerman -Breve è la vita di tutto quel che arde
Traduzione di: Fulvio Ferrari-IPERBOREA casa editrice indipendente fondata da Emilia Lodigiani
DESCRIZIONE-Per la prima volta tradotta in italiano, un’antologia che dà conto di circa dieci anni di attività poetica di Stig Dagerman.
«Un giorno all’anno si dovrebbe immaginare / la morte chiusa in una scatoletta bianca. / A nessuna illusione si dovrebbe rinunciare, / nessuno morrebbe per quattro dollari in banca. // (…) Nessuno vien bruciato all’improvviso / e nessuno per strada ha da crepare. / Certo, è menzogna, son del vostro avviso. / Dico soltanto: Possiamo immaginare.» Stig Dagerman espresse anche in versi la vicinanza agli ultimi e l’umanesimo dolente che in una continua tensione tra speranza e disincanto attraversano la sua multiforme opera in prosa. Negli anni 1944-47 e 1950-54, fino al giorno prima di morire, scrisse per il giornale anarchico Arbetaren oltre 1300 dagsedlar, poesie satiriche a commento della cronaca politica e sociale che con il loro tono diretto contribuirono a fare di Dagerman un riferimento identitario per i giovani libertari della sua generazione. Il metro è per lo più tradizionale, quasi da filastrocca, ma la giocosità della rima e del ritmo potenzia per contrasto la durezza dei contenuti: gli accordi della «democratica» Svezia con la Spagna di Franco, i senzatetto di Stoccolma lasciati al freddo, i bambini armati per combattere le guerre dei grandi. Ai brevi componimenti di denuncia, questo volume affianca una scelta di versi in cui la forma irregolare insieme alla riflessione sulla condizione umana, pur sempre intrecciata all’impegno politico, avvicina l’autore alle avanguardie internazionali e ben accoglie simboli e metafore della sua narrativa. Una lettura toccante che aggiunge un tassello significativo al ritratto di uno sperimentatore instancabile al quale ancora oggi s’ispirano scrittori, giornalisti e musicisti di tutta Europa.
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Approfondimento
«Abbattete i poveri». E Dagerman si spense
Data: 1 Dicembre 2022
Recensione di Angelo Ferracuti a «Breve è la vita di tutto quel che arde» di Stig Dagerman, apparsa su La Lettura il 6 novembre 2022
Tutta la letteratura di Stig Dagerman è fortemente permeata di esistenzialismo politico e coerenza tematica, ma anche da un contrasto molto forte tra io e mondo, istinto di libertà, desiderio di giustizia sociale contrapposti alla brutalità del potere. Come la sua cristallina postura di autore è segnata da una combattività angosciata e a volte disperata, che pendolareggia tra sogno utopico e disincanto, speranza e disillusione, e da una militanza totale nel movimento libertario svedese vissuta a microfono aperto nella sua breve vita, iniziata nel 1923 e finita a soli 31 anni nel 1954 quando morì suicida al culmine del successo editoriale.
In poche stagioni ci ha lasciato alcuni libri di rara forza espressiva, valore letterario e trasporto emotivo, la passione e la purezza delle raccolte di racconti, romanzi come «Bambino bruciato», «I giochi della notte», «Il serpente», l’esordio del «1945», il lancinante «Il nostro bisogno di consolazione», un breve ma intensissimo monologo filosofico sulla tensione dell’uomo verso la felicità, il bisogno di libertà e lo schiacciante sistema di dominio sociale, che può reputarsi il suo testamento intellettuale; i reportage lirici di «Autunno tedesco», quando fu inviato da l’«Expressen» nel 1946 in Germania fra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia, a raccontare il Paese sconfitto, tutti libri fedelmente editi da Iperborea.
Un’altra componente di Dagerman e della sua letteratura è la ricerca ossessiva della coerenza visionaria attraverso quella che ha definito «La politica dell’impossibile», nella letteratura e nella vita, titolo di un libro di saggi, avversa a quella «Realpolitik», la politica concreta, pragmatica, dello status quo, dei compromessi e della rinuncia al cambiamento, schiacciata dal giogo economico.
Adesso esce il libro delle sue poesie politiche, «Breve è la vita di tutto quel che arde» (Iperborea) tradotto e curato con rigore e passione da Fulvio Ferrari, professore ordinario di Filologia germanica all’università di Trento, ma soprattutto grande conoscitore e divulgatore delle letterature scandinave. Si tratta di una scelta del suo corpus poetico che mette insieme testi sparsi ai «dagsedlar», dispacci quotidiani spesso scritti in rima affidati al giornale anarchico «Arbetaren» («L’operaio»), di cui era redattore, che però nel linguaggio corrente significa anche «ceffoni» per la loro immediatezza e vicinanza ai fatti di cronaca.
Insieme agli accadimenti storici c’è anche la vena esistenzialistica e romantica dello scrittore svedese: l’incrocio di questi due elementi è la sua cifra, il suo conio profondo che percorre tutta la sua opera, dentro quell’angoscia e paura prodotte dalla Seconda guerra mondiale che ne è il tellurico fondale storico.
Nel libro si alternano differenti stili compositivi, riflessioni intimistiche sulla condizione umana e il senso della vita, così come testi di impegno sociale come l’intenso «No pasarán» dove commemora l’epica tragica della guerra di Spagna con tutta la sua verve antifranchista, un inno alla lotta, alla resistenza.
La poesia di Dagerman ha una urgenza politica, ma soprattutto esistenziale, stilistica, la forma è il suo fuoco, la forma che incrocia gli ideali dei «Cuori ardenti» di cui parla in un saggio, anche per questo lo sentiamo contemporaneo e fratello, la sua letteratura è viva. I «dagsedlar», scritti con caustica ironia, hanno spesso l’andamento di una filastrocca, un gusto agrodolce, nel senso che ibridano lo stile cantilenante del verso con contenuti di dura crudezza, spietati, del palcoscenico impazzito del mondo, e nascono sempre da una notizia di cronaca.
I temi sono l’antimilitarismo, la bomba atomica, la condizione umana degli ultimi, la violenza sui bambini, un argomento molto caro a Dagerman, siano essi i senzatetto svedesi o gli africani dannati della Terra, i neri americani condannati a morte e portati al patibolo, come in «Due volte morto»: «Tutti quanti abbiamo da imparare,/ ci si allena ore e ore per fare il boia./ Che importa come un negro può campare,/ Quello che conta è che un negro muoia».
L’anarchico ribelle, quello che dice di voler opporre il potere delle sue parole «a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà», è anche al fianco dei lavoratori insorti in Germania dell’Est contro il regime comunista: «Quante volte il popolo avete chiamato./ Ora rispondiamo: Siam qui, siamo arrivati./ Fatevi avanti, popolari signori/ – e se vi è possibile, disarmati!».
L’ultima poesia scritta da Dagerman si intitola «Attenti al cane!», pubblicata il 5 novembre 1954, e nasce dopo avere letto la dichiarazione di un responsabile della Previdenza sociale di Värmland, una contea che si trova nella parte occidentale del Paese: «Certo è deplorevole che gente che vive di sussidi tenga poi un cane» fu l’affermazione indignata di una persona probabilmente appartenente alla ricca borghesia svedese.
Stig Dagerman il ribelle, lo scrittore nato nel cuore del proletariato e figlio di un operaio artificiere poverissimo e di una telefonista, quello posseduto dal radicalismo che giovanissimo diresse «Storm», il giornale della gioventù anarchica, reagisce a queste parole scrivendo versi venati di ironica indignazione, descrive la gente dei bassifondi come quelli che «stanno in stanzette strette e fosche/ con i loro bastardi costosi», poi la denuncia arriva con un’invettiva provocatoriamente sarcastica: «Ora è il momento di esser risoluti:/ Abbattere i cani! Non è buona cosa?/ E siano poi anche i poveri abbattuti,/ così il Comune risparmia qualcosa».
La poesia fu pubblicata il giorno dopo la sua morte, l’aveva scritta ventiquattr’ore prima di uccidersi con il gas di scarico della sua automobile.
Dopo una serie di tentativi di suicidio non riusciti, sprofondato in una cupa depressione, questa volta aveva organizzato tutto, scrivendo persino l’epitaffio per la sua lapide: «Qui riposa/ uno scrittore svedese/ caduto per niente/ sua colpa fu l’innocenza/ dimenticatelo spesso».
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Stig Dagerman
Stig Dagerman
PAOLO RUFFILI-LE POESIE DI DAGERMAN- Fonte sito www.italian-poetry.org
Stig Dagerman (1923-1954), svedese, è uno di quei talenti precoci che compiono tutto quello che li riguarda creativamente parlando entro i trent’anni, indipendentemente dal fatto che si sia deliberatamente tolto la vita al compimento dei 31 anni. Del resto aveva tentato di farlo qualche altra volta già prima e, a spiegarne almeno in parte la prospettiva autodistruttiva, c’è la sua vicenda biografica, anche se l’autore più tardi ha descritto l’infanzia come l’epoca forse più felice della sua vita. Ma, in seguito all’abbandono da parte della madre nei primissimi mesi dopo la nascita e per la difficoltà del padre minatore di garantire le condizioni essenziali alla crescita, il piccolo Stig fu ospitato e cresciuto dai nonni paterni. Nei nonni, similmente a quanto accadde allo scrittore austriaco Thomas Bernhard (con il quale c’è più qualche altra somiglianza sul piano della scrittura), trovò delle figure vivaci, rassicuranti ed intellettualmente stimolanti, dunque le prime condizioni per il futuro percorso intellettuale. L’uccisione del nonno nel 1940 da parte di uno squilibrato e, poco tempo dopo, la perdita della nonna colpita da una emorragia cerebrale, portarono Dagerman a commettere il primo di una serie di tentati suicidi. Trasferito a Stoccolma dal padre, a soli tredici anni poté avvicinarsi all’anarchismo e al sindacalismo e iniziò precocemente l’attività di scrittore in seno all’Unione Sindacale Giovanile, per poi diventare redattore del giornale Storm (La tempesta), per passare più avanti ad occuparsi di fatti di cronaca, nel combattivo giornale anarcosindacalista Arbetaren (L’operaio). La sua produzione ebbe un’accelerazione legata a un’energia esplosiva incontenibile: drammi teatrali, racconti, saggi e reportage, scritti satirici, poesie, romanzi. Divenne un originale esponente della letteratura quarantista, capitanata da Karl Vennberg e Erik Lindegren, e resta a tutt’oggi una figura mitica della letteratura svedese. Iperborea, che ha pubblicato romanzi e racconti, manda in libreria di Dagerman, Breve è la vita di tutto quel che arde (traduzione e cura di Fulvio Ferrari), poesie esistenziali, vivide e tormentate nei loro affondi dentro i labirinti della psiche, e poesie satiriche, a commento potente della cronaca politica e sociale del suo tempo. Sono versi sempre intensi, scritti in uno stile che attraverso l’ossessione, l’analisi impietosa, la satira amara, mira a mettere in scacco tutte le maschere di comodo dell’esistenza svelandone la realtà di tragedia e di farsa.
L’Autore
Stig Dagerman
Stig Dagerman –Anarchico lucido e appassionato incapace di accontentarsi di verità ricevute, militante sempre in difesa degli umiliati, degli offesi e dell’inviolabilità dell’individuo, Dagerman appartiene alla famiglia dei Kafka e dei Camus e resta nella letteratura svedese una figura culto che non si smette mai di rileggere e riscoprire. Segnato da una drammatica infanzia, intraprende molto giovane una folgorante carriera letteraria bruscamente interrotta dalla tragica morte, lasciando quattro romanzi, quattro drammi, poesie, racconti e articoli che continuano a essere tradotti e ristampati. Iperborea ha pubblicato Il nostro bisogno di consolazione, Il viaggiatore, Bambino bruciato, I giochi della notte, Perché i bambini devono ubbidire?, La politica dell’impossibile, Autunno tedesco e Il serpente.
casa editrice Iperborea- Chi siamo
Iperborea è una casa editrice indipendente fondata da Emilia Lodigiani nel 1987 per far conoscere la letteratura dell’area nord-europea in Italia.Primi a esplorarla in maniera sistematica, si è potuto farlo con vasta libertà di scelta e una produzione di altissima qualità, che spazia dai classici e premi Nobel, inediti o riproposti in nuove traduzioni, alle voci di punta della narrativa contemporanea.
Oltre ai paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia), Iperborea pubblica letteratura baltica, nederlandese, tedesca, canadese, islandese (incluse le antiche saghe medioevali), una collana di narrativa per l’infanzia (I Miniborei) e una serie dedicata alle strisce dei Mumin di Tove Jansson.
Dal 2018 lancia la serie The Passenger, un libro-magazine che raccoglie inchieste, reportage letterari e saggi narrativi che formano il ritratto della vita contemporanea di un paese o una città (non solo del Nord Europa) e dei loro abitanti. Dal 2020 The Passenger è tradotto anche in inglese, pubblicato e distribuito in tutto il mondo in coedizione con Europa Editions.
Nel 2021 è arrivata la serie Cose Spiegate bene, in collaborazione con il Post: ogni numero è dedicato all’approfondimento di un tema, attraverso articoli, infografiche e illustrazioni originali.
Inoltre, dal 2015, Iperborea organizza a Milano e in varie città d’Italia il festival I Boreali, dedicato alla cultura nordica.
Simone Weil, una vita scomoda-Articolo di Andrea Natile
Simone Weil nata a Parigi nel 1909 è la figlia di un medico alsaziano di origini ebraiche. Sorella minore del famoso matematico André Weil, ricevono entrambi un’istruzione laica.
Famiglia molto unita, costretta a frequenti spostamenti per seguire il padre, lei e il fratello erano costretti a prendere lezioni private; ciò permise loro di essere molto più avanti negli studi dei coetanei che seguivano i corsi normali.
André dimostra un precoce talento matematico e in famiglia è reputato un genio; è André, che per primo le insegna a leggere.
Sin dalla tenera età è sempre stata di salute cagionevole; trascorre spesso periodi di convalescenza a letto e legge moltissimo.
Fra il 1919 e il 1928 studia in diversi licei parigini. Sceglie la filosofia. Nel 1928 è ammessa all’École Normale Supérieure. Attratta da Cartesio, cui dedicherà la propria tesi, studia Marx e mostra un rigore che la distingue dai suoi coetanei.
Simone de Beauvoir, di un anno più anziana di lei che frequenta lo stesso liceo, ammette d’invidiarla, più che per la sua intelligenza, per il suo cuore:
«… pensa alla la Rivoluzione che avrebbe dato da mangiare a tutti».
Ma le due Simone non vanno d’accordo, intellettuale l’una, concreta e materialista l’altra.
Simone Weil
Superato l’esame di concorso per la docenza nella scuola media superiore; insegna filosofia fra il 1931 e il 1938 nei licei femminili di varie città di provincia:
Al suo primo insegnamento, genera scandalo distribuendo lo stipendio fra gli operai in sciopero. Decide di vivere spendendo per sé solo l’equivalente di quanto percepito come sussidio dai disoccupati, per sperimentare le medesime ristrettezze di vita.
In quegli anni è vicina ad ambienti trotskisti e anarchici. Nell’agosto del 1932 si reca a Berlino per conoscere il clima nel luogo più scottante del momento; è la vigilia della presa del potere da parte di Hitler.
Nel 1933 scrive articoli, condanna l’avvicinamento dell’Unione Sovietica alla Germania nazista; pensa lo stalinismo una forma di oppressione burocratica analoga al fascismo.
A fine dicembre ospita per alcuni giorni, nel suo appartamento di Parigi, l’esule Lev Trockij, assieme alla moglie. Ma l’esperienza si conclude presto con uno scontro verbale fra i due.
Pur in condizioni di salute precarie, soffre di una forte emicrania cronica, prova a conoscere direttamente la situazione operaia e ne scopre la terribile monotonia. Va come manovale nelle fabbriche metallurgiche di Parigi, ma avendo scarsa dimestichezza coi macchinari, nell’indifferenza dei compagni di lavoro, giunge il licenziamento.
«Laggiù mi è stato impresso per sempre il marchio della schiavitù».
La seconda esperienza di otto mesi, nelle officine Renault, aggrava ulteriormente il suo stato di salute ed è raccontata sotto forma di diario e di lettere nel libro “La condizione operaia”.
Prima di riprendere a insegnare in un liceo di Bourges, si reca in Portogallo, dove conosce e vive la miseria dei pescatori.
L’8 agosto 1936 varca la frontiera spagnola con un lasciapassare da giornalista ed entra come miliziana fra i volontari anarchici. Non essendo capace di usare il fucile, viene assegnata ai lavori in cucina. Ma già in settembre, dubbiosa sull’utilità del conflitto, torna a Parigi.
«Non era più, come mi era sembrata all’inizio, una guerra di contadini affamati contro i proprietari terrieri e un clero complice dei proprietari, ma una guerra tra la Russia, la Germania e l’Italia.»
Anche a causa delle violenze commesse dai repubblicani accantona definitivamente il marxismo, contro corrente rispetto agli intellettuali della sua generazione che lo riscoprono. Nello stesso anno, mentre viaggia per l’Italia, ad Assisi, viene attratta dalla fede cristiana, e riscopre la poesia. Iniziano le sue esperienze mistiche.
Simone Weil
Nella primavera del 1940 a causa dell’invasione tedesca, la famiglia abbandona Parigi e trascorre due mesi a Vichy. Durante l’invasione tedesca della Francia, il governo collaborazinista francese si sposta a Vichy.
Con i genitori si sposta prima a Tolosa poi a Marsiglia, dove viene arrestata mentre distribuisce volantini contro il governo di Vichy. Quando il giudice minaccia di chiuderla in cella con delle prostitute, replica di aver sempre desiderato conoscere quell’ambiente. Al che, il giudice la lascia andare credendola matta.
Torna ad insegnare, ma deve dimettersi, in quanto ebrea. Si occupa di procurare documenti falsi ai rifugiati. Dal momento che il padre e la madre non accettano di allontanarsi dalla Francia senza di lei, a maggio giunge con loro a Casablanca, in un campo profughi affollato da esuli ebrei.
In dicembre parte per Londra per unirsi all’organizzazione dei resistenti in esilio France libre. Digiunando, si sente spiritualmente vicina ai connazionali della zona occupata; trascorre giorni senza mangiare. In qualità di redattrice del giornale France libre, scrive vari articoli successivamente inseriti nel volume “Écrits de Londres”.
Tenta di essere inviata con un gruppo di infermiere in prima linea del fronte, ma la cosa viene rifiutata. Impossibilitata a partecipare attivamente alla guerra, la Weil cede a un sentimento di autodistruzione.
Affetta da tubercolosi, aggravata dalle privazioni, muore il 24 agosto nel sanatorio di Ashford, vicino Londra; è epolta nella sezione cattolica del cimitero di Ashford.
È Albert Camus a divulgare originariamente la maggior parte degli scritti della Weil, A parte alcuni articoli, le sue opere vengono pubblicate postume. Le sue opere vengono tradotte in italiano per iniziativa di Adriano Olivetti.
Un seguito per “Lo straniero” di Albert Camus-Kamel Daoud-Articolo di Alberto Corsani-Uno scrittore algerino immagina il contraltare del celebre romanzo,Un arabo uccide un francese, apparentemente senza motivo, pochi giorni o poche settimane dopo l’indipendenza ottenuta dagli algerini nei confronti della Francia. È il ribaltamento della situazione che innescava, nel 1942, Lo straniero di Albert Camus, dove, nelle prime pagine, un francese d’Algeria sparava a un arabo sulla spiaggia, apparentemente senza motivo. Ma il libro iniziava in maniera inattesa, secca, brutale: «Oggi la mamma è morta…». E la madre è assolutamente centrale, sia pure in termini diversi, anche nel romanzo, ora uscito anche in Italia, dello scrittore-giornalista Kamel Daoud*, che davvero prosegue, rovesciandola, l’«inchiesta» legata allo Straniero e al suo protagonista Meursault(Meursault: contre-enquête è il titolo originale).
La vicenda dello Straniero è stata conosciuta da molti anche sui banchi di scuola: forse Meursault, abbacinato dal sole, ha visto l’arabo avvicinarsi minaccioso, forse era comparsa la lama di un coltello. Dunque, il delitto. E poi tutto quel che ne segue: il protagonista-assassino (che è anche il narratore) non si difende, anzi il suo comportamento sarà alla base della sua condanna a morte. Era defunta la madre, in un ospizio, e lui non se ne era occupato, anzi era andato con una donna. Tutto gli sembrava assurdo, Meursault si «lascia vivere addosso»: non gli resta che farsi condannare, sperando che tanta gente assista, odiandolo, alla sua esecuzione.
Daoud rifiuta questa impostazione, perché essa non rende giustizia alla vittima: vestendo i panni del fratellino dell’arabo ucciso, l’autore lamenta che nel romanzo di Camus la vittima esca di scena senza neppure aver avuto la dignità di un nome. Poteva essere stato ucciso chiunque altro, ciò che interessa lo scrittore francese è solo il disagio interiore, il rovello metafisico, il mal de vivre del sig. Meursault. Un lusso (il disagio esistenziale) che i poveracci non si possono permettere, dovendosi piuttosto arrabattare per tirare avanti e crescere nei vicoli andando a scuola quando capita.
Sembrerebbe una polemica rivendicativa e dettata dall’identità di un popolo liberatosi dal dominio coloniale, che ora volesse liberarsi anche della cappa culturale impostagli dalla Francia. Ma ci sono anche elementi più sottili. Intanto il romanzo di Daoud è tutto pervaso dai libri di Camus, di cui l’autore dimostra una grande conoscenza. Non solo per alcune frasi che ricalcano Lo straniero (per analogia o per via contraria, quasi parodistica). Se nello Straniero il protagonista tiene un atteggiamento di totale insensibilità nei confronti del suo delitto e della sua vittima, qui è tutta la società che assolve l’assassino-narratore: il suo crimine viene considerato un colpo di coda della guerra anticoloniale.
Ma poi c’è anche lo stile – altra operazione interessante: Daoud non si limita a usare frasi brevi ed essenziali come Camus, il suo tono quasi dimesso e una certa brevità del racconto; in un buon terzo del libro scrive rivolgendosi direttamente a un interlocutore, con stile oratorio e dimostrativo, che riecheggia quello di una successiva, complessa opera di Camus come è La caduta. Chi si addentra a questi livelli nello stile del predecessore non può che averlo ammirato.
Inoltre è centrale e molto evocativa la figura della madre. Camus parlò sempre di sua madre come di un modello (povera, di scarsissima istruzione, ma maestra di umanità); per il giovane protagonista invece la mamma è tutto (è già orfano di padre quando gli viene ucciso il fratello), ma è anche una cappa che gli impedisce di crescere, finché l’incontro con una ragazza alle prese con una tesi di laurea sul delitto non lo farà svincolare dalle sue ali protettive.
Un’opera complessa, dunque, che rimanda inevitabilmente all’opera complessiva di Camus, al suo umanesimo che non fu toccato direttamente dalla grazia della fede, ma che ne fu intrigato. Durante la guerra mondiale, nella Francia occupata, lo scrittore entrò in contatto con il mondo protestante. La morte in un incidente d’auto (assurdo, questo sì), quindici anni dopo, ha impedito questo ulteriore, eventuale sviluppo di una vita e carriera dedicate a promuovere la causa dell’umanità: contro ogni oppressione, contro la povertà, la pena di morte, contro la solitudine, e anche contro l’arroganza umana che pretende di creare autonomamente l’uomo nuovo.
*K. Daoud, Il caso Meursault, Milano, Bompiani, 2015, pp. 130, euro 16,00.
-Traduttore M Canfield- Editore Libri Scheiwiller-
Mario Vargas Liosa
Descrizione -Gli eventi che nel 1952 portarono Sartre e Camus a un’insanabile rottura sono centrali per comprendere l’origine di un mito culturale: l’engagement, “l’impegno”. Da una parte il franco-algerino partigiano della resistenza, coscienza morale di una generazione; dall’altra il critico della società, l’agitatore rivoluzionario. “Tra Sartre e Camus”, un osservatore d’eccezione, un giovane scrittore di stanza a Parigi che, dalle pagine dei giornali, articolo dopo articolo, delinea l’autoritratto di un latinoamericano che, cresciuto seguendo la radicalità di Sartre, ha finito per abbracciare il riformismo di Camus. Ed è la letteratura a prefigurare la politica. Nel 1964 Sartre invita a rinunciare alla letteratura in nome dell’azione sociale: in un continente che manca di quadri tecnici come l’Africa, sostiene, è più importante fare il professore in un villaggio che lo scrittore a Parigi. Llosa dissente: se un romanziere di colore rinuncia a scrivere i libri che si porta dentro per insegnare l’alfabeto agli scolari della Guinea, cosa leggeranno questi quando l’unico che avrebbe potuto scrivere dei libri nella loro lingua ha rinunciato a farlo? Traduzioni di Sartre? Una raccolta di saggi che suona come un inno alla libertà e alla bellezza.
Dettagli
Autore:Mario Vargas Llosa-Traduttore:Canfield-Editore:Libri Scheiwiller-Collana:Prosa e poesia-Anno edizione:2010
In commercio dal:20 maggio 2010Pagine:148 p., Brossura-EAN:9788876446238
Mario Vargas Liosa
Briografia di Mario Vergas Liosa- premio Nobel per la letteratura nel 2010
Mario Vergas Liosa-Scrittore, critico e giornalista peruviano. Figura centrale della rinascita della narrativa ispanoamericana, fine polemista, è vissuto a lungo in Europa. Attivo nelle battaglie civili e politiche, si è candidato alle elezioni presidenziali del Perù nel 1990 (resoconto di quell’esperienza è Il pesce nell’acqua, El pez en el agua, 1993). Collaboratore di diversi giornali europei, conferenziere in molte università del mondo, nel 1994 ha assunto la cittadinanza spagnola; ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti tra cui i premi Principe di Asturias, Cervantes, Grinzane-Cavour alla carriera e la presidenza del Pen Club International. Autore molto prolifico, ha pubblicato articoli, saggi (su García Marquez e Flaubert), pièces teatrali e narrativa di vario genere. La città e i cani (1963) è il dissacrante romanzo d’esordio: bruciato in piazza in Perù, ottiene larghi consensi in Europa. Gli fanno seguito La casa verde (1966) e il romanzo politico Conversazione nella cattedrale (1969). Pantaleón e le visitatrici (1973) inaugura un registro di sottile, a volte comico, ironico, cui appartiene anche La zia Julia e lo scribacchino (1977). Ha sperimentato il genere giallo dal risvolto sociale (Chi ha ucciso Palomino Molero?, 1986).
Tra le ultime opere: La festa del caprone (2000), Il paradiso è altrove (2003), Avventure della ragazza cattiva (2006), struggente storia d’amore e di fuga, Il sogno del celta (Einaudi 2011) la biografia romanzata di Roger Casement, La civiltà dello spettacolo (Einaudi, 2013), Crocevia (Einaudi, 2016), Il richiamo della tribù (Einaudi, 2019) e Tempi duri (Einaudi, 2020).Ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 2010.
Mario Vargas LiosaMario Vargas Liosa
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