Ogni giorno diventiamo sempre più poveri perché non osserviamo più la natura che è l’opera grandiosa di Dio
Un padre ricco, volendo che suo figlio sapesse che significa essere povero, gli fece passare una giornata con una famiglia di contadini.
Il bambino passò 3 giorni e 3 notti nei campi.
Di ritorno in città, ancora in macchina, il padre gli chiese:
– Che mi dici della tua esperienza?
– Bene – rispose il bambino….
Hai appreso qualcosa ? Insistette il padre.
1 – Che abbiamo un cane e loro ne hanno quattro.
2 – Che abbiamo una piscina con acqua trattata, che arriva in fondo al giardino. Loro hanno un fiume, con acqua cristallina, pesci e altre belle cose.
3- Che abbiamo la luce elettrica nel nostro giardino ma loro hanno le stelle e la luna per illuminarli.
4 – Che il nostro giardino arriva fino al muro. Il loro, fino all’orizzonte.
5 – Che noi compriamo il nostro cibo; loro lo coltivano, lo raccolgono e lo cucinano.
6 – Che noi ascoltiamo CD… Loro ascoltano una sinfonia continua di pappagalli, grilli e altri animali…
…tutto ciò, qualche volta accompagnato dal canto di un vicino che lavora la terra.
7 – Che noi utilizziamo il microonde. Ciò che cucinano loro, ha il sapore del
fuoco LENTO
8 – Che noi per proteggerci viviamo circondati da recinti con allarme… Loro vivono con le porte aperte, protetti dall’amicizia dei loro vicini.
9 – Che noi viviamo collegati al cellulare, al COMPUTER, alla televisione. Loro sono collegati alla vita, al cielo, al sole, all’acqua, ai campi, agli animali, alle loro ombre e alle loro famiglie.
Il padre rimane molto impressionato dai sentimenti del figlio. Alla fine il figlio conclude
– Grazie per avermi insegnato quanto siamo poveri!
Ogni giorno, diventiamo sempre più poveri perché non osserviamo più la natura, che è l’opera grandiosa di Dio.
A 92 anni è morto l’attore e regista Giorgio Albertazzi. Nato a Fiesole nel 1923, aveva debuttato sul palcoscenico nel 1949 in Troilo e Cressida di Shakespeare, con la regia di Luchino Visconti. Ha recitato per più di mezzo secolo. È stato anche protagonista di una trentina di film e di molti spettacoli in tv.
Faustina Minore Imperatrice, sposa di Marco Aurelio, visse a Lorium
Faustina Minore (lat. Anna Galeria Faustina, talvolta detta iunior). Figlia (n. 130 circa – m. 176 d. C.) di Antonino Pio e Faustina Maggiore ; il padre la dette in sposa (145) a Marco Aurelio, suo cugino, e le conferì (146?) il titolo di Augusta. È lodata per il suo sollecito amore verso i numerosi figli (almeno 13) e verso il marito, che accompagnò anche in guerra: fu la prima delle imperatrici romane ad essere insignita del titolo di mater castrorum. Morì a Halala (per questo successivamente chiamata Faustinopoli) in Cappadocia, dove aveva seguito il marito là recatosi per reprimere la ribellione di Avidio Cassio. Fu divinizzata, e in suo onore furono istituite sacerdotesse e furono create le nuove puellae Faustinianae che rinnovarono l’istituzione benefica sorta in memoria della madre. Le fonti antiche, in contrasto coi Ricordi di Marco Aurelio, accusarono calunniosamente F. di dissolutezza. Il suo ritratto ci è noto da molte monete, e da una serie di teste marmoree, nelle quali prevale un’acconciatura con capelli bipartiti in molli ondulazioni discendenti, con bassa crocchia di trecce.
La via Aurelia aveva origine dal ponte Emilio (l’attuale Ponte Rotto), e, dopo aver attraversato il quartiere Trastevere, risaliva il Gianicolo per puntare direttamente sui territori etruschi. Probabilmente, ripercorreva, unificandoli, vecchi tracciati lungo la costa tirrenica con funzione di collegamento tra le città poste sul mare.
Strutturata forse da C. Aurelio Cotta, censore nel 241 a.C., la strada si inoltrava nel territorio della vicina Cerveteri, diventando fin da subito l’asse portante del sistema coloniale (Forum Aurelii e Cosa) e della presenza romana fino a Vulci. Nel territorio settentrionale vennero stabilite le praefecturae di Saturnia, divenuta colonia nel 183 a.C., di Statonia e forse la colonia di Heba. Il suo tracciato da Cosa fu prolungato a Luni e, nel 109 a.C., fino a Genova: da qui manteneva il suo nome fino ad Arles in Francia.
La via Aurelia, nel primo tratto subito dopo il ponte Emilio, a causa della depressione del terreno e dei rischi di impaludamento per il vicino fiume, correva sopraelevata su un viadotto realizzato con arcate in opera quadrata di tufo, alto almeno cinque metri ed esplorato, durante moderni scavi nell’area di piazza Sonnino, per almeno una settantina di metri. Subito dopo, il tracciato antico sembra coincidesse con via della Lungaretta e, in direzione del Gianicolo, con via di Porta S. Pancrazio.
All’altezza di S. Maria in Trastevere una diversa arteria si staccava dall’Aurelia per dirigersi, con un percorso oggi ricalcato da via della Lungara, verso l’ager Vaticanus.
La Porta Aurelia (oggi Porta S. Pancrazio) del circuito della mura di Aureliano fu distrutta, assieme al tracciato della mura stesse, da papa Urbano VIII (1628-1644) che decise di rinforzare le difese della città su questo lato, facendo costruire una nuova e diversa cinta muraria, che, partendo al fiume (presso l’attuale Porta Portese) racchiudesse tutta la zona destra del Tevere fino a congiungersi con le mura già esistenti del Vaticano. La porta di età romana, a unico fornice con due torri quadrate ai lati, è rappresentata in piante di Roma nell’epoca antecedente i lavori di papa Urbano VIII. Oltre la Porta S. Pancrazio il percorso della via antica coincide con l’attuale e in punti diversi sono stati rinvenuti resti del suo lastricato.
Nei vecchi itinerari sui cimiteri cristiani posti lungo la via Aurelia, sono elencate almeno cinque località in cui si trovavano altrettanti santuari dedicati ai martiri: il cimitero di S. Pancrazio, di Calepodio, di Processo e Martiniano, dei due Felici e di Basilide. Con l’esclusione di quest’ultimo, posto al XII miglio dell’Aurelia, in località Castel di Guido, gli altri siti sono da ricercare nel primo tratto extraurbano della via. Un ipogeo, visibile in via S. Pancrazio 15, nei pressi del ristorante Scarpone, noto fin dal 1880, è costituito da una galleria centrale, sei cubicoli e due nicchioni laterali. Nato probabilmente come ipogeo privato a carattere familiare, sembra che si sia trovato inserito in una struttura cimiteriale più vasta con modifiche strutturali assai vistose. Sono ancora parzialmente visibili tracce della decorazione pittorica a carattere floreale dell’ipogeo di età più antica.
Il cimitero di Processo e Martiniano, legato secondo la tradizione alle figure dei due presunti carcerieri pentiti di Pietro, è da collocare nell’area di Villa Abamelek, presso l’ingresso della quale è stato visto anche un ipogeo composto da due gallerie e un cubicolo. La notizia della sepoltura di papa Felice I in un cimitero al II miglio della via Aurelia è riportata nel Liber pontificalis ma è in aperto contrasto con altre fonti. Sembra probabile che almeno Felice II, antipapa, fosse stato sepolto dai suoi seguaci, ad latus forma Traiana, in un complesso cimiteriale oggi individuato con una struttura esistente nell’area della ex vigna Pellegrini o piuttosto sulla sinistra della via Aurelia nell’area della ex vigna Farsetti. Di altri gruppi cimiteriali più piccoli abbiamo traccia nell’area compresa tra l’ingresso della Villa Doria Pamphilj e Villa Vecchia ma non possiamo attribuirli con certezza a un preciso complesso. Poco dopo l’Arco di Tiradiavoli, che segna il passaggio dell’acquedotto Paolo, sulla sinistra, si estende la vasta necropoli di Villa Doria Pamphilj. Nel tratto extraurbano il passaggio della via antica, parzialmente rettificata dal tracciato moderno, è segnato dalla presenza di aree di frammenti fittili relativi a insediamenti sia di carattere agricolo sia residenziale. Il percorso antico si diversifica in particolare dall’attuale in località Castel di Guido dove sembra doversi posizionare il praedium imperiale di Lorium.
Nel 1976, al km 18 della moderna Aurelia, che rappresenta la variante rispetto alla direzione di Castel di Guido, in località Colonnacce, è stata scoperta, ed è attualmente in fase di valorizzazione, una sontuosa villa di età imperiale. Nei pressi del casale la Bottaccia si trovano importanti resti di opere idrauliche: cisterne a cunicoli e conserve per la raccolta dell’acqua piovana, di cui una a pianta circolare con un diametro di m 7,40 posta a 500 m circa a sud-est del casale. Nella stessa località è stato scoperto nel 1987 un mitreo databile al II secolo d.C.
A Castel di Guido, sotto la chiesa di S. Spirito, di cui ne costituisce le fondamenta, si trova un mausoleo in laterizio databile al IV secolo d.C., la cui cella, a pianta circolare, è articolata con grandi nicchie, coperte da volte a botte. Nel 1993, al km 19 furono individuate strutture forse pertinenti all’impianto di una villa rustica o alla mansio di Lorium, ricordata negli itinerari antichi al XII miglio della via antica.
Fiorenzo Catalli
dal libro “ROMA ARCHEOLOGICA” II ed., ADN Kronos libri – Roma 2005
CASTEL DI GUIDO BENE COMUNE
PARROCCHIA DELLO SPIRITO SANTO
Gruppo amici di Don Luigi
Sabato 21 maggio ore 19,00- in piazza- Concerto della Banda musicale della Marina Militare –Dirige il Maestro A.Barbagallo.
FOTO GALLERY di Franco Leggeri-Scalinata della chiesa dello SPIRITO SANTO di Castel di Guido Cerimonia di chiusura Porta Santa della Misericordia. Ilgrande Concerto della Banda musicale della Marina Militare,per il quale dobbiamo ringraziare Don Luigi Bergamin, Parroco di Castel di Guido e il Maestro Dott. Antonio Barbagallo- Direttore della Banda della Marina Militare.
I BUTTERI dell’Azienda agraria di Castel di Guido , del Comune di Roma, governano un nutrito branco di vacche maremmane dalle lunga corna , circa cinquecento, una specie protetta dall’Unione Europea. Nonostante sia stata introdotta qualche modesta forma di modernizzazione , l’allevamento di questi bovini viene tuttora praticato da butteri a cavallo secondo antiche modalità ; nelle diverse operazioni lavorative ( spostamenti, “sbrancamanti”, recupero di capi ecc.), i butteri si servono di fischi, richiami , grida, con cui comunicano (alluccano) con le vacche : frutto di un lungo apprendimento orale fatto di “saperi “e di tecniche tramandati di padre in figlio.
Testo tratto da GRIDA E RICHIAMI : Domenico Frascarelli, Mario Sfascia, Massimo Sfascia-
Roma, Castel di Guido, 29 novembre 2000.Archivio del Centro Regionale per la Documentazione dei Beni culturali e Ambientali , REGIONE LAZIO.
Le foto originali sono di Franco Leggeri- settembre 2012-
Mario Monicelli (Roma, 16 maggio 1915 – Roma, 29 novembre 2010) è stato uno dei più celebri e apprezzati registi italiani. Insieme a Dino Risi e Luigi Comencini, fu uno dei massimi esponenti della commedia all’italiana, che ha contribuito a rendere nota anche all’estero, tanto da vincere numerosi premi cinematografici, riuscendo ad ottenere ben sei candidature al Premio Oscar e, nel 1991 il meritato Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia. La sua commedia all’italiana si poneva in stretta continuità con il Neorealismo di cui raccoglieva l’ispirazione popolare, tanto nei protagonisti quanto nell’ambientazione. In questo senso, ma anche in un’ottica molto più ristretta, gran parte del cinema di Monicelli assume una valenza prettamente politica.
La critica suole individuare l’inizio di tale genere con I soliti ignoti (1958), in cui la narrazione è ambientata in un contesto ultra-popolare (a buon diritto si può parlare di sottoproletariato), che vede all’opera una sgangherata banda di rapinatori di cui fa parte anche Peppe er pantera (Vittorio Gassman), che conclude la sua carriera di ladro facendosi assumere come manovale. L’impegno civile di Monicelli è rintracciabile già in opere precedenti, quali Proibito (1954), ambientato in un paese sardo funestato da una faida, ma che risente ancora di un’impronta ingenuamente positivista, in similitudine con In nome della legge (1948) di Pietro Germi (e di cui Monicelli figura tra gli sceneggiatori) che affronta con il medesimo approccio il ben più complesso fenomeno della mafia. Anche in Un eroe dei nostri tempi (1955), che è ancora un film basato su gag e sketch, possiamo apprezzare un finale che non esita a connotare la polizia e i suoi reparti speciali (largamente adoperati dal governo Scelba) come naturale porto di approdo di un cittadino psicotico e asociale (l’immaturo e succubo della famiglia Alberto Sordi). Nel 1959 Monicelli realizza, oltre al film di tema resistenziale Lettere dei condannati a morte, La grande guerra che pone fine alla trattazione eroica della guerra e mette in evidenza anche la miseria dei sentimenti che muovono le azioni di chi in extremis trova il coraggio di essere, suo malgrado, eroe.
Del 1960 è Risate di gioia che segue le vicissitudini di due povere comparse cinematografiche (Totò e Anna Magnani) coinvolte in un turbinio di tentativi di furti e arriva a esporre con nitidezza, magari con rischio didascalico, una teoria sociologica del crimine. Con I compagni (1963) Monicelli realizza un affresco vivido ed efficace della Torino di fine ‘800 che diviene testimone delle prime lotte operaie e della costituzione dei sindacati nell’Italia che si andava industrializzando, mettendo in rilievo il ruolo reazionario e di classe dello stato post-unitario. Quanti film riescono a parlare dello scontro di classe con la stessa forza e lucidità di I compagni?
L’arrivo degli anni ’70 vede la realizzazione di I colonnelli (1973) che fa esplicito riferimento al golpe Borghese e alle trame stragiste dell’estrema destra alleata con pezzi dello stato. Nel 1976 Monicelli è tra i registi del film collettivo Signore e signori, buonanotte che, seguendo le trasmissioni di una fantomatica emittente televisiva, mette in scena una feroce critica contro la corruzione, i militari e la chiesa. Dello stesso anno è Caro Michele, tratto da un romanzo di Natalia Ginzburg, che affronta in chiave intimistica il tema della lotta armata, collocandosi con maturità nel genere drammatico e anticipando la conclusione dell’esperienza della Commedia all’italiana che avviene per Monicelli con Un borghese piccolo piccolo (1977), incentrato sulle ansie e le insicurezze del ceto piccolo borghese (un misero contesto impiegatizio che vive ristrettezze “operaie” ma con aspirazioni borghesi) disposto a qualunque ignobile compromesso pur di avanzare e non affondare, ma che è condannato ad una disperante solitudine.
Monicelli ritorna all’impegno politico con Un altro mondo è possibile (2001), film collettivo che voleva incaricarsi di raccontare le ambizioni e le proposte dei manifestanti anti G8 di Genova e si è ritrovato a dover raccontare delle brutali repressioni delle forze dell’ordine guidate dal governo Berlusconi, e nell’altro film documentario a regia collettiva Lettere dalla Palestina (2004), dove vengono raccolte alcune testimonianze minime sulla vita nei territori soggetti al dominio israeliano. Anche nel suo ultimo lungometraggio Le rose del deserto (2006) non rinuncia a mostrare i limiti del nostro paese e, narrando le vicende di una compagnia militare di stanza in Africa, riesce a mettere in relazione di continuità la superficialità arrogante dell’esercito fascista con quella di oggi della società italiana, senza rinunciare a mostrare anche il risvolto d’umanità che caratterizza gli italiani, come aveva già fatto con La grande guerra.
L’ideale politico si manifestava anche attraverso esplicite e pubbliche dichiarazioni di voto verso partiti operai: dopo essere lungamente stato socialista fino a prima dell’elezione di Bettino Craxi a segretario, negli ultimi anni si dichiarava sostenitore di Rifondazione Comunista. È rimasta storica la sua intervista fatta ad Annozero il 25 marzo 2010 (la trovate qui: https://www.youtube.com/watch?v=FBZK041EJPk). Rigorosamente ateo e ormai minato da un cancro alla prostata in fase terminale, la sera del 29 novembre 2010 verso le ore 21 decise di togliersi la vita gettandosi nel vuoto dal quinto piano dalla finestra della stanza che occupava del reparto di urologia dell’Ospedale San Giovanni a Roma, dove era ricoverato. Aveva 95 anni. Dopo le commemorazioni civili tenutesi nella sua casa romana al Rione Monti e presso la Casa del cinema, il suo corpo è stato cremato.
OMAGGIO A MARIO MONICELLI E AL SUO CINEMA IMPEGNATO
“Siamo senza speranza. L’aveva già spiegato Pasolini: la speranza è una trappola, usata dal potente politico e religioso per ingabbiare i poveretti, con promesse di futuro benessere o di paradisiaci aldilà. Non c’è alcuna speranza di riscatto per il Paese. Il vero problema non è tanto la classe politica, che è una minoranza, ma questa generazione, che manda giù tutto senza protesta, cullandosi sulle promesse. È tutta una generazione che va cambiata, anzi rigenerata con urgenza.”
(citato in Duellanti, n. 67, gennaio-febbraio 2011, p. 85)
“Io ho una collocazione che è di sinistra, socialista, unitaria, democratica, anticonformista.”
(da Cinquant’anni di cinema)
Roma- Municipio XIII- Castel di Guido-Tra i siti archeologici più interessanti che si trovano sul territorio del Municipio XIII è da annoverare senz’altro lo scavo-museo noto con il nome di Polledrara di Cecanibbio situato a Castel di Guido in un’area che, come lo stesso nome dice, doveva essere una riserva di pascolo destinata all’allevamento di puledri in Via di Cecanibbio, toponimo interpretato come indicativo della presenza in loco di un corso d’acqua sorvolato dal nibbio bruno.
In effetti un antico fiume doveva scorrere davvero in questa zona poiché nel suo alveo, rinvenuto sotto svariati strati di terreno, si sono depositati straordinari resti fossili di antichissimi animali di epoca preistorica (bue primigenio, bufalo, lupo, cervo elafo) ma soprattutto di elefanti antichi per i cui imponenti resti questo sito è considerato uno dei più importanti giacimenti paleontologici attualmente noti nel Lazio, risalente a circa 320.000 anni fa, all’epoca del Pleistocene medio-superiore. Contestualmente, sono stati rinvenuti anche strumenti litici e resti ossei risalenti al Paleolitico Inferiore.
L’area fu individuata begli anni 80 in seguito ad alcune ricognizioni di superficie condotte dalla Soprintendenza Archeologica e si estende per una superficie che supera i 900 mq e gli scavi sono ora in fase di conclusione. I risultati di essi ed i numerosissimi e ben conservati resti fossili hanno determinato – grazie ai finanziamenti stanziati dal MIBAC in occasione del Giubileo del 2000 – la nascita di un Museo che potesse contenerli e proporli all’attenzione del pubblico attraverso adeguati spazi espositivi.
Il giacimento è attualmente aperto al pubblico e può essere visitato dietro prenotazione da effettuare telefonando al numero +39.06.39967700(lunedì-sabato 9-13.30 e 14.30-17), o collegandosi al sito www.archeorm.arti.beniculturali.it
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