-Patrizia Cavalli, l’appello per un posto al cimitero acattolico di Roma-
– La lettera di artisti, intellettuali, amici della poetessa-
Patrizia Cavalli
(ANSA) – ROMA, 26 GIU 2022-Patrizia Cavalli “è stata la voce poetica più importante e più amata dell’ultimo quarto di secolo italiano”.
Lei, non cattolica, “avrebbe molto desiderato, che le sue ceneri fossero deposte nel cimitero acattolico di Roma”.
Si condensa in queste parole la lunga lettera-appello rivolta da intellettuali, artisti, amici della grande poetessa scomparsa alla direttrice del cimitero acattolico di Roma perché le sue ceneri vi vengano deposte secondo quello che era il suo desiderio. Gli amici ricordano le tante raccolte di poesia tradotte in ogni lingua, le sue traduzioni per il teatro, i numerosi e prestigiosi premi arrivati nel percorso di una carriera luminosa, riconosciuta nella sua potenza da grandi scrittori e critici, a cominciare da Elsa Morante che la scoprì, senza dimenticare i lettori che l’hanno sempre amata moltissimo.
Patrizia Cavalli, sottolineano gli autori dell’appello, “è stata una voce poetica amata e quasi venerata dalla città in cui ha vissuto, Roma, che ha saputo descrivere, raccontare e poetare, attraverso cinquant’anni, in versi e in prose”. Le sue esequie sono state svolte “senza alcun segno né cerimonia religiosa”. Da qui l’appello: “Crediamo che sarebbe importante, per la città di Roma, onorare la memoria di Patrizia Cavalli in un luogo di tale bellezza, insieme alla memoria dei molti altri poeti sepolti lì”. Fonte (ANSA).
Wisława Szymborska--Premio Nobel per la letteratura 1996-
Tutto
Tutto –
una parola sfrontata e gonfia di boria.
Andrebbe scritta fra virgolette.
Finge di non tralasciare nulla,
di concentrare, includere, contenere e avere.
E invece è soltanto
un brandello di bufera.
Un amore felice
Un amore felice. È normale?
è serio? è utile?
Che se ne fa il mondo di due esseri
che non vedono il mondo?
Innalzati l’uno verso l’altro senza alcun merito,
i primi qualunque tra un milione, ma convinti
che doveva andare così – in premio di che? Di nulla;
la luce giunge da nessun luogo –
perché proprio su questi, e non su altri?
Ciò offende la giustizia? Sì.
Ciò offende i principi accumulati con cura?
Butta giù la morale dal piedistallo? Sì, infrange e butta giù.
Guardate i due felici:
se almeno dissimulassero un po’,
si fingessero depressi, confortando così gli amici!
Sentite come ridono – è un insulto.
In che lingua parlano – comprensibile all’apparenza.
E tutte quelle loro cerimonie, smancerie,
quei bizzarri doveri reciproci che s’inventano –
sembra un complotto contro l’umanità!
È difficile immaginare dove si finirebbe
se il loro esempio fosse imitabile.
Su cosa potrebbero contare religioni, poesie,
di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe,
chi vorrebbe restare più nel cerchio?
Un amore felice. Ma è necessario?
Il tatto e la ragione impongono di tacerne
come d’uno scandalo nelle alte sfere della Vita.
Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.
Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la terra,
capita, in fondo, di rado.
Chi non conosce l’amore felice
dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.
Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.
Wisława Szymborska--Premio Nobel per la letteratura 1996-
Contributo alla statistica
Su cento persone:
che ne sanno sempre più degli altri
– cinquantadue;
insicuri a ogni passo
– quasi tutti gli altri;
pronti ad aiutare,
purché la cosa non duri molto
– ben quarantanove;
buoni sempre,
perché non sanno fare altrimenti
– quattro, be’, forse cinque;
propensi ad ammirare senza invidia
– diciotto;
viventi con la continua paura
di qualcuno o qualcosa
– settantasette;
dotati per la felicità,
– al massimo non più di venti;
innocui singolarmente,
che imbarbariscono nella folla
– di sicuro più della metà;
crudeli,
se costretti dalle circostanze
– è meglio non saperlo
neppure approssimativamente;
quelli col senno di poi
– non molti di più
di quelli col senno di prima;
che dalla vita prendono solo cose
– quaranta,
anche se vorrei sbagliarmi;
ripiegati, dolenti
e senza torcia nel buio
– ottantatré
prima o poi;
degni di compassione
– novantanove;
mortali
– cento su cento.
Numero al momento invariato.
Prospettiva
Si sono incrociati come estranei,
senza un gesto o una parola,
lei diretta al negozio,
lui alla sua auto.
Forse smarriti
O distratti
O immemori
Di essersi, per un breve attimo,
amati per sempre.
D’altronde nessuna garanzia
Che fossero loro.
Sì, forse, da lontano,
ma da vicino niente affatto.
Li ho visti dalla finestra
E chi guarda dall’alto
Sbaglia più facilmente.
Lei è sparita dietro la porta a vetri,
lui si è messo al volante
ed è partito in fretta.
Cioè, come se nulla fosse accaduto,
anche se è accaduto.
E io, solo per un istante
Certa di quel che ho visto,
cerco di persuadere Voi, Lettori,
con brevi versi occasionali
quanto triste è stato.
Ogni caso
Poteva accadere.
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
È accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.
Wisława Szymborska-Premio Nobel per la letteratura 1996–
Amore a prima vista
Sono entrambi convinti
Che un sentimento improvviso li uni’.
E’ bella una tale certezza,
Ma l’incertezza e’ più bella.
Non conoscendosi prima, credono
Che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
Dove da tempo potevano incrociarsi?
Vorrei chiedere loro
Se non ricordano –
Una volta un faccia a faccia
Forse in una porta girevole?
Uno “scusi” nella ressa?
Un “ha sbagliato numero” nella cornetta?
– ma conosco la risposta.
No, non ricordano.
Li stupirebbe molto sapere
Che già da parecchio
Il caso stava giocando con loro.
Non ancora del tutto pronto
A mutarsi per loro in destino,
Li avvicinava, li allontanava,
Gli tagliava la strada,
E soffocando una risata,
Si scansava con un salto.
Vi furono segni, segnali,
Che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
O martedì scorso
Una fogliolina volo’ via
Da una spalla a un’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse la palla
Tra i cespugli dell’infanzia?
Vi furono maniglie e campanelli
Su cui anzitempo
Un tocco si posava sopra un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno
Subito confuso al risveglio.
Ogni inizio infatti
E’ solo un seguito
E il libro degli eventi
E’ sempre aperto a meta’.
Scrivere un curriculum
Che cos’è necessario?
È necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
è bene che il curriculum sia breve.
È d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.
È la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
Wisława Szymborska-Premio Nobel per la letteratura 1996-
Disattenzione
Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare domande,
senza stupirmi di niente.
Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.
Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.
Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.
Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.
Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro
(e qui un paragone che mi è mancato).
Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.
Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.
Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.
La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.
E’ durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.
Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.
La stazione
Il mio arrivo nella città di N.
è avvenuto puntualmente.
Eri stato avvertito
con una lettera non spedita.
Hai fatto in tempo a non venire
all’ora prevista.
Il treno è arrivato sul terzo binario.
E’ scesa molta gente.
L’assenza della mia persona
si avviava verso l’uscita tra la folla.
Alcune donne mi hanno sostituito
frettolosamente
in quella fretta.
A una è corso incontro
qualcuno che non conoscevo,
ma lei lo ha riconosciuto
immediatamente.
Si sono scambiati
un bacio non nostro,
intanto si è perduta
una valigia non mia.
La stazione della città di N.
ha superato bene la prova
di esistenza oggettiva.
L’insieme restava al suo posto.
I particolari si muovevano
sui binari designati.
E’ avvenuto perfino
l’incontro fissato.
Fuori dalla portata
della nostra presenza.
Nel paradiso perduto
della probabilità.
Altrove.
Altrove.
Come risuonano queste piccole parole.
Ringraziamento
Devo molto
a quelli che non amo.
Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro.
La gioia di non essere io
il lupo dei loro agnelli.
Mi sento in pace con loro
e in libertà con loro,
e questo l’amore non può darlo,
né riesce a toglierlo.
Non li aspetto
dalla porta alla finestra.
Paziente
quasi come una meridiana,
capisco
ciò che l’amore non capisce,
perdono
ciò che l’amore mai perdonerebbe.
Da un incontro a una lettera
passa non un’eternità,
ma solo qualche giorno o settimana.
I viaggi con loro vanno sempre bene,
i concerti sono ascoltati fino in fondo,
le cattedrali visitate,
i paesaggi nitidi.
E quando ci separano
sette monti e fiumi,
sono monti e fiumi
che trovi su ogni atlante.
È merito loro
se vivo in tre dimensioni,
in uno spazio non lirico e non retorico,
con un orizzonte vero, perché mobile.
Loro stessi non sanno
quanto portano nelle mani vuote.
«Non devo loro nulla» –
direbbe l’amore
sulla questione aperta.
Articolo di DANIELA ORIGLIA- Ogni piccola cosa è illuminata
Wisława Szymborska-Premio Nobel per la letteratura 1996-
Da divorare “Cianfrusaglie del passato” imponente biografia di Wislawa Szymborska: passioni, letture, politica,
Wislawa Szymborska era, è una poetessa contemporanea: grande, grandissima. I suoi versi sono semplici: piccole cose qualsiasi, una tazza, un gatto, un albero, un passante assumono una limpidezza, un’immediatezza che diventa rivelazione.
Non si compiace mai la Szymborska della sua bravura, ci mette sempre una battuta affilata, tagliente, ironica. Così azzeccata e insieme sorprendente, che aumenta la magia.
Si resta sconcertati dal fatto che si riesca oggi a dire qualcosa di nuovo e meraviglioso con quel che abbiamo sotto gli occhi, che viviamo ogni giorno. Un esempio per intenderci meglio:
Giorno afoso, una cuccia e un cane alla catena. Poco più in là una ciotola ricolma d’acqua. Ma la catena è corta e il cane non ci arriva. Aggiungiamo al quadretto ancora un elemento: le nostre molto più lunghe e meno visibili catene che ci fanno passare accanto disinvolti.
(Catene, in Basta così, 2012)
E’ quindi una gioia che finalmente venga tradotta la sua biografia, uscita in Polonia nel 1997, l’anno dopo dell’assegnazione del premio Nobel, perché di lei si sa poco. Era riservata, non amava le interviste, diceva: «Confidarsi in pubblico è come perdere l’anima. Qualcosa bisogna pur tenere per sé». Non si può disseminare tutto così, tutto quel che aveva da dire della sua vita era contenuto nelle sue poesie.
Eppure anche in Italia era molto amata, era diventata addirittura un fenomeno pop dopo che Roberto Saviano, nella trasmissione di Fabio Fazio, ne aveva fatto l’elogio funebre nel 2012. Così spiegava il successo della Szymborska: «Sono versi che si possono leggere senza bisogno di grandi mediazioni. Si capiscono bene e ti fanno stare meglio. Mi stanno arrivando in questi giorni migliaia di e-mail su Facebook che mi chiedono della poesia Curriculum».
La poesia che ha scatenato il popolo del social network racconta la frustrazione di ognuno a vedersi sintetizzata la propria vita nelle poche righe di un curriculum: Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati. Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu…
Il lavoro di ricerca e documentazione fatto da Anna Bikont e Joanna Szczęsna è immane e ricostruisce vita, abitudini, passioni, letture, posizioni politiche, tutto insomma quel che si può vedere dall’esterno; il suo spirito, il suo incantevole humor, la sua leggerezza ce li restituiscono solo le moltissime poesie, elzeviri, lettere, molti inediti, pubblicati nel libro.
Ancora una volta si capisce quanto i fatti della vita possano sì offrire spunti all’arte, ma poi l’arte è un’altra cosa, proprio come pensava Wistlawa. «In una poesia che parla dell’attesa di una telefonata dovrebbero essere presenti: Catone il Vecchio, un panino col burro e un maggiolino».
La poesia comincia dove finisce l’ovvietà, consigliava a un poeta dilettante dalla rubrica Posta, che ha tenuto dal 1960 al 1968, su Zycie Literackie, la rivista simbolo del disgelo polacco. Un esempio della sua elaborazione:
Ricordo bene quella paura infantile. Scansavo le pozzanghere, specie quelle recenti, dopo la pioggia. Dopotutto qualcuna poteva non avere fondo, benché sembrasse come le altre.
(La pozzanghera, in Attimo, 2002)
Il titolo stesso della biografia Cianfrusaglie del passato testimonia l’onestà intellettuale e la complicità delle autrici con la Szymbroska, si riferisce infatti alla sua passione per la collezione di immagini, piccoli oggetti di gusto Kitsch, che quanto più è pessimo tanto è migliore, vale a dire divertente.
Anche gli amici gliene portavano da ogni viaggio, insieme a biglietti, piccola testimonianza di un grande affetto. Con questi Wislawa faceva deliziosi collage-cartoline che mandava per occasioni speciali, mai per compleanni: troppo scontato.
Certe volte con allusioni comprensibili solo al destinatario, come quella con un Elefante accompagnato dalla scritta «Si vede subito che è polacco», ricevuta da Baranczak dopo che era uscita una sua ponderosa antologia di rifacimenti di classici intitolata Dio, la tromba e la patria.
Anna Bikont Joanna Szczęsna, Cianfrusaglie del passato. La vita di Wislawa Szymborska Adelphi, (pp 455, €28)
Biografia di Wisława Szymborska
Wisława Szymborska-Premio Nobel per la letteratura 1996-
Wisława Szymborska è stata una Poetessa polacca (Bnin, Poznań, 1923 – Cracovia 2012). Muovendo dall’osservazione del quotidiano, S. costruisce una poesia intellettuale e riflessiva, che s’interroga sulla condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo, contrapposto ed estraneo al mondo della natura. Nel 1996 ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura e la sua produzione trova ampia diffusione anche in Italia.
Vita e opere
Dal 1931 si trasferì a Cracovia; è stata a lungo redattrice della rivista Życie literackie (“Vita letteraria”). Esordì con raccolte non estranee alla poetica del realismo socialista (Dla tego żyjemy “Per questo viviamo”, 1952; Pytania zadawane sobie “Domande poste a sé stessi”, 1954). In seguito la sua poesia si è andata liberando da ogni appartenenza a scuole e correnti letterarie, approfondendo un’amara e ironica visione dell’esistenza, e sviluppando uno stile personalissimo che unisce il rigore all’estrema levità dell’espressione. Dopo Wołanie do Yeti (1957; trad. it. Appello allo Yeti, 2005), che segna l’inizio di questa nuova stagione, la S. ha proseguito nelle raccolte successive una ricerca poetica nella quale riflessione filosofica e attenzione al dettaglio quotidiano si mescolano in un tono dimesso e lucido, privo di slanci retorici (Sól , 1957, trad. it. Sale, 2005; Sto pociech, 1967, trad. it. Uno spasso, 2003; Wszelki wypadek, 1972, trad. it. Ogni caso, 2003; Wielka liczba, 1976, trad. it. Grande numero, 2006; Ludzie na moście, 1986, trad. it. Gente sul ponte, 1996; Koniec i początek, 1993, trad. it. La fine e l’inizio, 1998). Accanto ai suoi versi, sono da ricordare i tre volumi di recensioni e articoli Lektury nadobowiązkowe (1973, 1981 e 1992, trad. it. Letture facoltative, 2006 ). Tra le pubblicazioni successive vanno ricordate: Widok z ziarnkiem piasku (1996; trad. it. Vista con granello di sabbia: poesie 1957-1993, 1998); Poczta literacka (2000; trad. it. Posta letteraria, 2002); Chwila (2002; trad. it. Attimo, 2004); Dwukropek (2005; trad. it. Due punti, 2006); Nowe lektury nadobowiązkowe 1997-2002 (2002; trad. it. Ok? Nuove letture facoltative, 2007). Postumi sono stati pubblicati la raccolta di versi Wystarczy (2012; trad. it. Basta così, 2012), alla quale la poetessa stava lavorando al momento della scomparsa, la raccolta di prose Wszystkie lektury nadobowiązkowe (2015; trad. it. Come vivere in un modo più confortevole, 2016) e il volume di lettere e cartoline scambiate tra il 1966 e il 1985 dalla scrittrice con il compagno K. Filipowicz Najlepiej w życiu ma twój kot. Listy (“Meglio di tutti sta il tuo gatto”, 2016). Fonte Enciclopedia TRECCANI online-
Pier Paolo Pasolini -“La terra di lavoro”-da: Le Ceneri di Gramsci
Honoré Daumier “Il vagone di terza classe”
Questo è l’ultimo degli undici poemetti che costituiscono “Le ceneri di Gramsci” di P.P.Pasolini, considerato se non il suo capolavoro uno dei libri più letti per la virulenza dei versi che raggiungono nei testi portanti vertiginose altezze poetiche.
Colpisce il pathos, affiora l’immagine del quadro di Daumier “Il vagone di terza classe” ma gli sguardi di quegli emarginati che si vergognano della loro povertà, vissuta come una colpa, non sono un’immagine descrittiva fine a se stessa. Non sfugge a Pasolini la dolorosa scoperta dello schiacciamento delle masse popolari da parte del potere, vittime di una società che in quei primi anni ’50 si sta delineando nelle sue forme aberranti di privilegio e di esclusione
E questi versi di denuncia non sono altro che il suo bisogno di raccontare le deformazioni della realtà sottraendosi alla logica perversa di una società corrotta e servile.
la sua occhiata di presbite tra beffarda e strana.
E aspetta. Mentre io guardo lontano
ed altro non mi viene in mente
che il mare fermo sotto il volo dei gabbiani
sfrangiato appena tra gli scogli dell’isola,
dove una terra nuda si fa ombra
con le sue gobbe o un’altra preparata a semina
si fa ombra con le sue zolle e con pochi fili.
“Certo, posso aver molto peccato”
rispondo infine aggrappandomi a qualcosa,
sia pure alle mie colpe, in quella luce di brughiera.
“Piangere, piangere dovresti sul tuo amore male inteso”
riprende la sua voce con un fischio
di raffica sopra quella landa passando alta.
L’ascolto e neppure mi domando
perché sia lui e non io di là da questo banco
occupato a giudicare i mali del mondo.
“Può darsi” replico io mentre già penso ad altro,
mentre la via s’accende scaglia a scaglia
e qui nel bar il giorno ancora pieno
sfolgora in due pupille di giovinetta che si sfila il grembio
per le ore di libertà e l’uomo che le ha dato il cambio
indossa la gabbana bianca e viene
verso di noi con due bicchieri colmi,
freschi, da porre uno di qua uno di là sopra il nostro tavolo.
L’India
Tace ora, mi chiedo se oppressa dal suo Karma,
(so della sua vita, del nome che le dà, e del senso)
mentre mostra a lungo lo schermo
sul selciato una moltitudine
stecchita in una posa tra sonno e morte
levarsi a stento in preghiera e spulciarsi nell’alba.
Né forse la colpisce il primo aspetto
ma un altro più recondito, e vede
una giustizia di diverso stampo
in quella sofferenza di paria
orrida eppure non abbietta, e nella sua che le scende addosso.
“Avere o non avere la sua parte in questa vita”
riemerge in parole il suo pensiero – ma solo un lembo.
E io ne tiro a me quella frangia
ansioso mi confidi tutto l’altro,
attento non mi rubi niente
di lei, neppure l’amarezza, ed attendo.
S’interrompe invece. Seguono altre immagini dell’India
e nel loro riverbero le colgo
un sorriso estremo tra di vittima e di bimba
quasi mi lasci quella grazia in pegno
di lei mentre si eclissa nella sua pena
e l’idea di se stessa le muore dentro.
“Perché porti quel giogo, perché non insorgi”
mi trattengo appena dal gridarle,
soffrendo perché soffre, certo,
ma più ancora perché lascia la presa
della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo;
“Ascoltami” comincio a mormorarle
e già penso al chiarore della sala dopo il technicolor
e a lei che sul punto di partire
mi guarda da dietro la lampada
della sua solitudine tenuta alzata di fronte.
“Mario” mi previene lei che indovina il resto. “Ancora
levi come una spada, buona a che?,
lo sdegno per le cose che ti resistono.
Uomo chiuso all’intelligenza del diverso,
negato all’amore: del mondo, intendo, di Dio dunque”
e indulge a una smorfia fine di scherno
per se stessa salita sul pulpito, e quasi si annulla.
“Davvero vorrei tu avessi vinto”
le dico con affetto incontenibile, più tardi,
mentre scorre in un brusio d’api, nel film senza commento, l’India.
Per mare
Nel più alto punto
dove scienza è oblìo d’ogni sapere
e certezza, mi dicono,
certezza irrefutabile venuta incontro
o nel tempo appeso a un filo
d’un riacquisto d’infanzia,
tra sonno e veglia, tra innocenza e colpa,
dove c’è e non c’è opera nostra voluta e scelta.
“La salute della mente
è là” dice una voce
con cui contendo da anni,
una voce che ora è di sirena.
Si naviga tra Sardegna e Corsica.
C’è un po’ di mare
e la barca appruata scarricchia.
L’equipaggio dorme. Ma due
vegliano nella mezzaluce della plancia.
E’ passato agosto; Siamo alla rottura dei tempi.
E’ una notte viva.
Viva più di questa notte,
viva tanto da serrarmi la gola
è la muta confidenza
di quelli che riposano
si curi in mano d’altri
e di questi che non lasciano la manovra e il calcolo
mentre pregano per i loro uomini in mare
da un punto oscuro della costa, mentre arriva
dalla parte del Rodano qualche raffica.
Da “Al fuoco della controversia”
Ridotto a me stesso?
Ridotto a me stesso?
Morto l’interlocutore?
O morto io,
l’altro su di me
padrone del campo, l’altro,
universo, parificatore…
o no,
niente di questo:
il silenzio raggiante
dell’amore pieno,
della piena incarnazione
anticipato da un lampo? –
penso
se è pensare questo
e non opera di sonno
nella pausa solare
del tumulto di adesso…
Natura
La terra e a lei concorde il mare
e sopra ovunque un mare più giocondo
per la veloce fiamma dei passeri
e la via
della riposante luna e del sonno
dei dolci corpi socchiusi alla vita
e alla morte su un campo;
e per quelle voci che scendono
sfuggendo a misteriose porte e balzano
sopra noi come uccelli folli di tornare
sopra le isole originali cantando:
qui si prepara
un giaciglio di porpora e un canto che culla
per chi non ha potuto dormire
sì dura era la pietra,
sì acuminato l’amore.
Mario Luzi
Biografia di Mario Luzi è nato a Castello (Firenze) il 20 ottobre 1914 da genitori toscani, trascorse l’infanzia a Firenze. Trasferitosi con la famiglia nel senese, studiò a Siena fino al 1929; poi rientrato a Firenze, vi compì gli studi liceali e universitari. Nel 1936 si laureò in letteratura francese con una tesi si Francois Mauriac.
Esordì con la raccolta di versi, La barca, nel 1935; frequentò il gruppo degli ermetici fiorentini e cominciò a collaborare alle riviste Frontespizio, Letteratura e, più tardi, Campo di Marte. Nel 1938 Luzi iniziò la carriera di insegnante: dapprima a Parma, dove frequentò Attilio Bertolucci; poi, dal 1941, a San Miniati. Successivamente, e fino al 1943, lavorò a Roma presso la Sovrintendenza bibliografica. Nel frattempo si sposò ed ebbe un figlio.
Nel 1945 tornò a Firenze, dove riprese l’insegnamento in un liceo scientifico. Più tardi, nel 1955, passò a insegnare letteratura francese all’università di Firenze. Nel 1960 riunì nel libro Il giusto della vita le precedenti raccolte poetiche:
Avvento notturno (1940), Un brindisi (1946), Quderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952) e Onore del vero (1957).
All’attività poetica Luzi affiancò quella di critico e traduttore, dando anche vita, con Betocchi, alla rivista La Chimera.
Tra i suoi libri di critica, spiccano Studio su Mallarmé e L’idea simbolista (entrambi pubblicati nel 1959).
Luzi compì numerosi viaggi (in Urss nel 1966, in India nel 1968, negli Stati Uniti nel 1974, in Cina nel 1980) e ottenne premi e riconoscimenti. Nella fase matura della sua ttività poetica compose poemetti drammatici, come Ipazia (1978) e Rosales (1983), e pubblicò versi via via più lontani dall’Ermetismo: Nel magma (1963), Dal fondo delle campagne (1965), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994). Nominato senatore a vita della Repubblica nel 2004, Luzi si è spento nel 2005.
Articolo scritto per la Rivista PEGASO N°8 del 1932 diretta da Ugo OJETTI
Diego VALERIDiego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI-DELLA POESIA FRANCESE D’OGGI-Diego VALERI
Biografia di Diego VARERI- – Nacque il 25 gennaio 1887 a Piove di Sacco (Padova)-da Abbondio e da Giovanna Fontana, ultimo di tre figli, dopo Silvio e Ugo-Morì a Roma il 27 novembre 1976.
Nonostante le condizioni agiate della famiglia, l’infanzia del piccolo Diego fu turbata dalla separazione dei genitori, avvenuta poco dopo la sua nascita, in seguito alla quale la madre si trasferì a Padova portandolo con sé. Presenza discontinua, ma molto influente sulla formazione di Valeri, fu quella del fratello Ugo, pittore e illustratore dalle qualità notevoli, morto nel 1911 a Venezia, cadendo (o forse gettandosi) da una finestra della galleria Ca’ Pesaro: ne restò a Valeri un dolore insanabile.
L’origine della vocazione poetica fu sempre, nel ricordo di Valeri, associata, oltre che a un sentimento malinconico generato quasi dal contatto con una pianura che egli percepiva galleggiante sull’acqua, all’arte del fratello, al mondo inventato dai suoi segni e colori, alle novità artistiche che Ugo riportava dalla Biennale di Venezia. Sempre grazie al fratello, il giovane Diego pubblicò due sue liriche nella rivista Poesia (IV (dicembre 1908-gennaio 1909), 11-12) diretta da Filippo Tommaso Marinetti.
Dopo aver frequentato il liceo classico Tito Livio di Padova, nella locale università conseguì la laurea in lettere nel 1908 discutendo una tesi su L’efficacia del teatro francese sul teatro di Paolo Ferrari (pubblicata in Rivista d’Italia, XII (1909), 2, pp. 257-328), orientandosi di lì in poi a studi di francesistica e italianistica. All’università conobbe la futura moglie, sposata nel 1911: Maria Minozzi, vicentina, dedicataria della sua prima silloge di versi, Monodia d’amore (Padova 1908), in seguito rifiutata dall’autore. Laureato, intraprese l’insegnamento nelle scuole tecniche e poi nei licei, con numerosi cambiamenti di sede (Fermo, Castiglione delle Stiviere, Monza, Pinerolo, Ravenna, Voghera, Rovigo, Cremona), prima del definitivo approdo a Venezia (1926), dove si stabilì nella casa (in fondamenta dei Cereri) che divenne sua dimora stabile. Il disagio dei trasferimenti fu d’altra parte bilanciato da frequentazioni con importanti personalità del mondo dell’arte e della letteratura (Filippo De Pisis, Marino Moretti, Clemente Rebora, per esempio).
Nel 1912-13, unico intervallo tra gli insegnamenti scolastici, Valeri fu a Parigi con una borsa di perfezionamento in letteratura francese; lì ricevette la notizia della morte dell’amata madre. Per motivi di salute evitò l’arruolamento e la partenza per la guerra ma non poté evitare, sulle prime, lo scontro con il fascismo. Era a Cremona con la famiglia, accresciuta delle due figlie (Giovanna, nata nel 1913, e Marina, nata nel 1915), quando, insegnante e conferenziere stimato, oltre che poeta dalla crescente notorietà, firmò sul quotidiano La Giustizia (9 luglio 1924) un appello di protesta per la scomparsa di Giacomo Matteotti. Ne ebbe una dura reprimenda, alla quale conseguì il trasferimento da Cremona a Venezia, dove comunque continuò a essere, se non attaccato (come accadde almeno in un’occasione, nel novembre del 1926), ostacolato dalla federazione del fascio locale, presso il quale cercò a più riprese, ma invano, di tesserarsi. Intimamente incompatibile con il fascismo per ragioni umane ed estetiche, oltre che per le idee socialiste, Valeri non si espose più in aperte contestazioni, e tuttavia, privo della tessera del Partito nazionale fascista, dovette abbandonare nel 1931 l’insegnamento al liceo Marco Polo per assumere una posizione più defilata, da funzionario delle belle arti, alla soprintendenza di Venezia. Manteneva nel frattempo, come libero docente, l’incarico per il corso di letteratura francese all’Università di Padova, che ebbe dal 1924 al 1934, quando gli fu sospeso per la mancanza della tessera, e che tuttavia riottenne dal 1939, per intercessione di Ugo Ojetti presso il ministro Giuseppe Bottai.
Grazie alla stima e alla protezione di personaggi eminenti dell’establishment politico-culturale italiano (godeva anche dell’appoggio del rettore padovano Carlo Anti), Valeri, che pure era ostacolato dai federali veneziani, ottenne dall’Accademia d’Italia prestigiosi premi (nel 1931, 1939, 1943) per la sua poesia. Incontrò un successo abbastanza largo, anche di pubblico, a partire dalla pubblicazione dell’autoantologia Poesie vecchie e nuove (Milano 1930), che selezionava i testi delle raccolte precedenti – Le gaie tristezze (Milano-Palermo-Napoli 1913), Umana (Ferrara 1915); Crisalide (Ferrara 1919); Ariele (Milano-Roma 1924) – con l’aggiunta di altri più recenti, che mostravano come dall’iniziale impronta pascoliana e simbolista Valeri andasse mettendo a fuoco il proprio postsimbolismo di fondo su forme e atmosfere meno evanescenti, più salde. Raggiunse l’apice della fama nel decennio 1930-40, quando, con la sua lirica cantabile, malinconica e sensuale, formalmente legata alla tradizione, ma sempre più individuabile nella sua originalità, poté contendere notorietà e favore critico alle posizioni più innovative di Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale. Fu inoltre conferenziere e pubblicista richiesto e apprezzato (v. la scelta di articoli del 1925-35 riuniti in Saggi e note di letteratura francese moderna, Firenze 1941).
Dopo il 25 luglio 1943 Valeri, vicino al Partito d’azione, assunse la direzione del giornale Il Gazzettino, incarico che, quando tedeschi e fascisti ripresero il potere nel Nord Italia, gli costò una condanna a trent’anni di carcere; nel frattempo, però, era riuscito a entrare in Svizzera e a trovare riparo a Mürren. Tornato in Italia, ottenne la revisione dei concorsi da cui era stato escluso per motivi politici e quindi, alla fine del 1948, il ruolo di professore di letteratura francese all’Università di Padova, dove lavorò, anche con affidamenti di letteratura italiana contemporanea, fino al 1962.
Valeri si impegnò attivamente in politica, presentandosi nelle liste del Movimento di unità popolare nelle elezioni del 1953 (per la Camera) e come candidato sindaco dei socialisti alle amministrative di Venezia del 1956.
L’ampio successo professionale e istituzionale arrivò per Valeri in tempi meno adatti alla ricezione della sua poesia e del suo gusto rispetto a quando, negli anni Trenta, si era affermato: in confronto alle nuove tendenze, sia nella lirica sia nella critica, poteva sembrare ad alcuni attardato se non superato. Testimonianze autorevoli degli ultimi allievi ricordano però che, libero da costrizioni metodologiche, Valeri continuava a esercitare il suo magistero incantando l’uditorio per il modo «cordiale e umanissimo» e al tempo stesso «elegante, aristocratico» di avvicinare i testi letterari (Mengaldo, 2000).
Giorgio Caproni e Andrea Zanzotto (che era stato suo alunno a Padova negli anni Trenta) hanno inoltre riconosciuto un affinamento e un approfondimento introspettivo nella fase tarda (da Metamorfosi dell’angelo, Milano 1957) ed estrema della poesia di Valeri, che culmina nelle raccolte Verità di uno (Milano 1970) e Calle del vento (Milano 1975), non incluse per motivi cronologici nell’autoantologia definitiva delle Poesie (Milano 1962 e 1967), che ci ha dato della sua lirica un’immagine più classica, tradizionale e impressionistica (in senso pittorico), nondimeno rappresentativa del suo collocarsi al di fuori delle linee portanti dell’evoluzione della lirica novecentesca (Baldacci, 1972, 1974).
Largamente condiviso dalla critica è il giudizio positivo delle traduzioni di Valeri, che fin dal 1912 si esercitò su autori prevalentemente francesi ma anche tedeschi: si ricordino almeno i due volumi antologici Lirici tedeschi (Milano 1959) e Lirici francesi (Milano 1960). Interessante e originale la sua scrittura saggistica, riflessiva e nitidamente comunicativa, che si muove a partire da momenti della vita interiore o da sollecitazioni della poesia (Tempo e poesia, Milano 1962) e dell’arte (Scritti sull’arte, a cura di G. Tomasella, Venezia 2005). Importanti, e attualmente ancora fortunate in termini editoriali (lo stesso non si può dire delle poesie, mai più riedite dal 1977), le prose di Valeri dedicate all’amata città d’adozione: Fantasie veneziane (Milano 1934; Bagno a Ripoli 2016) e Guida sentimentale di Venezia (Padova 1942; Bagno a Ripoli 2009); ma va ricordato anche il volume Padova città materna, scritto e pubblicato nel mezzo della guerra civile (Padova 1944 e 1995). Morì a Roma il 27 novembre 1976.
Opere. Mentre si attende una ripubblicazione complessiva delle poesie (imminente presso Il Ponte del sale di Rovigo l’edizione di un’ampia antologia, a cura di C. Londero, dal titolo Il mio nome nel vento. Poesie 1910-1977), ci si può rifare, per la prima fase, alla riedizione di Umana (a cura di M. Giancotti, Genova 2008); per il resto, alle singole raccolte su cui Valeri operò selezioni compilando i volumi antologici Poesie vecchie e nuove (cit.), Terzo tempo (Milano 1950), Poesie (cit.), meglio che alla scarna cernita delle Poesie scelte 1910-1975 (a cura di C. Della Corte, Milano 1977). Da segnalare, inoltre, le poesie per bambini: Il campanellino (Torino 1928) e Poesie piccole (Milano 1965). I più importanti saggi sulla letteratura italiana sono raccolti in Conversazioni italiane (Firenze 1968). Esaustiva, fino al 1960, la bibliografia degli scritti curata da C. Cordiè in Studi in onore di Vittorio Lugli e D. V., I, Venezia 1961, pp. LI-LXXVIII.
Fonti e Bibl.: Lettere a Valeri di corrispondenti vari sono conservate a Venezia, presso il Fondo Diego Valeri della Fondazione Giorgio Cini (catal. consultabile sul sito www.diegovaleri.it e nel volume Fondo D. V. della Fondazione Giorgio Cini. Inventario della corrispondenza. Album fotografico, a cura di A. Venturini – R. Zannato, introduzione di G. Manghetti, Piove di Sacco 2010). Una biografia basata sulle fonti archivistiche, oltre che sugli imprescindibili contributi di L. Montobbio (La giovinezza di D. V., in Una precisa forma. Studi e testimonianze per D. V. Atti del Convegno internazionale… 1987, Padova 1991, pp. 141-165) e G. Manghetti (So la tua magia: è la poesia, Milano 1994), è in M. Giancotti, D. V., Padova 2013.
Per la critica si vedano, fra gli atti: Omaggio a D. V. Atti del Congresso…, Venezia … 1977, a cura di U. Fasolo, Firenze 1979; Una precisa forma… Atti del Convegno internazionale…, cit.; L’opera di D. V. Atti del Convegno nazionale di studi… 1996, a cura di G. Manghetti, Piove di Sacco 1998; D. V. e il Novecento. Atti del Convegno di studi nel 30° anniversario della morte del poeta, Piove di Sacco… 2006, a cura di G. Manghetti, presentazione di P.V. Mengaldo, Padova 2007. Fra gli altri contributi: P. Pancrazi, Poesie vecchie e nuove di D. V. (1930), in Id., Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di C. Galimberti, II, Milano-Napoli 1967, pp. 369-373; A. Zanzotto, Il maestro universitario, in La Fiera letteraria, 3 marzo 1957, p. 3; L. Baldacci, Per un’antologietta di D. V. (1972), in Id., Libretti d’opera e altri saggi, Firenze 1974, pp. 108-129; F. Fortini, I poeti del Novecento (1977), Roma-Bari 1988, p. 43; Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Milano 1978, pp. 353-356; Dal simbolismo al Déco. Antologia poetica cronologicamente disposta per cura di Glauco Viazzi, II, Torino 1981, pp. 433 s.; P.V. Mengaldo, Ricordo di D. V. (1996), in Id., La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino 2000, pp. 44 s.; A. Zanzotto, Scritti sulla letteratura, a cura di G.M. Villalta, I, Fantasie di avvicinamento, Milano 2001 (in partic. V. italiano e francese [1957], pp. 47-52; Nella «Calle del vento» [1976], pp. 53-55); G. Caproni, «Il flauto a due canne» di V., in Id., Prose critiche, a cura di R. Scarpa, II, 1954-1958, Torino 2012, pp. 1073-1077.
Fadwa Tuqan nasce nel 1917 a Nablus; soprannominata da Mahmoud Darwish “la madre della poesia palestinese”, è l’emblema della componente femminile nella resistenza e nella lotta sociale e umanitaria per il popolo della sua terra. Fadwa dedica questi versi di poesia a tutti i poeti della resistenza, riuniti per l’occasione in una conferenza ad Haifa.
Lo fa scandendo una serie di versi, di quesiti, di punti di riflessione in un susseguirsi talmente veloce, talmente duro, dirompente e tagliente che arriva a toccare e a bruciare l’anima.
La simbologia è fortissima, le parole prendono quasi vita, si possono immaginare, concretizzare; pregne di tristezza, sature di dolore. Fadwa sembra quasi discostarsi dalla sua stessa realtà, appare una visitatrice ignara, catapultata a sua insaputa di fronte a un pezzo importante della tragedia e travolta da un senso profondo di solitudine.
In pochi ma efficaci fiumi di parole, racconta il dramma -ancora attuale- di donne, uomini e bambini. Il dramma logorante dell’abbandono delle proprie case, ancore dell’appartenenza alla loro patria. E’ proprio l’abbandono il concetto che fa da sfondo e cornice; sensazione alienante che accompagna la poetessa quasi fosse un osso granitico che si riforma in essa, dal quale non si può separare mai più – declinato e espresso tramite più metafore. Le “piante spinose”, cresciute nelle case, sono il simbolo della tangibile solitudine rimasta del seme dell’ingiustizia maturato fino a prendere il posto di chi, fra quelle mura, aveva vissuto e costruito i propri sogni. Cosa vi è rimasto dopo la diaspora? Dei gufi, branchi di gufi cupi, sinistri. Tipico simbolo della letteratura classica, viene proiettato dalla poetessa nel suo presente: diviene la metafora dell’occupante.
La casa, quello che fra gli spazi materiali è il più intimamente caro all’uomo, qui viene persino personificata per evidenziare la concreta realtà, l’unica rimasta dopo l’occupazione. Un panorama, però, desolato di rovine, specchio della condizione dell’anima di chi le ha lasciate; costruzioni vacue, non più case, ora abitate soltanto dal silenzio dell’assenza -forse il più assordante fra tutti- che ne colma il ventre, eco della privazione di un’identità. Dov’è ora il sogno? Dov’è l’avvenire? Dove sono loro?
Fadwa Tuqan, “la poetessa della Palestina”. Le sue poesie di impegno, di lotta, di incoraggiamento verso il popolo palestinese, sono ciò per cui ricordiamo e conosciamo la poetessa.
Per me, però, è stato illuminante scoprire che i suoi componimenti su questi temi, non costituiscono la totalità della sua produzione.
Fadwa Tuqan è stata prima di tutto una donna. Una donna che ha lottato per la propria libertà personale e per i propri diritti. Solo dopo ha unito la sua voce alla protesta nei confronti di Israele, in seguito a una ricerca di sé, una presa di coscienza maturata nel corso di buona parte della sua vita.
Inutile dire come questo mi abbia letteralmente conquistato.
Ciò che più mi ha affascinato è stato, sopratutto che la vita della poetessa e le vicende palestinese sembrano non viaggiare sullo stesso binario, ma anzi percorrere direzioni opposte. O almeno fino al 1967.
Mi spiego meglio: Fadwa Tuqan nasce a Nablus nel 1917 (anche se non ci sono dati certi sull’anno esatto) ed essendo nata in una famiglia appartenente all’alta borghesia e per di più conservatrice, la sua libertà era decisamente limitata e ben presto le venne proibito persino di frequentare la scuola.
Negli stessi anni si abbatterono sulla Palestina gli accordi Sykes-Picot e la dichiarazione di Balfour, che diedero il via all’immigrazione ebrea sotto il protettorato inglese, ma che non influirono in maniera diretta sulla vita quotidiana di Nablus, almeno non subito.
Allo stesso tempo la minaccia sionista diede propulsione a movimenti nazionalisti e di emancipazione femminile che permisero alla poetessa di riprendere gli studi.
Arrivò poi la Nakba, la catastrofe del 1948. Nablus rimase sotto il controllo arabo e migliaia di profughi vi si rifugiarono in cerca di protezione. Nello stesso anno morì il padre della Tuqan.
Questa duplice disgrazia, se da un lato gettò la poetessa nello sconforto, le fece acquistare una libertà mai sperimentata prima, grazie all’assenza del padre-padrone e all’impegno sociale e politico che la situazione richiedeva. Le donne palestinesi poterono finalmente unirsi ai combattenti e rivendicare, insieme alla libertà del proprio paese, anche quella personale.
Perciò uno dei momenti più drammatici della storia palestinese, rappresenta per Fadwa Tuqan l’inizio della libertà tanto agognata.
Tutto cambia, come vi dicevo, dopo il 1967, quando ha luogo il terzo conflitto arabo-israeliano, che vede la sconfitta definitiva delle rivendicazioni palestinesi.
È solo da questo momento in poi che la poetessa iniziò a celebrare la Palestina nelle sue poesie. In seguito a quest’ultimo dramma la Tuqan e il suo Paese si riconciliano e iniziano a camminare nella stessa direzione.
Questo percorso si rispecchia perfettamente nella sua produzione poetica.
La poetessa viene iniziata alla poesia dal fratello Ibrahim, anche lui poeta politicamente impegnato nella difesa della Palestina. I primi componimenti di Fadwa Tuqan sono quasi esclusivamente incentrati sul dolore: per l’isolamento in casa, per i lutti familiari (primo fra tutti quello per il fratello Ibrahim, morto giovanissimo). Anche se viene spesso invitata a scrivere per la causa Palestinese sembra che la poetessa non riesca a farsi carico di questo compito.
Quando nel 1948 la libertà fa capolino nella vita della Tuqan, lei ne approfitta a piene mani, ma, quasi come un’adolescente, è inesperta e immatura, sia dal punto di vista personale che politico. Inevitabilmente si rivolge al sentimento che più di tutti le era stato proibito: l’amore. Mai uguale a se stesso, l’amato cambia volto, carattere, ma rimane sempre anonimo.
Nello stesso periodo iniziano i viaggi della poetessa per presenziare a conferenze e incontri sulla poesia. In una di queste occasioni incontrò Salvatore Quasimodo, il quale rimase colpito dalla Tuqan e, probabilmente, le rivolse degli apprezzamenti. La poetessa gli rispose con una poesia intitolata “Lan abi’ hubbahu” (Non venderò il suo amore), in cui declina con ironia le avance del poeta:
Io, poeta mio, ho nella mia cara patria
un innamorato che attende il mio ritorno.
È un amato compatriota, del mio paese natio;
e tutte le ricchezze del mondo,
le stelle luminose e la luna
non mi faranno mai perdere il suo cuore
o vendere il suo dolce amore.
Ma, ciò nonostante, i sentimenti ed i desideri di donna
mi fanno battere il cuore gioiosamente
al vedere le ombre d’amore negli occhi tuoi
e al sentire il loro desideroso invito.
Perdona, o caro, l’orgoglio del mio cuore
al sentirti bisbigliare dolcemente:
«I tuoi occhi sono profondi e tu sei bella!»
Essenziale nella formazione personale e artistica della poetessa fu anche il suo soggiorno in Inghilterra, dove decise anche di iscriversi ad un corso di Lingua e letteratura inglese presso l’Università di Oxford.
La scoperta di un paese diverso dal proprio dove poteva essere molto più libera fu un’esperienza elettrizzante per l’ormai quarantacinquenne Fadwa Tuqan. Dopo qualche anno, però, iniziò a vedere con disillusione anche l’Inghilterra, che dopo l’entusiasmo iniziale, si rivelò un Paese estraneo. Significativa è questa poesia senza titolo:
Brutto tempo; e il nostro cielo è sempre coperto di nebbia.
Ma dì, di dove sei signorina?
Una Spagnola, forse?
– No, sono della Giordania.
– Scusami, della Giordania, dici?
Non capisco!
– Sono delle colline di Gerusalemme; della Patria della luce e del sole!
– Oh, oh! Capisco; sei un’ebrea!
Ebrea?
Che pugnalata mi ferì al cuore!Una pugnalata tanto crudele e tanto selvaggia!
Tornata finalmente in Palestina, fu allora che iniziò ad impegnarsi attivamente per il suo Paese e diventò realmente una degli esponenti più significativi della letteratura palestinese.
Vi voglio lasciare con una delle poesie a me più care di questo periodo. Si intitola Madinati al-hazina (La mia triste città):
Il giorno in cui vedemmo la morte e il tradimento
l’alta marea si ritirò,
e finestre del cielo si chiusero
e la mia città perse il fiato.
Il giorno in cui si ritirarono le onde
e le bruttezze dei precipizi volsero il volto verso il sole,
s’infiammarono gli occhi della speranza
e la mia triste città
si soffocò di tormento.
Sparirono bimbi e canzoni,
non più ombre né più echi,
e la tristezza andava nuda in mezzo alla mia città
Unità e valore della poesia di Salvatore Quasimodo di Antonio Magliulo
Affermare che Salvatore Quasimodo (1901 – 1968) è da considerarsi fra i “sommi” della poesia contemporanea potrebbe sembrare superfluo, tenuto conto dei prestigiosi riconoscimenti da lui ottenuti nel corso della sua carriera e dell’importanza che l’artista occupa tuttora nel panorama letterario europeo. Eppure, talvolta, nel confronto sempre aperto fra i protagonisti italiani del Novecento, egli sembra leggermente offuscato da nomi di eminenti colleghi, come, ad esempio, Montale e Ungaretti. Ciò, in verità, capita per diversi motivi, così riassumibili:
-la tendenza a considerare il poeta modicano come un allievo, un epigone dell’Ermetismo.
È opinione di molti, infatti, che l’accostamento di Quasimodo ad Ungaretti e Montale sarebbe arbitrario, frutto cioè di un’esemplificazione, di uno schematismo scolastico, sia per il divario anagrafico esistente tra loro, sia per la tardiva adesione dell’artista siciliano alla nuova poesia.
-l’accentuarsi della divaricazione fra letterati e pubblico, prodottasi a partire dagli anni Trenta/Quaranta.
È pur vero che, col palesarsi della poesia ermetica, il linguaggio si impreziosisce, assume significati indecifrabili, allontanandosi ulteriormente dalla massa e isolando ancor più gli autori in un mondo sui generis, aristocratico ed elitario. In effetti, Quasimodo si trova ad operare nella fase più acuta di tale divaricazione e ne diviene, incolpevolmente, uno dei maggiori “imputati”.
-l’abitudine a tenere ancora separate e indipendenti le produzioni quasimodiane, quella anteriore e posteriore alla guerra.
Secondo alcuni (e questo è l’equivoco maggiore da chiarire) la produzione giovanile di Quasimodo mostrerebbe i “limiti” di un evidente ancoraggio alla poetica decadentista e ai suoi stilemi estetizzanti, mentre soltanto l’altra, quella più recente, per la sua forma esplicita e un aperto impegno civile, meriterebbe il riconoscimento che ha.
Effettivamente, in Acque e terre la prima raccolta di Quasimodo, che risale al 1930, non è difficile cogliere delle assonanze con la lirica pascoliana e dannunziana. I versi, sorretti da un’evidente impronta classica e da un “apparato” implicito e sottilmente allusivo (proprio della tendenza poetica del tempo) rappresentano una felice sintesi tra forme vecchie e nuove. Essi rivelano, per altro, la disposizione del poeta a trasfigurare persone, avvenimenti e luoghi lontani, sicché ogni cosa sembra sospesa in una singolare dimensione della memoria, che può essere facilmente confusa con la nostalgia personale. Ma questo modo di comporre, più che da vagheggiamenti meramente intimistici, deriva dalla constatazione del passare del tempo (e della “corrosione” che ciò produce negli uomini) e diviene perciò un dato obiettivo, realistico, che travalica i confini dell’esperienza privata.
Pure la successiva adesione di Quasimodo all’ermetismo [Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936)] è stata oggetto talvolta di rilievo critico. In ciò si è voluto ravvisare una sorta di operazione mimetica, un adeguamento linguistico esteriore, privo di una partecipazione autentica e convinta, funzionale soltanto alle suggestioni dell’epoca, che com’è noto era dominata dall’esigenza di una poesia essenziale, depurata dalle scorie del manierismo e della retorica nazionalistica. Secondo questa interpretazione, la produzione ermetica di Quasimodo parrebbe ridursi o a puro esercizio accademico o a desiderio di superare i grandi maestri, quali erano appunto Montale ed Ungaretti. A guardar bene, si tratta invece di un periodo di studio, di transizione, in cui l’artista ricerca una nuova fisionomia per la sua poesia, secondando così un naturale processo creativo, per cui un autore può volgersi al nuovo, soltanto dopo aver elaborato l’antico.
Il travaglio creativo è però definitivamente superato, non tanto nelle Nuove poesie (1936- 42) che segnano un felice ritorno ad una lirica accorata e sincera, quanto nelle opere Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è sogno (1949) che vengono editate nel dopoguerra ed in cui appaiono, inequivocabili, le tracce di un mutamento formale e contenutistico: la cruda realtà del conflitto ha segnato profondamente il poeta e nei suoi versi trovano ora posto le sofferenze e le speranze dei popoli. A questo periodo appartengono componimenti di esemplare nitore stilistico e di elevato contenuto sociale, come Alle fronde dei salici e Uomo del mio tempo. Da tale “svolta” nasce il cantore della solidarietà umana e dell’impegno civile. Dalla sua manifesta adesione alla vita concreta e dall’aperto schierarsi contro i mali del mondo, Quasimodo trae il suo maggior consenso.
Ma sarebbe un errore limitare il suo valore artistico alla produzione più matura, relativizzando quella precedente e ponendo entrambe in un inconciliabile dicotomia. Ad esaminare attentamente i temi svolti nelle prime raccolte, viene fuori un poeta sensibile, “a tutto tondo”, che si strugge per la propria terra natia, non tanto perché essa è fisicamente lontana, ma perché viene avvertita come Eden o paradiso perduto. Nelle Nuove Poesie, grazie anche ad una forma più distesa ed intelligibile, si capisce perfettamente che l’autore non allude ad un luogo suo esclusivo, ma ad una dimensione comune, a un “approdo” per tutti coloro che, oppressi da una realtà dura ed ostile, ambiscono a ritrovare l’equilibrio interiore e la quiete dell’anima. Ne deriva che la Sicilia cantata dal poeta non è quella reale, ma quella mitica, tutt’uno con la sfolgorante luce dell’antica isola greca, dove le visioni erano certamente più rassicuranti di quelle del presente.
L’autore considera l’uomo un essere imperfetto, un angelo caduto, e perciò vede la generosa sua terra del passato non tanto come entità geografica, ma come un rifugio dal male, dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla stessa solitudine. Per quanto la forma linguistica, oscillante fra classicismo e modernità, possa indurre ad equivoci, nelle Nuove poesie, Quasimodo precorre temi che svilupperà più compiutamente in seguito, nella raccolta: Giorno dopo giorno. Ecco, perché, anche in questa fase del suo itinerario compositivo, egli va considerato pensoso ed impegnato testimone della realtà.
Nemmeno dovrebbe lasciar dubbi sulla portata del suo contributo artistico la parentesi ermetica, che alcuni si affannano a definire “epidermica” e che lui stesso, a un certo punto, sembrò ripudiare. C’è, invece, in quei versi l’impronta dell’universalità, la stimmata dell’autentica arte, un’arte pura e genuina, qual era appunto il fine della nuova poesia. Basti l’esempio della celeberrima: Ed è subito sera (“Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed e’ subito sera“) breve quanto un epigramma greco, ma efficace come soltanto la grande poesia sa essere.
Non è una malinconia fine a se stessa, ovvero quella del poeta tardo-decadente o crepuscolare, né è l’intimo sfogo di un uomo inerte, che gioca ad autocommiserarsi. È invece un disperato richiamo alla solidarietà, alla comunione fra gli uomini (mai così necessaria) e compendia perciò, in un’originale e straordinaria sintesi lirica, le istanze più sentite di un intero secolo e le voci soavi di mille cantori.
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte- Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Editore Laterza
Articolo scritto da Domenico BULFERETTI per la Rivista PEGASO n°5 del 1933 diretta da Ugo Ojetti
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-
Benedetto CROCE
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-
Descrizione-
Nell’indagine crociana si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Biografia di Benedetto Croce
Benedetto CROCE
Biografia di Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952) è stato un filosofo, storico, politico, critico letterario e scrittore italiano, principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano ed esponente del neoidealismo.
Presentò il suo idealismo come «storicismo assoluto», giacché «la filosofia non può essere altro che “filosofia dello spirito” […] e la filosofia dello spirito non può essere altro che “pensiero storico”», ossia «pensiero che ha come contenuto la storia», che rifugge ogni metafisica, la quale è «filosofia di una realtà immutabile trascendente lo spirito». In funzione anti-positivistica, nella filosofia crociana, la scienza diventa la misuratrice della realtà, sottomessa alla filosofia, che invece comprende e spiega il reale.
Con Giovanni Gentile – dal quale lo separarono la concezione filosofica e la posizione politica nei confronti del fascismo dopo il delitto Matteotti – è considerato tra i maggiori protagonisti della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo, in particolare dell’idealismo e del neoidealismo italiano che assieme a Gentile contribuì a fondare, partendo dall’aspra critica fatta al materialismo storico e alla filosofia di Marx in Materialismo storico ed economia marxista.
La dottrina crociana improntata alla storiografia ebbe grande influenza politica sulla cultura italiana; Croce, in particolare, con la sua “religione della libertà, è ricordato come guida morale dell’antifascismo”, tanto che fu anche proposto come Presidente della Repubblica italiana. Fu tra i fondatori del ricostituito Partito Liberale Italiano, insieme con Luigi Einaudi.
Alcune riserve sulla sua estetica, sulla critica letteraria (in particolare sulla sua definizione di «poesia») e sulla superiorità attribuita alla filosofia rispetto alle scienze nell’ambito della logica, tuttavia, sono state espresse in tempi successivi.
D’altra parte, il pensiero di Croce, specialmente quello politico, ha goduto di apprezzamenti più recenti e di una “riscoperta” anche al di fuori dell’Italia, in Europa e nel mondo anglosassone (specialmente gli Stati Uniti d’America), dov’è riconosciuto, al pari di pensatori come Karl Popper, come uno dei più eminenti teorici del liberalismo europeo e un autorevole oppositore di ogni totalitarismo. Il liberalismo politico crociano distinto dal liberismo economico fu causa di disaccordo con un altro importante esponente del liberalismo italiano come Luigi Einaudi.
Biografia di Arturo ONOFRI – Nacque a Roma il 15 settembre 1885 da Vincenzo, romano, e da Beatrice (Bice) Shereider, di origine polacca.
–Fonte Enciclopedia TRECCANI-
Il padre, possidente, poté accedere nel 1897 nei ruoli direttivi della Cassa di risparmio. Tra i componenti la famiglia Arturo ricorderà, nell’Abbozzo di un’autobiografia, una zia Raffaella, monaca a S. Susanna (Vecchio, 1978, p. 143), e uno zio Paolo, morto nel 1902 (ibid., p. 144).
Di estrazione borghese, ebbe un’infanzia agiata fra la capitale, dove frequentò le scuole elementari in via Montecatini, e Castelgandolfo, dove si recava per trascorrere le vacanze estive. Formatosi presso il ginnasio statale Ennio Quirino Visconti di Roma (Banfi et al., 1930, p. 23), si iscrisse al liceo classico di Tivoli nel 1901. Le cartoline e le lettere di questo periodo, indirizzate ai genitori e rimaste inedite, testimoniano la nostalgia di casa e comprendono richieste di libri scolastici, abiti e altro materiale necessario alla sua permanenza fuori porta.
Cominciò a scrivere fin da giovane e pubblicò i primi versi sulla Vita letteraria nel 1904, prendendo a frequentare i ritrovi romani più noti dei letterati dell’epoca, fra cui l’Aragno e il Caffè Greco. Nel 1906 fu a Cittaducale (all’epoca provincia dell’Aquila), poi presso il convento di Palazzolo (nella provincia romana). Nel marzo 1907 uscì la sua prima silloge poetica, Liriche, inclusiva di 31 componimenti scritti fra il 1903 e il 1906, all’insegna della Vita letteraria, ma per i tipi della Tipografia della Biblioteca di cultura liberale di Firenze (riedita nella collana «Opera prima» per Garzanti nel 1948).
Una copia fu spedita alla regina madre Margherita di Savoia, che tramite il suo intendente fece sapere a Vincenzo Onofri di averne gradito la lettura (Roma, Biblioteca nazionale, Fondo Onofri, A. 116: lettera di Vincenzo Onofri ad Arturo del 4 giugno 1907).
Fra le amicizie di quel periodo si segnala quella con il poeta crepuscolare Fausto Maria Martini, ricordato da Vincenzo in una lettera al figlio del 10 maggio 1908 (ibid., A. 119). Martini fu tra i primi a salutare l’esordio poetico di Arturo con uno scritto su La Provincia del 13 giugno 1907.
Nel 1908 pubblicò a Roma i 38 testi della raccolta Poemi tragici, suddivisi in quattro sezioni: Primi poemi tragici, Interludî e poesie, Secondi poemi tragici e Sonetti (più un Commiato non annunciato sul frontespizio). La raccolta, che includeva liriche composte fra il 1906 e il 1907, uscì a spese dell’autore. Canti delle oasi (ibid.), che seguì nel 1909, apparve anch’essa a sue spese: suddivisa in Preludio, Poemi del sole, Momenti varii, Preghiere e Commiato autunnale, includeva 45 testi composti fra il 1907 e il 1908 e fu recensita da Martini ne Il Resto del Carlino del 10 aprile 1909. A partire dallo stesso anno diede inizio alla stesura di un diario filosofico-letterario che, suddiviso in tre parti, Selva (1909-10), Pandaemonium (1910-13), Pensieri e teorie (1925-28), si protrasse fino alla morte e permette di individuare le diverse fasi della sua formazione culturale.
Al febbraio 1910 risale il primo scambio epistolare con Antonio Baldini (Fondo Onofri, A. 764); nell’aprile-maggio dello stesso anno fu a Siena; poco dopo dette avvio a una collaborazione con Nuova Antologia, nella quale pubblicò diversi testi: Promèteo (1° giugno 1910); Fra nuvole e rupi, All’ospite lontana, Epitaffio a mezzo la montagna, Alba alla stazione, A un neonato, Frammento, Primavera, Esasperazione, Nella tregua, Elevazione (16 febbraio 1911); La morte di Rama (16 giugno 1911); Notturni: raccoglimento, L’Angelo, Armonie cittadine, Mattutino, Impeto, Luce (1° gennaio 1912); e, infine, Mischiarsi alle ventate, Luce che sei vita, Piccoli cieli, In figure di mondo, Un profumo in fiore, Capriccio aereo, Sagra del sonno (16 gennaio 1927).
Al 1911 risalgono letture da Walt Whitman, Émile Verhaeren, Dante, Rudyard Kipling, Gabriele D’Annunzio e dalla Bibbia (soprattutto il Vangelo di Giovanni): delle letture whitmaniane, compiute durante una gita sul litorale laziale, diede notizia a Giovanni Papini in una lettera (15 giugno 1911) che segna l’inizio d’una relazione epistolare protrattasi fino al dicembre 1928.
Occasionata da un articolo di Papini, Le speranze di un disperato, apparso nella Voce (n. 24, 15 giugno 1911), la corrispondenza scandì alcune tappe dell’attività letteraria di Onofri (come, ad es., in Lacerba, n. 13, 27 marzo 1915).
Sempre nel 1911, in estate, si concentrò la corrispondenza con il letterato e amico Umberto Fracchia, che gli inviò cartoline e lettere da Costantinopoli, Beirut, Aleppo, Malatia (Fondo Onofri, A. 711-14) e avrebbe continuato a spedirgliene, assieme a sue prose poetiche, almeno fino al 1925 da varie città d’Italia. In particolare, gli autori letti da Fracchia, che si evincono dalle sue lettere, permettono di ricostruire una geografia culturale ‘tardodecadente’ – fatta del Satyricon, di Whitman, Dostoevskij, Walter Pater – cui lo stesso Onofri del resto fu debitore, almeno nella prima fase della sua attività letteraria (ibid, A. 725).
Nel 1912 fondò la rivista Lirica, di cui uscirono 13 fascicoli tra gennaio 1912 e dicembre 1913. La redazione responsabile era composta, oltre allo stesso Onofri, da Rosario E. Brizzi, Armando De Santis, Fracchia e Teofilo Valenti. Il fascicolo unico del 1913 includeva scritti di Onofri, Adolfo De Bosis, Pier Maria Rosso di San Secondo, Aurelio Saffi, Giuseppe Antonio Borgese, Baldini, Vincenzo Cardarelli, Nino Savarese, Giorgio Vigolo, Benedetto Codecasa, Armando De Santis e Fracchia. Su Lirica apparvero firmate da Onofri: Figurazioni del Paradiso: Il sogno, Trionfo di vita (gennaio 1912); Poemi: l’albero delle stelle, Preghiera nella Cappella Sistina (febbraio 1912); Studi spirituali: un esame di coscienza, Maestro e discepolo, Ora di combattimento (marzo 1912); La libertà del verso (aprile 1912); Giorni appassionati: Malinconia, Io, Meriggio d’estate, Addormentarsi, I morti, Ramingo, Gioconda, Grido notturno (giugno 1912); Disamore (luglio-settembre 1912, un lungo racconto composto due anni prima); Nuovi studi spirituali: il germe, Il nostro pane, Realtà e poesia, In chiesa dapertutto, Morbo salubre, Dialogo, Un corpo, Lo spettro indimenticabile, Pietà, Scandalo, Incesso, Gioia del dolore, Vecchio raccoglimento, Il luogo del convegno (ottobre-dicembre 1912); Nuova lirica: letargo, Sera, Città, Mattinata, Un’agonia, Alba (numero unico del Natale 1913).
L’amicizia epistolare con Emilio Cecchi ebbe inizio nel maggio 1912 (sebbene si possa supporre che i due avessero avuto anche precedenti contatti) per concludersi il 20 ottobre 1921. Lo scambio di idee critico-letterarie, originate dalla differente valutazione del libro di Giulio Augusto Levi, Storia del pensiero di Giacomo Leopardi (1911), costituì uno degli argomenti delle prime lettere assieme alla richiesta di prestito, da parte di Cecchi, di alcune edizioni francesi possedute da Onofri. A sua volta Cecchi invitò l’amico a leggere i capitoli, che via via veniva scrivendo per la sua Storia della letteratura inglese nel secolo XIX.
La comune collaborazione a Lirica sancì inoltre l’amicizia fra Onofri e Cardarelli, testimoniata da uno scambio di lettere da cui emergono inizialmente, oltre alle difficoltà economiche di quest’ultimo (Fondo Onofri, A. 251: lettera a Onofri del 21 febbraio 1913), la sua insoddisfazione per quello che veniva componendo (ibid., A. 253: lettera a Onofri del 18 luglio 1913). Nelle missive del 1913 più volte Cardarelli chiese notizie della data di uscita dell’ultimo numero di Lirica, continuando a inviare suoi testi all’amico e mantenendo toni cordiali almeno fino al 1915.
Sempre nel 1913 Onofri aveva cominciato a pubblicare articoli per la Rassegna letteraria del quotidiano Il Popolo romano, dove apparvero Giovanni Pascoli postumo (21 aprile); Il nuovo romanzo di G. Ferrero (5 maggio); Mallarmé, poeta per poeti (19 maggio); D’Annunzio giornalista (2 giugno); Un poeta della natura (16 giugno); Walter Pater (30 giugno); Ricordi eroici (14 luglio); Paul Claudel (28 luglio); Versi liberi (12 agosto); I giardini di Adone (25 agosto); La disfatta (8 settembre); André Gide (22 settembre); Appunti su Flaubert (6 ottobre). Non vi segnalò, tuttavia, il Savonarola di Silvio D’Amico, che questi gli aveva fatto pervenire con preghiera di recensione (Fondo Onofri, A. 2109: lettera del 1° agosto 1913).
Nel maggio 1913 Onofri – che si trovava a Soriano nel Cimino – ricevette dal padre le bozze del secondo volume di Liriche: la raccolta, comprensiva di 69 testi (scritti fra il 1906 e il 1910) uscì a Napoli, per i tipi della Ricciardi, nel novembre successivo. Durante la lontananza da Roma – ove risiedeva già da qualche tempo al n. 61 di via di S. Chiara – fu il padre ad aiutarlo nella revisione delle bozze degli articoli che pubblicava in rivista.
Espletati gli obblighi militari nel 1915 come caporal maggiore nell’Ordine di Malta a Belluno, nel biennio 1915-16 collaborò con La Voce, aderendo se pur temporaneamente al frammentismo e tenendosi in corrispondenza con Giuseppe De Robertis, cui spediva suoi componimenti e dal quale riceveva le pubblicazioni della rivista.
In una delle prime lettere (Fondo Onofri, A. 428: 13 febbraio 1915), De Robertis lamentava le difficili condizioni economiche in cui versavano sia la rivista sia la Libreria della Voce e l’impossibilità di corrispondergli un’adeguata retribuzione. Fu ancora Onofri a introdurre Vigolo a De Robertis (ibid., A. 432: cartolina del 23 marzo 1915).
Nella Voce Onofri pubblicò Usignolo (n. 5, 15 febbraio 1915); Domenica (n. 6, 28 febbraio); Vocazione di morire (n. 7, 15 marzo); Silfo, Sboccio, Cattedrale, Ritratto alla ringhiera, Mattino (n. 9, 15 aprile); Romanzo (n. 10, 30 aprile); Tendenze (n. 12, 15 giugno); Oceanica (n. 13, 15 luglio); Orchestrine: Vendemmia, Acqua, Insonnia, Cortile, Piove, Partenza, Nord, Scampagnata, Pozza (n. 14, 15 agosto); Belvedere: Paesaggio, Luna, Lago, Serata, Fermata inutile, Nebbie, Dopo il bagno (n. 17, 15 novembre); Occhiate: Giuochi, A vista d’occhio, Concerto, Fra due stagioni, Lucertole, Settembre, Concordanze, Grandine, Verso la notte (n. 18, 15 dicembre); Arcipelago: Senz’alba, Cartone, Fine d’inverno, Gocciole, Musica, Notte, Giuochi (31 gennaio 1916); Gruppo: Capodanno, Dal letto, Ritratto, Inverno, Angoscia, Risveglio, Fra i monti, Dita, Astronomia, Indecenza (31 marzo). Fra il 31 gennaio e il 31 agosto 1916 pubblicò inoltre, sempre nella Voce, lo scritto pascoliano Saggio di lettura poetica, in più puntate. Il numero in cui apparve l’ultima ospitava anche un intervento antipascoliano di Cardarelli, che non mancava di lanciare una critica agli estimatori delle Myricae. Sentendosi colpito, Onofri inviò una lettera di protesta a De Robertis (riprodotta in un’epistola a Papini del 16 settembre 1916), cui fece seguire, dopo la breve risposta del direttore della Voce, un telegramma di diffida a pubblicare qualsiasi cosa recasse il suo nome. Nonostante il tentativo di Papini di placarne l’animosità (v. lettera del 22 settembre 1916), Onofri mantenne fermo (risposta in data 25 settembre) il suo atteggiamento di rottura nei confronti della Voce.
Nel progressivo deteriorarsi dei rapporti con la rivista fiorentina, aveva cominciato già da qualche tempo a stringere contatti con l’entourage che faceva capo alla rivista napoletana La Diana, in particolare con il fondatore Gherardo Marone e la direttrice Fiorina Centi.
Quest’ultima, una benestante insegnante di pedagogia, scrisse la prima lettera a Onofri il 31 gennaio 1916, dichiarandosi felice per l’interesse del poeta all’indirizzo della rivista e annunciando la pubblicazione di un suo scritto sul primo numero dell’anno (Fondo Onofri, A. 31).
Nella Diana apparvero: Sereno d’inverno (26 gennaio 1916), Un pino (25 marzo), Saluto di primavera (25 maggio), L’innocenza della natura (31 luglio), Zona di guerra, Sonno, Acquazzone (settembre-ottobre), Toletta, Campagna, Natività, Lago di Nemi (novembre-dicembre), Un bacio, Sera nel viale (marzo 1917). Sempre nel 1916 portò a termine una serie di traduzioni di poesie cinesi (cui aveva dato inizio nel 1914), basandosi su versioni contenute in antologie in lingua inglese (H.A. Giles, Chinese poetry in English verse, 1898) e francese (H. de Saint-Denys, Poésies de l’èpoque des Thang, 1862; J. Gautier, Le livre de Jade, 1867; A. Thalasso, Anthologie de l’amour asiatique, 1907).
Il 29 giugno 1916 sposò Bice Sinibaldi che, con il vezzeggiativo affettuoso di Bicetta, comincia a essere menzionata nelle lettere dei genitori già nel 1914. Da Bice, con cui visse fino alla morte nella sua nuova residenza romana di Lungotevere Castello 3, ebbe i figli Fabrizio e Giorgio.
Il primo, la cui nascita fu salutata in una cartolina di Vigolo del 28 agosto 1917 (Fondo Onofri, A.632), divenne nel secondo dopoguerra un esponente del Partito comunista italiano (PCI) e scrisse la sceneggiatura del film Sacco e Vanzetti (1971), diretto da Giuliano Montaldo.
Nell’imminenza del matrimonio, Onofri era stato costretto ad annullare un incontro, suggerito da Papini, con il matematico e sinologo Giovanni Vacca, dal quale auspicava un aiuto per tradurre alcune poesie cinesi. Ebbe inoltre inizio nell’ottobre 1916, per protrarsi fino al 1927, la corrispondenza fra Onofri e Giovanni Comisso. Quest’ultimo indirizzò le prime lettere da Manzano, dove si trovava al fronte, annunciando la ricezione di un numero della Diana (15 novembre 1916). In una delle sue ultime lettere (25 marzo 1927) Comisso riferì che Enzo Ferrieri, fondatore e direttore della rivista Il Convegno, poi divenuta circolo d’arte e di cultura, sarebbe stato lieto di ospitare Onofri in qualità di relatore a una conferenza, suggerendogli inoltre di inviare poesie da proporre alla rivista (16 aprile 1927).
A Napoli, nel maggio 1917, per le edizioni Libreria della Diana uscì Orchestrine. Inizialmente Onofri aveva pensato a una pubblicazione per i tipi della Voce; tuttavia, prima Papini (che, in lettera del 23 agosto 1916, gli ricordava le condizioni economiche incerte della casa editrice), poi la rottura definitiva con De Robertis, lo spinsero a scegliere un’alternativa. Una copia del volumetto, che comprendeva 95 testi in prosa (più una prefazione), datati fra il 1914 e il 1916, risulta spedita a Papini il 17 giugno 1917.
Intorno al 1918 scoprì l’opera del filosofo ed esoterista austriaco Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia, da cui fu notevolmente influenzato per la successiva produzione poetica: l’adesione al pensiero steineriano è testimoniata, fra l’altro, da appunti autobiografici risalenti al 1920, Miracieli, storia dell’uomo nuovo (Fondo Onofri, GI.4f) e dalla prefazione al volume La scienza occulta nelle sue linee generali (Bari 1924).
Per far fronte ad alcune esigenze economiche svolse, a partire dal 1920 e fino alla morte, il lavoro di impiegato presso la Croce rossa della capitale. In questo periodo conobbe anche Julius Evola, probabilmente alle riunioni del gruppo teosofico ‘Roma’ che si tenevano in via Gregoriana 5.
Una ritrovata tranquillità economica gli permise di dedicarsi con maggiore assiduità alla scrittura e nel 1921 uscì Arioso (38 testi, fra liriche e prose, scritti fra il 1917 e il 1920 e accompagnati da disegni di Deiva De Angelis) per i tipi della Casa d’Arte Bragaglia in Roma. Oltre a Papini, com’era divenuta consuetudine, cui il libro fu subito inviato, fra i destinatari del nuovo volume spiccano i nomi di Aldo Palazzeschi e di Comisso che, da Venezia, promise di consegnarlo a D’Annunzio, trasferitosi da poco al Vittoriale.
Nel 1921-22 Onofri pensò di riunire in un unico volume Orchestrine e Arioso. Durante la seconda metà del 1922 pubblicò una serie di articoli in Le Cronache d’Italia, ove apparvero Dove? e A proposito del «Notturno» di D’Annunzio (20 giugno); «Le Poesie» di G.A. Borgese (20 luglio); Risveglio notturno (5 agosto); Il mistero di Tristano e Isolda (20 agosto-5 settembre); Cronache di poesia: Luciano Folgore, Enrico Thovez (20 settembre-20 ottobre); Saluto a una nuova Italia (novembre); Cronache di poesia: U. Betti, T. Valenti, G. Vigolo (dicembre).
In quegli anni andò diradando le amicizie epistolari e le frequentazioni di circoli letterari. Nel 1923 tentò di accreditarsi, senza successo, per poter pubblicare presso Mondadori: l’amico Fracchia (Fondo Onofri, A. 761: lettera del 18 aprile 1923), all’epoca direttore editoriale, motivò il suo rifiuto con il limitato interesse per la scrittura poetica in Italia. La nuova raccolta – Le trombe d’argento (Lanciano 1924) – prima parte del ciclo antroposofico, uscì dunque per Carabba.
Oggetto di uno scambio epistolare fra Onofri e i due antroposofi Alcibiade Mazzerelli (ottobre 1924) e Lina Schwarz (novembre 1925), ottenne una recensione di Evola sul quotidiano Il Sereno (3 luglio 1924).
Alla luce delle recenti convinzioni steineriane, pianificò la riscrittura di alcuni brani di Orchestrine (prosecuzione del tentativo di riordinamento del 1921-22), tuttavia non diede mai alle stampe una nuova versione della raccolta. Si dedicò, invece, ad alcuni saggi di carattere musicale, che confluirono in Riccardo Wagner: Tristano e Isotta. Guida attraverso il poema e la musica (Milano 1924). Nella rivista di esoterismo Ultra del 27 aprile 1925 pubblicò l’articolo La morte di Rodolfo Steiner. Nello stesso anno uscì, per i tipi della Laterza, il saggio Nuovo rinascimento come arte dell’Io (Bari 1925), cui fece seguito la composizione delle prose liriche del Quaderno di Positano (pubbl., a cura di M. Vigilante, Pistoia 1999). Del 1927 è la pubblicazione dei 150 componimenti inclusi in Terrestrità del sole, che dà il nome al ciclo omonimo, il cui fine – nelle idee dell’autore – era la costruzione concreta di un ‘uomo universale’. La raccolta, edita a Firenze da Vallecchi, fu recensita da Evola sulla rivista di studi religiosi Bilychnis dell’agosto-settembre 1928.
Ennesima testimonianza dei suoi nuovi interessi, sul numero del maggio 1927 di Ur (rivista di scienze esoteriche diretta da Evola) Onofri pubblicò (con lo pseudonimo di Oso) lo scritto Appunti sul Logos. Sui numeri di marzo-aprile 1928 apparvero invece le liriche del polittico Una volontà solare. Nel medesimo anno uscirono suoi componimenti anche nella Fiera letteraria: Sera, Marzo, Una dea, O raggio nascosto!, Con te senza te, L’annunciatore, Tu in me, Notturno (11 marzo); Nove sonetti: Compenso di suoni, La morte del seme, Un teschio, Aria che vive, Bianco, In piccolo e in grande, L’unico, Tu!, Quel raggio (26 agosto).
Il 23 maggio 1928 scrisse a Eugenio Montale che si era detto disposto a fare da intermediario presso la casa editrice Ribet di Torino per la pubblicazione di Vincere il drago! ; nelle sue due repliche da Firenze (25 e 28 maggio) Montale scrisse di avere inoltrato la lettera di Onofri all’avvocato Mario Gromo, responsabile editoriale della Ribet, e che questi aveva accettato la pubblicazione della raccolta. Da parte sua Onofri scrisse a Gromo il 4 giugno, spiegando di non essere in grado di procurare le 50 prenotazioni del volume che il responsabile editoriale gli aveva richiesto quale contropartita per una migliore percentuale sulle vendite. Lo scambio epistolare fra Onofri e Gromo si protrasse fino al 12 giugno, e sancì l’accordo fra i due, sulla base di un’alea fissata ai due quinti per l’editore e ai tre quinti per il poeta. Quest’ultimo fu inoltre in grado di trovare lettori che prenotassero il volume, fra cui il padre, che sottoscrisse l’acquisto di 20 copie.
Il 6 ottobre la Ribet finì di stampare Vincere il drago!, contenente 151 componimenti, ultima opera pubblicata da Onofri in vita.
Morì a Roma il 25 dicembre 1928.
Postumi uscirono i 33 testi poetici di Simili a melodie rapprese in mondo (Roma 1929); le 152 liriche di Zolla ritorna cosmo (Torino 1930); i 164 testi di Suoni del Gral (Roma 1932), nonché gli 83 componimenti inclusi in Aprirsi fiore (s.l. 1935), che chiude il ciclo lirico della «Terrestrità del Sole». L’intero Ciclo lirico della terrestrità del Sole è stato riedito per cura di M. Albertazzi (I-III, Trento 1998-99).
Quasi tutta votata alla scrittura poetica e critica, in quanto non assillata da esigenze di carattere economico (se non nel periodo di impiego presso la Croce rossa), la vita di Onofri si svolse priva di eventi particolari. Una prima fase letteraria (dalle Liriche d’esordio ai Canti delle oasi), in cui sono individuabili qualche eco pascoliana nonché influssi dannunziani e crepuscolari, è distinta dal punto di vista critico dalle collaborazioni a Nuova Antologia e Lirica. Detta fase, già contrassegnata da una certa consapevolezza stilistica (v. l’articolo La libertà del verso), si caratterizza anche per la scoperta delle religioni dell’antichità, conosciute attraverso il volume I grandi iniziati di Edouard Schuré, uscito in traduzione italiana per Laterza nel 1906. Da esso Onofri poté apprendere i miti «di Rama, di Krishna, di Mosè, d’Orfeo, le cui leggende sono studiate e riscoperte secondo canoni esoterici» (Salucci, 1972, p. 57). Una prima fase di transizione coincide con la pubblicazione delle Liriche del 1914, in cui il crepuscolarismo di ascendenza romana (in partic. Sergio Corazzini e Fausto Maria Martini) appare «in netta regressione» (F. Livi, per cui si veda: Donati, 1987, p. 66), e con gli articoli del biennio 1915-16 per la Voce (fra cui quelli su Pascoli, riuniti diversi anni dopo la morte, con prefaz. di E. Cecchi: Lucugnano 1953). Tale fase precede quella di avvicinamento al frammentismo, che culmina con le prose poetiche e i bozzetti di Orchestrine. I testi di Arioso, che seguono, preludono già al ciclo della «Terrestrità del Sole», il grande progetto poetico in cui si individua la novità della produzione onofriana, che risente dell’interesse per la mistica antroposofica di Steiner, conosciuta durante le discussioni in casa di Emmelina De Renzis (una delle traduttrici de La scienza occulta nelle sue linee generali). Elemento dominante, la solarità (simbolo della potenza di Dio), calata sulla terra, diviene emblema di quel rinascimento che è oggetto del saggio del 1925. In esso, attuando una sintesi di neoplatonismo e spiritualismo evoluzionista, è propugnata l’idea che l’arte sia alla stregua di una forma di conoscenza: essa è l’attività più alta dello spirito umano, rivelatrice della natura divina in ogni individuo. Solo attraverso tale forma di conoscenza è possibile una sintesi reale di fede e scienza, di mistica e pratica. Anticipato da Trombe d’argento, che racchiude il «messaggio vibrante» (Fittoni, 1973, p. 56) di questa nuova poesia onofriana, il ciclo mira a esprimere, sin dal titolo della raccolta che gli dà il nome, l’unità del cosmo. Le altre sillogi sviluppano il concetto attraverso il tema della zolla che, «redenta dal sangue di Cristo e dall’azione spirituale dell’uomo», ridiventa «un elemento della divina cosmicità» (Lanza, 1973, p. 156); nonché i temi della lotta contro il male identificato nel mero materialismo (cui alludono eloquentemente i titoli Vincere il drago! e Suoni del Gral), dell’armonia cosmica (Simili a melodie rapprese in mondo) e della palingenesi spirituale (Aprirsi fiore).
Fonti e Bibl.: Dono di Bice, Fabrizio e Giorgio Onofri alla Biblioteca nazionale di Roma (1973), l’archivio del Fondo Onofri riunisce tutto il materiale, manoscritto e a stampa, appartenuto al poeta e ai suoi eredi. L’archivio è suddiviso in sezioni distinte da lettere dell’alfabeto (A: Epistolario; B: Scritti di A. O. dal 1903 al 1925; C: Ciclo lirico della Terrestrità del sole; D: Pubblicazioni letterarie in poesia e prosa su riviste e giornali; E: Studi critici; F: Traduzioni; G: Scritti vari; H: Occulta; I: Documenti e materiali appartenenti ad A. O.; L: Disegni di Antonio Baldini e di Cipriano Efisio Oppo; M: Scritti critici su A. O.). A Bice (morta nel 1976) si deve la trascrizione di Selva, Pandaemonium e Pensieri e teorie, nonché l’attribuzione del titolo all’ultima delle tre parti.
Si vedano, inoltre: A. Banfi et al., A. O., Firenze 1930; A. Luzzatto, Rimbaud, O.,Valéry, Genova 1933; G. Federzoni et al., A. O., in Vesuvio, 1939, febbraio-marzo; S. Salucci, A. O., Firenze 1972; V. Jemolo – M. Morelli, L’Archivio di A. O. presso la Biblioteca nazionale di Roma, in Acc. e Biblioteche d’Italia, XLI (1973), 3, pp. 181-205; M. Fittoni, La visione del mondo di A. O., Messina-Firenze 1973; F. Lanza, A. O., Milano 1973; A. Dolfi, A. O., Firenze 1976; A. Vecchio, A. O. negli scritti critico-estetici inediti, Bergamo 1978 (Abbozzo di un’autobiografia: pp. 143-146); Per A. O.: la tentazione cosmica, a cura di C. Donati, Roma-Napoli 1987 (contiene scritti di: F. Lanza, S. Salucci, M. Del Serra, F. Livi, O. Macrì, A. Dolfi, G. Bàrberi Squarotti); A. Onofri, Corrispondenze con Comisso, Montale, Palazzeschi, Banfi, De Pisis, Evola, Péladan, De Gubernatis, Gromo, Mazzerelli, Schwarz, a cura di M. Albertazzi – M. Vigilante, Trento 1999; Carteggi Cecchi – O. – Papini (1912-1917), a cura di C. D’Alessio, Milano 2000; J. Evola – A. Onofri, Esoterismo e poesia. Lettere e documenti (1924-1930), a cura di M. Beraldo, Roma 2001; M. Vigilante, «Temi e non poemi» di A. O.: il complesso passaggio verso l’ultima fase poetica, in Critica letteraria, 2001, n. 3, pp. 525-533.
di Gabriele Scalessa – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 79 (2013)
– Bino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo Soffici –
Edizione Vallecchi, Firenze 1935
Articolo di Giuseppe De Robertis per la Rivista PAN diretta da Ugo Ojetti- n°4 del 1935-
Bino BINAZZIBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI-Rivista la Brigata
Breve Biografia di Bino Binazzi
Bino BINAZZI-nacque a Figline Valdarno il 12 novembre 1878 e morì a Prato il 1 maggio 1930.Emigrato a Prato da Figline Valdarno all’età di vent’anni, Binazzi non riuscì a completare gli studi universitari per le ristrettezze economiche e dovette accontentarsi, per vivere, di lavorare a lungo come istitutore in vari collegi (tra i quali il Cicognini, dove ebbe modo di insegnare greco e latino al giovane Malaparte). Dotato di una vasta e solida cultura, tenne rubriche di critica letteraria per vari periodici e conobbe, frequentando il caffè fiorentino delle Giubbe Rosse, molti dei più bei nomi della cultura italiana: Svevo, Savinio, Marinetti, Palazzeschi, Moretti, Carrà e Morandi, Papini e Soffici, fino a Dino Campana, di cui intuì subito la grandezza, curando la prima edizione dei “Canti orfici”. Buon poeta egli stesso e acuto saggista, Binazzi, temperamento schivo, non volle mai “promuovere” troppo la sua opera, anche se da questo gliene derivò una costante amarezza, con la sensazione di essere ingiustamente marginalizzato. Fra i suoi scritti più apprezzati, Cose che paiono novelle (1913) e La via della ricchezza (1919). In un’epoca in cui la massoneria attirava ancora gli spiriti liberi – e non soltanto politici, militari, imprenditori, manager e professionisti -, Binazzi fu iniziato a Prato, nel 1906, presso la loggia “Intelligenza e lavoro”; fu anche socialista, benché l’amico Soffici lo dichiarasse, pochi anni dopo la morte, un fascista convinto (forse per guadagnare un po’ di benevolenza verso la figlioletta di lui, rimasta orfana di entrambi i genitori).
Binazzi fu legatissimo alla sua città d’adozione, pur non nominandola spesso nelle sue opere; piace allora lasciare qui la sua figura melanconica con i versi di una delle sue rare serene poesie (Ciro Rosati e Arnaldo Brioni erano due noti insegnanti della R. Scuola professionale di tessitura e tintoria di Prato, poi Istituto Tullio Buzzi):
Io, Rosati e Brioni tre alchimisti atei
o panteisti secondo le occasioni,
in un momento di nostalgia
ci s’era fatti monaci,
ma monaci di lusso
non frati da strapazzo,
in una bianca badia
detta del Buonsollazzo.
Bino Binazzi Insieme a Francesco Meriano, nel 1916 fondò una rivista: “La Brigata”, che però ebbe breve vita. In seguito fu collaboratore del “Nuovo giornale” di Firenze e redattore del “Resto del Carlino”. Già a diciannove anni cominciò a pubblicare volumi di versi che molto debbono al Carducci, al D’Annunzio, al Pascoli e ai poeti crepuscolari.
Canti Orfici di Dino Campana
Bino Binazzi: Gli ultimi bohêmiens d’ltalia. DINO CAMPANA
da «IL RESTO DEL CARLINO» (Bologna), 12-IV-1922
È balzato fuori dalle mie valigie di nomade un libercolo, che mi è particolarmente caro. Una curiosità bibliografica ormai rara a trovarsi che assomma in se le grazie di una brochure francese, e la ingenuità grossa e casalinga del Sesto Caio Baccelli o del Barbanera.
Questo libro è un gran libro. Forse la più potente e originale raccolta di liriche, che abbia prodotto il ventiduennio di questo secolo di burrasche e di bestialità. L’autore? Dino Campana, nome ancor quasi sconosciutissimo, come ho dovuto dolorosamente accorgermi, facendo degli assaggi in certi angoli di penombra, ove ancora si raduna qualche pavido gruppo di giovani dediti alle lettere.
Egli irruppe improvvisamente come una meteora dalle miriadi di colori sotto i cieli alquanto bigi del futurismo prebellico; poi, quando ancora la ecatombe umana non era compiuta, dileguò nelle tenebre della follia. Ma il suo passaggio aveva lasciato fra lo scialbore elettrico e malato della atmosfera letteraria italiana un odor pirico di sagra e di battaglia: battaglia classica, omerica, serena, senza ferocia e senza cretineria. E ai lirizzatori dei colorini delle «mente glaciali» e dei visi flosci dei bardassa e delle veneri volgivaghe aveva insegnato la lirica degli azzurri alpini e delle vastità oceaniche e la bellezza del corpo sodo e seminudo ďun mozzo genovese o ďuna lavandara dell’Appennino, accordante, fra le nevi e fra le rocce, il ritmo del suo stornello di calandra al fiotto della sorgente che alimenta il bozzo limpido alla sua fatica di purificatrice delle umane sozzure.
Ma io non posso e nessuno potrebbe dir della poesia di Campana in modo da farne avere un benché minimo sentore a chi legga. È necessario per farsi un’idea della forza, stranezza, originalità di questa lirica elementare aver sotto gli occhi il libercolo introvabile, ormai; e che nessun editore, tra i tanti editori che vegetano lungo tutto lo stivale, pensa nè penserà mai di ripubblicare.
Intanto come il suo grande antenato Torquato Tasso, Dino Campana, in una cella di manicomio, scrive e scrive; e gli illustri psichiatri, che capiscono di poesia sempre infinitamente meno di quel che un poeta capisca di psichiatria, vietano a critici e ad artisti di esaminare le carte vergate dal pazzo sublime. Quanto più savi i custodi del manicomio di SanťAnna, che permisero almeno libertà e gloria alle liriche del gran recluso, autor della Gerusalemme!
Ma chi potrà dire adeguatamente della lirica di Campana «Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi, dove ancora in alto barbaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi ďoro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi, nell’arabesco di marmo, un mito si cova, che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea?».
Occorre aver letto. E per chi volesse cercare il volumetto raro dirò che esso porta il titolo di Canti Orfici e che fu stampato a Marradi nella tipografia F. Ravagli, l’anno 1914.
*
Fra gli ultimi bohêmiens ďltalia Dino Campana è il più tipico ed il più grande. Nessun altro ebbe una vita di miseria avventurosa da paragonarsi alla sua.
Assillato da un sogno incoercibile di vastità e di libertà, egli ha percorso nel suo trentennio il più lungo e il più doloroso di tutti i calvari. Non ci fu mai città o paese o regione che paresse bastante al respiro gigantesco dei suoi polmoni.
A Marradi, sua città natale, lo conoscono per il figlio strambo – un altro è ben diverso nelle sua modestia e mediocrità di impiegato – del signor direttore delle Scuole.
A Bologna qualcuno lo ricorda studente universitario di chimica, bisbetico ed irascibile, sognante come un alchimista e niente affatto freddo e positivo come uno scienziato. Sovversivo, anarcoide, imperialista, violento e tenero al tempo stesso; di una mobilità sentimentale che percorreva rapida come il fulmine tutta la gamma del sentimento umano: dalla mitezza più francescana alla violenza rasentante, a volte, la ferocia, egli non aveva in se alcuna possibilità di giungere a buon termine nello studio accademico intrapreso. Difatti, dopo aver lasciato dietro di sè una scia di stramberie memorabili, un bel giorno disertò le aule universitarie e il gabinetto delle soluzioni, delle miscele e delle reazioni per studiare una chimica più vasta, che avesse per materia ďesperienza il mondo intero e per gabinetto l’universo.
Anche Shelley fu un chimico mancato. La coincidenza non è fortuita. La chimica è la scienza del mistero e del miracolo. n gran fatto leggendario della Genesi può vedersi riprodotto entro le minuscole dimensioni di una fialetta di vetro o di un crogioletto di platino. Nulla è sostanzialmente più adatto ad attrarre la curiosità di un poeta cosmico; di un grande poeta.
Ma la ragione stessa, che indusse il poeta ad iniziarsi alla disciplina del chimico è quella che ne determina la più o meno sollecita evasione.
Shelley fu espulso dallo studio della scienza per ragioni indipendenti dalla sua volontà. Ma c’è dà giurare che, in ogni modo, egli sarebbe stato un infedele per amor della poesia. Campana la ruppe senz’altro di propria spontanea volontà; quantunque, a volte, nelle sue pellegrinazioni di nomade, sentisse sorgere in se la tarantola di non so quali velleità di innovatore della disciplina abbandonata.
*
Poiché Campana non aveva il módo di poter secondare il suo spleen con viaggi regolari e bene equipaggiati, dovette, con un coraggio davvero inaudito, romperla completamente cogli usi e le costumanze e convenienze della sua classe piccolo-borghese, per entrare nella vera categoria dei girovaghi, ciarlatani, suonatori ambulanti, accattoni, saltimbanchi, truccatori di ogni genere.
In verità il salto nel mondo della «leggera», per un tempera-mento facile alla suggestione come quello del nostro, era alquanto pericoloso.
Era un tuffarsi a capo fitto nei marosi ďun giorno di tempesta, senza aver prima misurato la propria vigoria di nuotatore. Tanto più meritoria ne fu l’audacia, in quanto, sia pure attraverso esperienze inenarrabili, il Campana potè, un giorno, tornare a riva recando alto fra le mani già candide, e ormai arrozzite da mestíeri, cui non erano nate, il rotolo manoscritto dei suoi Canti Orfici.
Ma l’esperienza fu troppo aspra. Di qui l’ottenebramento improvviso delle sue facoltà. Nella diuturna, disumana tensione, parve che la corda centrale della grande lira si fosse spezzata…
*
Ma intanto, nella sua opera si sente per la prima volta la vibrazione lirica dell’anima del nostro popolo migrante in cerca di pane o di fortuna. Entro un ampio periodo strofico si può saltare, attraverso vastità oceaniche, dal silenzio solitario di una estancia argentina con nenie di gauci «suadenti il lontano sonno» alla gaiezza festiva di una primavera fiorentina o all’affaccendamento lieto di un pomeriggio autunnale bolognese, quando
le torri nel tramonto accese
fra il vicendevole vento
di dietro i palazzi vegliano le imprese
gentili del serale animamento.
E risultato più grande di questa sua vita di gaucho, di carbonaio, di minatore, di poliziotto, di zingaro al seguito di una tribù di bossiaki russi, di saltímbanco, di tenitore di un tiro a bersaglio, di sonator ďorganetto e di mille altre diavolerie, fu una cultura linguistica e letteraria veramente di eccezione.
A volte, a sentirlo parlare con un mescolio di frasi appartenenti a tutte le lingue, ci si domandava come poteva fare a ritrovar tutta l’antica bellezza dell’idioma materno.
E nel suo aspetto fisico di paltoniere pareva che ogni razza avesse stampato un suo carattere peculiare. A volte, in momenti in cui i suoi occhi si gonfiavano di tenerezza e la sua faccia appariva stanca, ricordava, colla sua barba incolta, il viso pieno e il naso un po’ corto, la fotografia famosa di Verlaine seduto sotto la pergola dinanzi a un boccale di vino di borgogna; a volte, specie quando incedeva calcando bene i tacchi e arrembando le spalle e girando attorno gli occhi celesti in atto di sagace ed attento raccoglitore di impressioni e di aspetti notabili, era un tedesco spiccicato; spesso il tipo slavo, specie in certi suoi accessi di misticismo caotico e nichilistico si accentuava in modo da farlo parere un figlio genuino della steppa. E le lingue di tutti questi popoli eran da lui si bene possedute da render via via la illusione ancora più perfetta.
*
Quando giunse – diremo così – alla ribalta della notorietà letteraria non era più giovincello. Aveva provata ogni amarezza ed ogni esaltazione umana. Aveva conosciuto il fasto multicolore di mille sagre e di mille kermesses e anche il fondo oscuro di qualche prigione e di qualche manicomio.
Si presentava come un tipo attraente e sconcertante al medesimo tempo. Parlava lento, come se l’italiano che usciva dalla sua bocca fosse la traduzione faticosa da qualche lingua straniera. Pure a certi momenti, quando le facoltà luminose del suo intelletto, accendendosi tutte, lo ponevano in istato di grazia, riusciva a dir delle cose addirittura meravigliose, anche per profondità. Sentenziava di popoli e di stirpi con acume di storico lungimirante, caratterizzava l’arte o la poesia dei vari popoli con pochi tocchi dà maestro. Ma, mentre si aspettava intenti ancora una luce dalla sua parola, la sua bocca si slargava in una sghignazzata faunesca, che aveva un suono sgangherato tutto primordiale.
Ed allora se la prendeva con Tizio o con Caio (con letterati sempre) e poteva anche offendervi e minacciarvi. Poi tornava buono, tenero, piangente. Si umiliava per esaltare altrui, mendicava affetto con disperata trepidazione. Chi sa che cosa vedeva la sua anima, lassù in quella altitudine e in quella vastità, ove egli la aveva condotta? Quali abissi dinotava lo stridulo sarcasmo della sua risata?
Egli era di natura aquilina; e, anche dal fondo dell’inferno, poteva sentirsi sicuro della forza delle sue ali e pensare che l’azzurro era ancora per lui, ogni volta che avesse dato un colpo di ascensione colle remiganti robuste.
Ma un debole, che gli fosse stato vicino in quei momenti non poteva non provare un senso di sgomento.
*
AI suo ingresso nei milieux letterari di Firenze e di Bologna egli non mutò le sue abitudini. Colla sua «nobel tasca de paltone», ove conservava, coi documenti di girovago, un giornale con un articolo del sottoscritto e uno con una nota critica di Cecchi andava di tavolino in tavolino per i caffè più noti a vendere i suoi canti.
E spesso scherniva i compratori; li guardava in faccia scrutandone la natura filistea; poi rideva coi suo riso di bel fauno dorato (a proposito, non ho detto ancora che Campana è un bel giovanotto) strappando pagine al libro venduto, sotto lo specioso e poco lusinghiero pretesto che 1’acquirente non le avrebbe mai capite.
AI Paszkowski, a Firenze, scene gustosissime di questo genere ne successero assai. Tutto il pubblico dei frequentatori lo imparò a conoscere e a considerarlo colla più viva curiosità.
*
Egli, ogni tanto, si appartava dagli amici per leggersi in pace l’articolo mio o la nota di Cecchi. Si calcola che li abbia letti migliaia di volte. Perché era sensibilissimo alla lode; e giungeva anche a sollecitarla con ingenue adulazioni. Ma era difficile che fosse contento, quando qualcuno avesse scritto di lui. Piano piano venne nella persuasione – giusta del resto – di essere un poeta grandissimo e che nessun elogio gli fosse adeguato.
Poi cominciò una specie di mania di persecuzione.
«Son triste a morte e presto morirò, mio caro Bino. Ti mando un grande bacio per tutto il bene che non ci siamo voluti».
É l’ultimo saluto che egli mi inviò – tanto triste! – prima di varcar la soglia di Castel Pulci, succursale della Clinica Psichiatrica fiorentina.
Povero Campana! Chissà chi, fra tutti, sia il pazzo? Egli è in fondo un tradito dalla vita e dagli uomini. Troppo vasta fu la sua visione e troppo anguste le strettoie, ove la meschinità altrui lo costrinse. La sua fatica fu ultra-umana; e la sua angoscia non ha limiti.
Possa almeno la sua grande musa confortarlo qualche volta nello squallore del suo tragico asilo.
E chi sa che egli non trovi più adeguata e dolce compagnia fra il popolo sognante dei suoi compagni di ricovero che fra la bestialità zuccona e sanguinaria delle novissime generazioni, da cui egli un tempo e vanamente sperò gratitudine, plauso e gloria.
Bibliografia:
M. Bartoletti Poggi, “Bino Binazzi”, in “Poeti italiani del Novecento.La vita, le opere, la critica”, a cura di G. Luti, Roma, Nuova Italia scientifica, 1986, pp. 35-36
V. Franchini, “Bino Binazzi- Il poeta, lo scrittore, il giornalista nel quarantesimo della morte in un carteggio inedito con Giovanni Papini, Quaderni de “Lo Sprone”, Firenze, 1970.
Guida agli Archivi delle personalità della cultura in Toscana tra ‘800 e ‘900. L’area fiorentina, a cura di E. CAPANNELLI – E. INSABATO, Firenze, Olschki, 1996, pp. 97-98-
La Poesia e la Pazzia di Campana-Di Giuseppe Ravegnani
Da «La Stampa» di sabato 4 agosto 1928
Quando, sul principio del ‘14, per i rozzi tipi del Ravagli di Marradi uscirono i Canti Orfici di Dino Campana, grande e chiassosa fu l’entusiastica meraviglia, specialmente nei gruppi dei giovani dediti alle lettere. Dei critici di fama, soltanto Emilio Cecchi ne parlò, in un colonnino della Tribuna. Gli altri, silenzio e noncuranza. Così, il nome di Dino Campana, poeta antico, passò, dopo una felice giornata di gloria. Infatti, chi mai ancora oggi ricorda la sgraziata «brochure» giallina, simile più a un lunario paesano che a un libro di canti?
In quei tempi poco tranquilli, di battaglie e di ricerche sperimentali, la poesia aveva un nome solo: Arthur Rimbaud; e la fredda rarefatta luce delle Illuminations o di Une saison en enfer abbacinava la nostra gioventù letterata, guidandola verso un lirismo che fu chiamato puro e mediterraneo. Erano i giorni della Voce di De Robertis e dell’Acerba di Papini; da qualche anno Soffici aveva pubblicato il suo saggio sopra Rimbaud, che allora era sembrato un capolavoro; i volumi gialli del Mercure de France si vendevano come bibbie; e la bohème trionfava nei suoi ultimi rappresentanti.
Di Dino Campana, nato a Marradi, di famiglia agiatamente borghese, e fuggito poco più che ventenne pel mondo, già si favoleggiava. La sua vita agitata, le sue stramberie memorabili, il suo inquieto nomadismo, il suo carattere torbido ed esasperato lo imparentavano con i Varlaine, i Rimbaud, i Corbière, cioè con i tre Re Magi della poesia moderna. Lo si sapeva studente di chimica mancato come Shelley, e come Shelley bello di viso e di corpo, suonatore ambulante d’organetto e di piffero, saltimbanco, ginnasta, gaucho, minatore, zingaro in una tribù di bossiaki russi, tenitore di un tiro a bersaglio, poliziotto, prestigiatore, carbonaio, sovversivo, anarcoide, imperialista, in giro per l’Europa e per le Americhe, ora in un ospedale e ora in un manicomio, ora ricco e ora squattrinato, ribelle a leggi e a costumi, anima in pena in cerca di pane, di poesia e di gloria. Che volete di più? Tanto bastava per farne una specie di mito, una figura di “poeta, maledetto”, uno di quei spettri vaganti, di cui cantò Verlaine nel suo soggiorno a Londra, assieme al poeta del profetico Bateau.
Bino Binazzi, che con amore d’amico ha curato presso il Vallecchi la stampa dell’Opera completa di Campana, aggiungendo ai Canti Orfici le poche poesie della Voce e della Riviera Ligure (Canti Orfici ed altre liriche. Opera completa, con prefazione di Bino Binazzi. Vallecchi editore. Firenze, 1928), così ce ne parla: «E nel suo aspetto fisico di paltoniere pareva che ogni razza avesse stampato un suo carattere peculiare. A volte, in momenti in cui i suoi occhi si gonfiavano di tenerezza e la sua faccia appariva stanca, ricordava colla sua barba incolta, il viso pieno e il naso un po’ corto, la fotografia famosa di Verlaine seduto sotto la pergola dinanzi a un boccale di vino di Borgogna; a volte, specie quando incedeva calcando bene i tacchi e arrembando le spalle e girando attorno gli occhi celesti in atto di sagace ed attento raccoglitore di impressioni e di aspetti notabili, era un tedesco spiccicato; spesso il tipo slavo specie in certi suoi accessi di misticismo caotico e nichilistico, si accentuava in modo da farlo parere un figlio genuino della steppa». Oppure: «sentenziava di popoli e di stirpi con acume di storico lungimirante, caratterizzava l’arte o la poesia dei varii popoli con pochi tocchi da maestro. Ma, mentre si aspettava, intenti ancora, una luce dalla sua parola, la sua bocca si slargava in una sghignazzata faunesca, che aveva un suono sgangherato tutto primordiale». Anche nella pagina scritta, dopo qualche periodo meravigliosamente limpido e perfetto, noi riudiremo cotesta risata, nata dalla misteriosa ombra della follìa.
Spesso, Campana girava per i caffè più in voga, a vendere i suoi canti; e allora, narra sempre Binazzi, egli scherniva i compratori; li guardava in faccia scrutandone la natura filistea; poi rideva col suo riso di bel fauno dorato (a proposito, non ho detto ancora che Campana era un bel giovanotto) strappando pagine al libro venduto, sotto lo specioso e poco lusinghiero pretesto che l’acquirente non le avrebbe mai capite. Al Paskowski, a Firenze, scene gustosissime di questo genere ne successero assai».
Dopo pochi anni dalla pubblicazione dei Canti Orfici, Dino Campana, già tormentato da una specie di buia manìa di persecuzione, venne rinchiuso a Castel Pulci, pazzo.
***
Oggi, a quasi quindici anni di distanza, l’opera di Campana viene a mostrarsi in diversa luce: più ferma e più composta. Se allora, per i gusti dei tempi, essa apparve come la tipica e più alta espressione del modernismo lirico; e perciò applaudita e difesa proprio in quei punti dove la fiamma dell’ispirazione in tenebre crolla; oggi, invece, a chiunque la riguarda senza preconcetti, ma con l’animo di scoprirla nelle sue umili e genuine qualità, si rivela indistruttibilmente classica e antica. Perciò Dino Campana non può essere né Rimbaud né Corbière, perché poeta antico e, pur contro la sua cultura caotica e frammentaria, italico.
Basta il largo, solenne preludio dei Canti a farci avvisati: «Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso».
Classico nel tono, nella misura e sodezza della lingua, e più ancora nei temi e in quel senso vivo di storia e di mito attivi, di religiosa pacatezza, di immortale razza, di regalità invincibile, di purità serena e liliale. Ed è strano come quest’uomo, girovago di tutte le terre, affaticato in ogni duro mestiere, a ogni patria straniero e a sé stesso, che aveva imbastardito il suo con altri dieci lontani linguaggi – egli parlava «con un mescolìo di frasi appartenenti a tutte le lingue!» – rimanesse nativo, perdutamente latino, innamorato delle sue piazze, delle sue donne, delle sue marine. In ciò la fresca antichità delle sue scritture, la nobile compostezza delle sue immagini oh! quelle dame ai balconi «poggiate il puro profilo languidamente nella sera», — l’armoniosa grazia dei suoi casti paesi.
Al suo primo apparire, il senso di questa poesia fu tradito dalla vita del poeta stesso: da quella invadente esperienza romantica che la travagliò e la corrose. La poesia non giunse mai alla costruzione intatta e intera di sé stessa, ma galleggiò frammentaria sulla pagina, franta in gridi, in bagliori, in animamenti evocativi. Ed evocativa, infatti, è sempre la grande arte: quella che riallaccia in onde canore il presente al passato, l’effimero all’eterno. Ora, i Canti Orfici di Campana son fatti di questa intangibile materia lirica, che la singhiozzata esistenza non seppe del tutto velare, ma soltanto spezzare e comunicare attraverso una sintassi povera e secca e per mezzo d’un impressionismo d’intenzioni moderne.
Eppure, nonostante cotesti snaturamenti, quale ricchezza di sintesi in cotesto canto! Quale aderenza e vivezza figurativa! Il poeta, per via d’eliminazioni, giunge alla sostanza pura, all’essenza, alla purità. Talvolta, v’insiste, si ripete, segue svagato i motivi melodici e i centri ispirativi; e allora il periodo si accentra su una parola, come sopra un gorgo. «O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un dio nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno avevi rapito una melodia di carezze».
Questo strano e allucinato giuoco di ellissi, che fors’anche può dare la impressione di una impotenza del poeta a liberare la sua materia lirica da un’ansia strettamente umana, si ripeterà spesse volte, sino a emigrare in regni completamente ermetici e intricati, come nei versi fumosi e stranamente concentrici dedicati a Genova:
Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che Bianca e lieve e tremula salì…
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca…
Bianca quando nel rosso del fanale
bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì…
Chi sa quale visione rarefatta, dalla sua lucida altitudine di veggente, i suoi occhi vedevano, senza che la chiarezza del poeta potesse in qualche modo racchiuderla nei versi?
***
Forse da qui la falsa concezione di Une saison en enfer italiana. Ma, chi si fermasse a simili momenti di brancolante farneticazione, pretendendola vertice di poesia, non saprebbe godere la vera grandezza di Campana. Il quale, nonostante cotesti improvvisi velarii, spalanca compatte e immacolate chiarezze, non soltanto nei frammenti di prosa descrittiva, ma anche nei versi delle sue poche poesie. Ecco, ad esempio, una perfetta quartina: Firenze: Uffizi:
Azzurro l’arco dell’intercolonno
Trema rigato tra i palazzi eccelsi:
Candide righe nell’azzurro: persi
Voli: su bianca gioventù in colonne.
E la piena calda classicità delle Immagini del viaggio e della montagna:
Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte degli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Di selve oscure il torrente
Sòrte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino… E il cuculo col più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino.
Qui, non abbiamo soltanto una poesia d’immagini, come per lo più è quella del Campana; ma s’alzano cotesti versi da una adamantina chiarezza spirituale e da schiette sensazioni che si traducono in musica e architettura. Forse, è cotesto uno dei pochi saggi maggiormente completi dei Canti Orfici: il segno d’una meta, alla quale, col tempo, Campana sarebbe giunto, purificando quell’originale materia lirica, ch’egli impastava dentro l’anima con l’affocato romanticismo delle sue esperienze. L’anelito alla verità, il tormentoso senso religioso della vita, certa stanchezza pessimistica che gli veniva da letture moderne, non gli avrebbero impedito di mettere sempre più a nudo il suo spirito italico, pieno di largo respiro, e affiorante in lui non appena il suo occhio si intratteneva con ogni cosa, che vivesse d’antica storia: le piazze delle vecchie città, i castelli turriti, i porti delle preziose repubbliche, o la fresca Italia paesana, tra colli e pianure, corse dal canto perenne dei fiumi. Ogni suo canto, infatti, è pieno di mito: «Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre all’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea».
E mito sono anche le terre, le donne, i cieli: ogni cosa che il suo istinto infallibile sente vicina al suo cuore, e ch’egli traduce in evocative pitture, da meraviglioso pittore com’egli è. Le Alpi: «mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi, congerie enormi di fede e di sogno, colle mille punte nel cielo; vidi le Alpi levarsi ancora più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infinito del sogno». Bologna: «dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono silenziosamente le lunghe vie. Il malvagio vapore della nebbia intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il saccheggio». Una donna: «ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino».
Quindi, non poesia decadente; né “poeta maledetto” il suo autore, nonostante la parte pittoresca della sua tradita esistenza. Poeta classico, invece, d’una classicità omerica, di quella classicità cioè che nei secoli si perde, luce perenne della nostra razza. In questa luce i Canti Orfici di Dino Campana bruciano, anche se, sopr’essa, spesso la follia stampa la sua bieca ombra.
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